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La folle storia del kamikaze che non voleva morire
La folle storia del kamikaze che non voleva morire
La folle storia del kamikaze che non voleva morire
E-book155 pagine2 ore

La folle storia del kamikaze che non voleva morire

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Info su questo ebook

Undici racconti. Dieci storie che raccontano il mondo d’oggi attraverso avventure terribili seppur piene di ironia. Claudio Marinaccio racconta una realtà dalla quale è difficile uscire indenni. Una donna che soffre del delirio di negazione, la fusione tra i due più grossi colossi del mondo multimediale, il tentativo di sintetizzare chimicamente l’amore, zombi, alieni, soldati, padri pronti a tutto e kamikaze che non vogliono morire. Uomini comuni che tentano disperatamente di sopravvivere, nonostante tutto. Marinaccio si dimostra una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea con una scrittura tagliente e diretta, ma soprattutto con il suo modo di raccontare quello che viviamo e che spesso facciamo finta di non vedere.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2018
ISBN9788899815875
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    Anteprima del libro

    La folle storia del kamikaze che non voleva morire - Claudio Marinaccio

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Delirio di negazione

    FooG

    Una giornata da dimenticare

    Una barba lunga un mese

    Il tragico inizio di una storia non banale

    Pelle

    Amore farmacologico

    Un viaggio mentale in una terra desolata

    La folle storia del kamikaze che non voleva morire

    Così diversamente uguali

    La ballata del ladro di anime

    © 2018 Miraggi Edizioni

    via Mazzini 46, 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Illustrazioni in copertina e all’interno di Luca Garonzi

    Finito di stampare a Città di Castello

    nel mese di maggio 2018 da CDC Artigrafiche

    per conto di Miraggi Edizioni

    su carta Book Cream Avorio 80gr.

    Prima edizione digitale: maggio 2018

    isbn 978-88-99815-87-5

    Prima edizione cartacea: maggio 2018

    isbn 978-88-99815-68-4

    golem / racconti

    claudio marinaccio

    La folle storia

    del kamikaze

    che non voleva

    morire

    Per Alan Kurdi e tutti quei bambini

    che muoiono per colpa degli adulti, scusateci.

    C’è una dolce, piccola storia dell’orrore che è lunga

    soltanto due frasi: «L’ultimo uomo sulla Terra sedeva da solo in una stanza.

    Qualcuno bussò alla porta».

    Fredric Brown

    Delirio di negazione

    Franz Reichelt era un sarto austriaco di 33 anni con la passione per il volo, aveva dei grossi e spessi baffi a manubrio, un taglio di capelli che gli faceva sembrare la testa quadrata e due fessure orizzontali al posto degli occhi. La settimana scorsa, con indosso un paracadute di sua invenzione, tentò di volare lanciandosi dalla Torre Eiffel, di mattino presto, circa alle 8.30. Salì sopra uno sgabello posto sul lato interno del primo piano del monumento e dopo qualche secondo di esitazione si lanciò nel vuoto. Il paracadute, che aveva progettato e costruito personalmente, era una sorta di mantello con un grande cappuccio di stoffa. Non si aprì e per questo si schiantò al suolo dopo una caduta di circa sessanta metri, provocando persino un piccolo cratere di una ventina di centimetri.

    All’evento avevano assistito diversi giornalisti della stampa parigina ed era persino stato filmato da due cineprese, il suo fallimento diventò immortale. Dall’autopsia eseguita su quel che rimaneva del corpo spappolato di Reichelt, i medici dichiararono che l’austriaco era morto a causa di un attacco cardiaco poco prima dell’impatto. Personalmente trovavo estremamente divertente quanto accaduto: quando avevo letto la notizia su «Le Petit Journal» ero scoppiato a ridere così tanto che avevo attirato gli sguardi attoniti degli altri clienti del Café de Flore e mi ero dovuto scusare con tutti.

    Ora ero nel mio studio e stavo giocando con il fumo, che era soffice e bianco. Lo facevo scendere in gola e lo fermavo poco prima che mi entrasse nei polmoni, un’anima densa di sapore che dominavo e assaporavo in bocca e nel palato. Fumare la pipa era una questione di equilibri, bisognava effettuare la tirata nell’istante preciso in cui si stava per spegnere, così la brace rimaneva più fredda e il sapore migliore. Avevo sempre immaginato che fumare la pipa fosse come salvare la vita di un uomo che stava per morire, per poi farlo peggiorare e aiutarlo nuovamente, finché non si fosse spento per sempre. Mi sentivo padrone della vita della brace della pipa, mi sentivo importante, speciale, una sorta di dio. Forse per questo ero diventato un medico, perché mi piaceva decidere ed essere responsabile della vita degli altri.

    Ero a conoscenza del modo migliore per fumare perfettamente una pipa perché era l’unica informazione importante che mi aveva insegnato mio padre, l’unica eredità realmente utile che riuscivo a sfruttare. Era un uomo brillante, un avvocato che amava i vizi della vita più della vita stessa e quando rimase senza più fondi per mantenerli, si impiccò in questo stesso studio. Quando entrammo a casa, dopo la solita passeggiata pomeridiana ci precipitammo da nostro padre, come di consueto. Stava dondolando, morto, con la lingua di fuori e le braccia distese adiacenti al corpo, aveva un’espressione buffa, un volto paonazzo e violaceo. Mia mamma urlò, mia sorella urlò, la domestica urlò e a me venne da ridere. Inanimato e appeso per il collo mi sembrava un burattino, pensavo fosse ancora vivo però. Avevo sette anni.

    Ancora oggi, quando ripenso alla scena, mi viene da ridere, un po’ meno se ripenso alle botte che mi diede mia madre il giorno del funerale, perché avevo riso davanti a quella tragedia e non avevo versato neppure una lacrima durante la funzione religiosa. La cicatrice grossa, gonfia e storta che avevo sopra l’occhio sinistro mi rimembrava quotidianamente quel fatto. Un ricordo indelebile inciso sulla carne in malo modo; fu la domestica a suturarmi la ferita, senza lavarsi le mani dopo aver tagliato delle cipolle per il minestrone che avrebbe preparato per cena. Ricordo ancora l’odore acre e pungente delle sue dita sporche che si mischiava a quello rugginoso del mio sangue giovane.

    Fumavo guardando fuori dalla finestra la Torre Eiffel. Più la osservavo e più la odiavo, mi irritava. Per questo osservavo la neve candida che volteggiava morbida e si adagiava delicatamente sulla strada già bianca nella speranza che la coprisse. Purtroppo non bastava la neve per nascondere gli oltre 18 000 pezzi di ferro forgiato e i quasi due milioni e mezzo di bulloni che l’ingegner Gustave Eiffel si era divertito a unire ed elevare verso il cielo, come una moderna torre di Babele. Esattamente venticinque anni fa, insieme a un gruppo di architetti, artisti e intellettuali, tra cui anche il mio amico intimo Guy de Maupassant, inviammo una petizione al ministro dell’Esposizione chiedendogli che fosse abbandonato il progetto per l’inutile e mostruosa Torre, che dal nostro punto di vista avrebbe umiliato tutti gli altri monumenti di Parigi. Non fummo ascoltati e dovemmo accettare di tenerci sulla fronte questo enorme brufolo gonfio e purulento che rovina la bellezza del volto fine, aristocratico ed elegante di Parigi.

    Non ero solo, c’era una delle mie pazienti, la signora X. Lei soffriva di qualche disturbo mentale raro che aveva come sintomi un delirio ansioso da cui emergevano forme dissociative del senso di realtà e di sé. Ad esempio negava l’esistenza di Dio ma anche quella del Diavolo. Continuava a ripetere di essere morta, di non avere più né il cuore né i polmoni. Diceva che lo stomaco e il fegato si erano trasformati in polvere. Sembrava non respirasse mentre scandiva le stesse frasi all’infinito. La sua cantilena, però, mi lasciava indifferente. Le sue parole erano scandite senza emotività, sembrava le avesse imparate a memoria. Aveva uno sguardo freddo, spento e smunto. I suoi occhi azzurri non brillavano, erano opachi e sembravano secchi. Parlava fissando il vuoto stando seduta su una scomoda sedia di legno chiaro con le gambe piegate e le mani aperte sulle ginocchia. Aveva addosso un vestito sgualcito che un tempo doveva essere stato giallo, ora era senz’anima e sembrava riflettere la personalità della donna che lo indossava.

    Le sparai un colpo in testa, mi era sempre piaciuto non deludere le persone, soprattutto i pazienti che avevano famiglie ricche che pagavano in anticipo e in quel caso mi avevano retribuito profumatamente affinché la togliessi di mezzo simulando un suicidio; tanto era pazza e nessuno avrebbe avuto problemi a confermarlo. Nessun parente voleva prenderla in custodia e tutti ambivano alla casa in campagna di sua proprietà, perfetta per le vacanze estive. Cadde in avanti senza vita, era morta per davvero. Incuriosito dalle sue parole ripetute all’infinito, presi il mio coltello da caccia che tenevo nel secondo cassetto della mia scrivania e con la lama pulita e lucente, tagliai la pancia della defunta signora X partendo dall’ombelico e salendo verso lo sterno, la carne era dura e faticai parecchio per aprirla, uscì una nube densa di polvere nera, non c’era sangue e neppure cuore. La vecchia non mi aveva mentito.

    Mi iniettavo regolarmente cocaina e fumavo spesso l’oppio, avevo incominciato grazie al consiglio del Dottor Clapton, un medico americano che avevo conosciuto durante un seminario organizzato dalla multinazionale farmaceutica tedesca Bayer nel 1900. Illustravano l’utilizzo della diacetilmorfina per la cura di malattie neurologiche. Tale sostanza fu ribattezzata eroina, perché la Bayer sosteneva che questo nuovo medicinale non provocasse gli spiacevoli effetti collaterali, come dipendenza e assuefazione, palesati dalla morfina. Lui ne era totalmente dipendente e mi suggerì di utilizzare queste sostanze non solo per aiutare i miei pazienti ma anche per migliorarmi personalmente, sia dal punto di vista professionale che da quello fisico.

    Da allora ero sempre pronto a sperimentare nuove droghe e per questo decisi di raccogliere un po’ di cenere e la misi nel fornello della mia pipa di legno di ciliegio scuro: le parti interne della signora X si amalgamarono perfettamente al tabacco naturale. Accesi un fiammifero e, prima di utilizzarlo per accendere il fuoco, lasciai che lo zolfo bruciasse per non sentirne il gusto. Una volta accesa la brace, aspirai lentamente e, anche se non ero solito farlo, aspirai il fumo a pieni polmoni. Mi venne da tossire e, dopo che incominciai a vedere tutto offuscato e percepii una strana sensazione di smarrimento, fui colto da un malore improvviso che mi fece perdere i sensi.

    La signora X e il signor Y si sposarono molti anni fa, per puro e vero amore. Vivevano a Quillan, un piccolo paese nel sud della Francia, verso il confine spagnolo. Si frequentavano sin da bambini, erano cresciuti nella stessa casa. La famiglia di lei era ricca e nobile, quella di lui di origini umili. Era figlio dei contadini che lavoravano nelle terre adiacenti alla casa, o sarebbe più preciso definirla reggia. Erano molto intimi, nessuno dei due aveva avuto rapporti con altri esseri umani, né fisici né semplicemente affettivi. Avevano condiviso momenti tristi e felici, rimanendo sempre molto uniti e rafforzando il loro legame che era diventato simbiotico. Quando palesarono il loro amore alle rispettive famiglie, furono denigrati da entrambe, quella del signor Y chiese perdono a quella della signora X e quest’ultima impose che il giovane fosse allontanato per sempre dalla casa, volevano per la figlia un marito migliore, almeno per i loro canoni. Loro però non vollero accettare le condizioni imposte e decisero di scappare e si sposarono poco dopo in una piccola chiesa a Rennes-le-Château, non erano più ricchi ma neanche poveri, erano semplicemente felici. Lei rimase incinta nei giorni successivi alle nozze; entrambi avevano aspettato quel momento per consumare la loro passione senza essere considerati peccatori agli occhi di Dio.

    La signora X in quegli anni era bionda, estroversa e con dei bellissimi occhi azzurri che brillavano, lucenti e umidi di vita. Il signor Y era felice di poterla avere al suo fianco e ringraziava il Signor Iddio ogni mattina e ogni sera per quel dono. Quando mancavano ormai solo due mesi alla nascita del loro primo figlio, ebbero un incidente con la carrozza mentre si recavano alla chiesa Santa Maria Maddalena, la stessa dove si sposarono. Era il mercoledì precedente alla prima

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