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Foresteria (For Hysteria)
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E-book191 pagine2 ore

Foresteria (For Hysteria)

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Info su questo ebook

Prendete Airbnb, la più grande industria del turismo extra-alberghiero del mondo. Poi prendete Alex, detto il Proteina, un giornalista che, per sfuggire alla crisi dell’editoria, si è reinventato manager di appartamenti nel centro storico di Roma. Aggiungete la sua improvvisata squadra di collaboratori. Tipi approfittatori, alcolizzati, tossici, con problemi di igiene personale. Metteteci pure un catalogo di turisti capricciosi, paranoici, violenti, nevrotici, dove spiccano escort, coppie clandestine, bulimici, pornomani, cinesi con il Coronavirus. Collocate questa sub-umanità nel Rione Monti, quartiere radical chic della capitale che, nei suoi angoli bui, nasconde storie di furberie, spaccio e piccole truffe quotidiane ai danni degli avventori di passaggio. Ebbene, mischiate tutto e ne viene fuori il ritratto dell’ospitalità imbruttita. Politicamente scorretto, distopico, crepuscolare, tramato di umorismo noir.

Questo è Foresteria [For Hysteria], romanzo d’esordio dell’autore.

Salvatore Dama, laureato in scienze politiche, giornalista professionista. Lavora e ha lavorato per varie testate tra cui Libero, Il Tempo, Panorama, L’Indipendente. Dal 2013 è host di case per vacanze.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2020
ISBN9788831663076
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    Anteprima del libro

    Foresteria (For Hysteria) - Salvatore Dama

    Postilla

    Foresteria

    [For hysteria]

    Sal­va­to­re Da­ma

    A Clau­dio

    Quan­do pen­si che

    sia tut­to sba­glia­to.

    Can­cel­la.

    E sba­glia me­glio.

    PROLOGO

    Quarantotto ore prima.

    Nelle vicinanze del Pantheon

    Ora Ra­shid dor­me. Si è ac­ca­scia­to la­te­ral­men­te sul di­va­net­to. De­ve es­se­re sta­ta una ro­ba im­prov­vi­sa, va­lu­to, per­ché ha an­co­ra in ma­no il suo drink. In real­tà, strin­ge so­lo il bic­chie­re vuo­to. La vo­d­ka è tut­ta ri­ver­sa sul­la ca­mi­cia Ral­ph Lau­ren, com­pre­si un tot di cu­bet­ti di ghiac­cio. Un al­tro ri­vo­lo di Bel­ve­de­re gli esce dal la­to de­stro del­la boc­ca e sta inu­mi­den­do il cu­sci­no di broc­ca­to. Mi av­vi­ci­no al de cuius e con­ti­nuo la re­per­ta­zio­ne. Gli ti­ro su una pal­pe­bra. Ha la pu­pil­la ri­bal­ta­ta. Gli sco­sto il Pa­ne­rai e pren­do il pol­so. Mmm­mh. Non lo so, zio. Ba­gno il mio in­di­ce con la sa­li­va e glie­lo fic­co sot­to al na­so: lo stron­zo re­spi­ra. E’ vi­vo. In co­ma eti­li­co, ma vi­vo.

    Cin­que mi­nu­ti. L’ho la­scia­to da so­lo cin­que mi­nu­ti per an­da­re fuo­ri a fu­ma­re una Iquos e so­no rien­tra­to. Tra­sfer­ta inu­ti­le, ol­tre­tut­to: at­tra­ver­san­do la pi­sta per ri­gua­da­gna­re il pri­vè, ho vi­sto un grup­pet­to di di­ver­sa­men­te ta­ba­gi­sti sva­pa­re den­tro. In que­sto sco­lo di club-fin­to-scic­chet­to­so il suc­ce­da­neo è am­mes­so. Ma l’ho sco­per­to so­lo ex po­st. Be­ne. Dio be­ne­di­ca la ci­vil­tà pra­ti­ca­ta in que­sto lo­ca­le, zio. Ti­ro fuo­ri il pac­chet­to del­le sticks e me ne ac­cen­do un’al­tra. In­tan­to pen­so al da far­si.

    Pri­ma di as­sen­tar­mi, l’emi­ra­ti­no era mar­cio, ma sta­va in pie­di. Bal­la­va quel pez­zo, Joys di Ro­ber­to Su­ra­ce, una gen­ti­le con­ces­sio­ne del dj che, a un cer­to pun­to, ha smes­so di ro­vi­nar­ci la se­ra­ta con la Reg­gae­ton pas­san­do fi­nal­men­te un po’ di Hou­se de­cen­te.

    In­som­ma: fi­no al­le tre Ra­sh era co­scien­te, più o me­no. Uno di noi. E ora me lo ri­tro­vo ca­ta­to­ni­co. L’ami­co.

    Che poi, ami­co... Chi caz­zo lo co­no­sce. Ha fat­to ir­ru­zio­ne nel­la mia vi­ta cir­ca set­te ore fa. Ospi­te di una del­le mie di­mo­re, l’Hea­ven chic apart­ment. Quan­do gli ho con­se­gna­to le chia­vi, è an­da­to drit­to al pun­to: Or­ga­niz­za­mi una se­ra­to­na ro­ma­na, dai. Ov­via­men­te tu sei mio ospi­te.

    Il pri­mo re­tro­pen­sie­ro, my un­cle, è sta­to: que­sto è gay. Co­sa vuoi, non so­no abi­tua­to a tut­ta que­sta li­be­ra­li­tà di­sin­te­res­sa­ta. Non ul­ti­ma­men­te. Poi ho ri­flet­tu­to: que­sto caz­zo­ne con la bar­ba ar­ri­va da un po­sto, Abu Dha­bi, do­ve se sei omo ti ta­glia­no le fa­lan­gi. E le sue ma­ni mi sem­bra­no ap­po­sto. 

    I re­si­dui dub­bi sull’orien­ta­men­to ses­sua­le li ha fu­ga­ti lui quan­do ha ac­ce­so la Smart tv, aper­to il bro­w­ser e scrit­to nel­la ri­cer­ca di Goo­gle le pa­ro­le: Por­n­hub, Hor­ney wi­fe e bbc.

    Ok. Chia­ri­to in­fi­ne il fat­to che il por­no­ma­ne avreb­be pa­ga­to ri­sto­ran­te e club con i suoi pe­tro­dol­la­ri, ho im­ba­sti­to il me­glio che c’era su piaz­za di sa­ba­to se­ra. Pre­no­ta­zio­ne per tre al De­sti­no. Ce­na fu­sion e ta­vo­lo in di­sco. Il mi­glio­re che han­no, si era rac­co­man­da­to il si­gnor be­ne­fat­to­re. E co­sì ho fat­to.

    Ed ec­co­lo qui, il mio co­glio­ne quat­tri­na­io ara­bo: dor­me col­las­sa­to sul pal­co, af­fian­co al­la con­so­le, il­lu­mi­na­to di vio­la dal­le lu­ci spot, men­tre cac­cia dal­la sua fo­gna di boc­ca una ba­vet­ta mi­sta di sa­li­va e vo­d­ka to­nic. Espo­sto al pub­bli­co lu­di­brio. Ci sa­reb­be da ri­de­re, se non fos­se un caz­zo di pro­ble­ma mio.

    Per quan­to ne so, Ra­shid e il suo com­pa­re Omar non han­no mai smes­so di be­re nel­le ul­ti­me do­di­ci ore. Han­no co­min­cia­to a trin­ca­re sul­la fir­st di Emi­ra­tes. Do­ve ipo­tiz­zo che il Pro­fe­ta non ab­bia giu­ri­sdi­zio­ne. Quat­tro whi­skey and co­la. A te­sta. Poi, ar­ri­va­ti a de­sti­na­zio­ne, han­no pro­se­gui­to con una in­dia­na­ta.

    Al­le 21, quan­do va­do a re­cu­pe­ra­re le mie gue­st stars a do­mi­ci­lio per por­tar­le al De­sti­no club, fac­cio una ra­pi­da va­lu­ta­zio­ne del dan­no: sul top del­la cu­ci­na ci so­no sei ca­da­ve­ri di Du De­mon, una bot­ti­glia di vi­no ros­so friz­zan­te, ti­po Ta­ver­nel­lo, e dei Ba­car­di Bree­zer che i due vi­zio­si han­no cor­ret­to con l’ag­giun­ta di Ab­so­lut.

    Omar col­las­sa a ce­na. Ap­pe­na la ca­me­rie­ra gli met­te sot­to al na­so la ce­vi­che di ton­no, ha un co­na­to e cor­re al ces­so a sboc­ca­re. Tor­na les­so, chie­de un ta­xi in re­cep­tion e si dà. Non pri­ma di la­scia­re un pez­zo­ne da cin­quan­ta al ban­gla in­ca­ri­ca­to di ri­pu­li­re lo schi­fo che ha com­bi­na­to in toi­let. Pu­re po­co, co­me man­cia, vi­sto l’in­de­gno la­vo­ro da fa­re col suo sbrat­to. 

    Ra­sh in­ve­ce tie­ne cla­mo­ro­sa­men­te bot­ta. E’ un ro­to­lo­ne asciu­ga­tut­to. Man­co si sie­de e chie­de su­bi­to un Cam­pa­ri Spri­tz. Poi apre la li­sta dei vi­ni e or­di­na un Bar­be­ra da 120 pip­pi.

    Alex, tu co­sa be­vi?, mi fa uno sguar­do obli­quo, rea­liz­zan­do  che il sot­to­scrit­to è an­co­ra a go­la sec­ca. 

    In real­tà nien­te. Ma pa­re brut­to ri­fiu­ta­re l’ospi­ta­li­tà: Bol­li­ci­ne. Un bic­chie­re di Fran­cia­cor­ta. Mi ac­cor­go che la tra­chea ha par­to­ri­to una vo­ce qua­si ras­se­gna­ta.

    Ora il mio com­men­sa­le fin­ge di in­te­res­sar­si all’og­get­to mi­ste­rio­so che ha da­van­ti: Dim­mi, quan­ti ap­par­ta­men­ti hai?.

    Die­ci. Ehm, do­di­ci in real­tà. Scar­to l’ipo­te­si che il ti­zio pos­sa es­se­re un agen­te di Equi­ta­lia tra­ve­sti­to da na­bab­bo. E par­lo li­be­ra­men­te.

    "Cool! E’ un bel bu­si­ness a Ro­ma. De­vi gua­da­gna­re mol­to be­ne, im­ma­gi­no", si fo­men­ta l’ara­bo, lu­man­do­mi il Ro­lex. 

    Be’, di­cia­mo che rie­sco a ri­me­dia­re un piat­to di pa­sta a ta­vo­la tut­ti i gior­ni, fac­cio il bril­lan­to­ne. Col­caz­zo, ca­ro il mio Sad­dam Hus­sein, qui è ca­re­stia. Gen­na­io. Bas­sa sta­gio­ne. Non ci co­pro man­co le spe­se que­sto me­se.

    Mai sta­to ne­gli Emi­ra­ti?, con­ti­nua l’in­ter­ro­ga­to­rio.

    Ne­ga­ti­vo. Viag­gio po­co. La dit­ta mi as­sor­be tut­to il tem­po. Non è so­lo l’ac­co­glien­za, be­lo. E non so per­ché mi sto sfo­gan­do con que­sto buz­zur­ro. La par­te du­ra è l’as­si­sten­za du­ran­te il sog­gior­no, so­no as­se­dia­to dal­le ri­chie­ste de­gli ospi­ti. Il lo­ro giu­di­zio è fon­da­men­ta­le per la mia cre­di­bi­li­tà su Airbnb. Ne so­no di­ven­ta­to schia­vo. Cer­co di ac­con­ten­ta­re tut­ti, ma….

    Bloc­co la par­lan­ti­na quan­do mi ren­do con­to che sto dan­do del ca­ca­caz­zi an­che al bar­bo­ne che sie­de qui da­van­ti. Ma tan­to Ra­shid non mi sta ascol­tan­do. La sua at­ten­zio­ne ora è ra­pi­ta da un ta­vo­lo, tut­te don­ne, qui di fian­co.

    Pro­fes­sio­ni­ste, zio. Lo ca­pi­sco dai lam­pi che lan­cia­no con gli oc­chi al mio com­pa­re. Bel­lo, non è bel­lo. E non è man­co un ti­po. Ma ha quell’ac­cen­to in­gle­se del Gol­fo Per­si­co che la­scia in­ten­de­re una im­por­tan­te far­ci­tu­ra del por­ta­fo­glio. Le si­gno­ri­ne han­no cap­ta­to. E se lo man­gia­no con gli oc­chi. Io? Al mo­men­to so­no tra­spa­ren­te, mon on­cle. La bri­ga­ta in tac­co do­di­ci de­ve aver­mi ru­bri­ca­to co­me una sor­ta di at­ten­den­te lo­ca­le. Per cui, ben­ché gnoc­co, non so­no de­gno di at­ten­zio­ni.

    Ra­chid pe­rò sta trop­po smer­da­to per at­tac­ca­re bot­to­ne. Al­col e stan­chez­za ini­zia­no a far­si sen­ti­re.

    Ades­so ci vor­reb­be qual­co­sa per ri­pren­der­mi..., si ro­tea l’in­di­ce in­tor­no al na­so, mi guar­da e sor­ri­de con i suoi den­to­ni gial­li da 30 Marl­bo­ro ros­se al gior­no.

    Alt, bel­lo. Ok pro­strar­mi al clien­te per quel­la ma­le­det­ta re­cen­sio­ne a cin­que stel­le. Mi ri­du­co an­che a fa­re la da­ma di com­pa­gnia, va be­ne, no pro­blem. Ma pu­sher no. Non ri­schio il pe­na­le per gra­ti­fi­ca­re la tua na­sca aqui­li­na. La­scio ca­de­re il di­scor­so, fa­cen­do fin­ta di non aver ca­pi­to. Lo­st in trans­la­tion.

    Mi guar­da de­lu­so. Fic­ca la te­sta nel piat­to e or­di­na: Ce­nia­mo in fret­ta, ho vo­glia di bal­la­re.

    Tre ore do­po, una car­cas­sa im­mo­bi­le è ciò che re­sta di lui. For­tu­na che ha già pa­ga­to, pen­so. Per­ché in que­sto ca­ca­to­io si fi­da­no po­co: pri­ma di dar­ti il ta­vo­lo, al De­sti­no, pre­le­va­no un fi­do dal­la car­ta di quat­tro cen­to­ni. E, vi­sto co­me si è con­cia­to Ra­sh-boy, non han­no tut­ti i tor­ti. Io, in­ve­ce, so­no suf­fi­cien­te­men­te so­brio da por­mi il pro­ble­ma di co­me tra­sci­na­re a ca­sa il ta­le­ba­no. Dal kit con bot­ti­glia ho at­tin­to so­lo ac­qua to­ni­ca e mez­za Red­bull. Ma so­no stan­co e il dj ha ri­co­min­cia­to a met­te­re mu­si­ca di mer­da.

    Te­lo e lo la­scio qui. E’ de­ci­so. Ci pen­se­ran­no gli ad­det­ti al­le pu­li­zie, do­ma­ni mat­ti­na, a tra­sci­nar­lo via con i sac­chi dell’in­dif­fe­ren­zia­ta. Chem­me­fre­ga. Men­tre cer­co in ta­sca la fi­che del guar­da­ro­ba, lo stron­zo si ti­ra su co­me un fu­so. Fac­cia in­de­mo­nia­ta. Si guar­da in­tor­no cer­can­do me con lo sguar­do. Poi met­te a fuo­co la mia sa­go­ma e fa per av­vi­ci­nar­si. Sen­to la sua ma­no­na sul­la spal­la e, a se­gui­re, tut­to il pe­so del suo cor­po al­co­liz­za­to. Si ag­grap­pa. Qua­si per­do l’equi­li­brio.

    L’ara­bo ades­so fic­ca la sua boc­ca nel mio orec­chio e sbia­sci­ca: Alex, vo­glio trom­ba­re!. Sen­to l’ali­to fe­ti­do e mi al­lon­ta­no di scat­to cer­can­do aria buo­na da re­spi­ra­re. Ma nien­te: ha ap­pe­sta­to tut­to l’os­si­ge­no che è in­tor­no a me.

    Ora so­no io che mi av­vi­ci­no al suo ven­tre au­ri­co­la­re: "Mi di­spia­ce, sir, ma non sei il mio ti­po".

    Sbot­ta a ri­de­re. Mi mo­stra di nuo­vo le pa­gi­ne gial­le che ha in boc­ca. Poi pro­va a dar­mi il cin­que, ma si ri­bal­ta e ca­sca in­die­tro sul­la pol­tro­na.

    E nien­te, non si ar­ren­de. Tor­na al­la ca­ri­ca. Mi af­fer­ra per un brac­cio e mi ti­ra ver­so di lui. Con l’al­tra ma­no si sta ra­va­nan­do la ta­sca. Mi al­lun­ga due cen­to­ni stro­pic­cia­ti e par­te con l’or­di­na­zio­ne: "Tro­va una, vai!".

    Ma por­co caz­zo. Pu­re il le­no­ne! Lo sto per man­da­re a ca­ga­re, ma poi pen­so che tro­var­gli com­pa­gnia è l’uni­co mo­do per le­var­me­lo di tor­no. Guar­do la sa­la. Del bat­ta­glio­ne di pret­ty wo­man di pri­ma ne è ri­ma­sta so­lo una. Sie­de scoc­cia­ta su un di­va­net­to men­tre com­pul­sa In­sta­gram dal te­le­fo­no. Le al­tre avran­no già so­cia­liz­za­to, sup­pon­go. Que­sta è mia! La ag­gan­cio al vo­lo.

    Ti of­fro da be­re, co­sa vuoi?, le chie­do.

    "Gra­zie, be­lo, vo­d­ka red­bull", ri­spon­de ra­pi­da.

    Ac­cen­to bra­si­lia­no. Mo­ra, oc­chi ver­di, ma so­no len­ti­ne co­lo­ra­te. Ap­pe­na si al­za le fac­cio una tac com­ple­ta. Ta­glia 44. Tu­bi­no mar­ro­ne cor­to. Trop­po ade­ren­te. La ly­cra ri­ve­la i bu­chi di cel­lu­li­te che ha sul cu­lo. Tet­te ri­fat­te, ma chi­rur­gia su­da­me­ri­ca­na, zio. Quin­di ro­ba di se­rie b. An­che su­gli ac­ces­so­ri sia­mo mes­si ma­le: Lou­bou­tin car­ne e Cha­nel ba­guet­te so­no dram­ma­ti­ca­men­te ta­roc­che.

    Le pre­pa­ro il be­ve­rag­gio. Mi­xo un goc­cio di vo­d­ka, quel­lo che l’ani­ma­le ha la­scia­to, e tre par­ti di li­qui­do ener­giz­zan­te. Re­cu­pe­ro i cu­bet­ti di ghiac­cio dal di­va­no do­ve ave­va col­las­sa­to Ra­chid. Gi­ro con la can­nuc­cia e ser­vo.

    Co­me ti chia­mi?, le por­go que­sta por­che­ria im­be­vi­bi­le.

    Aman­da, te­so­ri­no, ma… io sto qui per la­vo­ra­re, eh, no chiac­chie­re.

    La guar­do e sor­ri­do. Le sto per ri­spon­de­re an­che io, ma evi­to. La co­sa po­si­ti­va è che Miss Buc­cia d’aran­cia ha ta­glia­to su­bi­to cor­to con la fa­se del cor­teg­gia­men­to, an­dan­do drit­ta al so­do.

    Ok, ma non è per me. C’è qui il mio ami­co che…

    "So­no tre­scen­to, amo­re", mi stop­pa di nuo­vo la fa­vel­la.

    Be­ne. Sia­mo un fi­lo fuo­ri bud­get, ma so­no le tre e mez­za del mat­ti­no e Lia de Ba­hia qui, se non si spic­cia a ri­me­dia­re un ci­trul­lo, ri­schia di met­te­re uno ze­ro in agen­da. Dun­que c’è mar­gi­ne per ne­go­zia­re. Co­sì, al­la fi­ne, Aman­do­na si ac­con­ten­ta del fru­scian­te che ho in ma­no. Di mio, le do un ven­tel­lo per il ta­xi e le chia­vi di ca­sa do­ve de­po­si­ta­re il mio zom­bie ara­bo, rac­co­man­dan­do­le di non fa­re ca­cia­ra nel pa­laz­zo a ope­ra­zio­ne con­clu­sa.

    Ades­so pe­rò la me­re­tri­ce ha ca­pi­to che ge­sti­sco un via vai di gen­ta­glia quat­tri­na­ia e in­si­ste per dar­mi il suo nu­me­ro.  Gra­zie per la fi­du­cia, bel­la, ma fa­re il pap­pa non è tra le mie mas­si­me am­bi­zio­ni pro­fes­sio­na­li. Fac­cio fin­ta di se­gnar­mi l’uten­za men­tre con­trol­lo la po­sta Gmail.  L’ul­ti­mo step dell’ope­ra­zio­ne è ria­ni­ma­re Ra­chid, che nel frat­tem­po si è riad­dor­men­ta­to. Gli do una ma­na­ta in fac­cia, lo ti­ro su per la col­lot­to­la e lo met­to sot­to­brac­cio al­la sua don­zel­la.

    Poi do­ma­ni mi rac­con­ti, cam­pio­ne, lo per­cu­lo. Ma lui non ha nean­che la for­za di ghi­gna­re, ora­mai.

    Men­tre lu­mo i due spa­ri­re nel­la cal­ca del­la pi­sta, in­cro­cio lo sguar­do di que­sta ti­pa. De­ve aver as­si­sti­to a tut­ta la sce­na e mi guar­da schi­fa­ta. In­si­ste. Con­ti­nua a te­ner­mi ad­dos­so que­sti due oc­chi di bia­si­mo. Al­lo­ra scen­do dal tre­spo­lo del pri­vè e la af­fer­ro per un brac­cio.

    Caz­zo vuoi, eh?, le ur­lo, fa­cen­do­mi lar­go con la vo­ce tra i beat dell’elet­tro­ni­ca. "Co­sa pen­si, che mi di­ver­to? Io fa­ce­vo il gior­na­li­sta. Poi la cri­si dell’edi­to­ria, la gen­te co­me te che non leg­ge i gior­na­li, che si ab­be­ve­ra del­le caz­za­te di

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