Giovanni Palatucci. Una vita da (ri)scoprire
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Anteprima del libro
Giovanni Palatucci. Una vita da (ri)scoprire - Nazareno Giusti
edizioni
Copyright
Proprietà letteraria riservata
© 2020 Argot edizioni | Andrea Giannasi editore
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
ISBN 97888832281354
dedica
Noi non abbiamo ricevuto la missione di far trionfare la verità, ma di combattere per essa
.
Paolo di Tarso
Ricordarsi che cosa vuol dire? Far rivivere un passato, illuminare volti e avvenimenti di una luce bianca e nera, dire no alla sabbia che ricopre le parole, dire no all’oblio
.
Elie Wiesel
In ricordo di Goffredo Raimo e di Antonio Manganelli.
A chi combatte per una giusta Memoria.
Premessa
Mettiamo subito in chiaro le cose: non sono un ricercatore, non sono uno storico né tanto meno un docente universitario. Casualmente, per merito di altri, mi sono avvicinato alla vicenda di Giovanni Palatucci e mi sono sentito in dovere di tramandare la sua storia attraverso il linguaggio del fumetto e, di seguire la sua storia, anche successivamente, da un punto di vista giornalistico. Durante questi anni ho conosciuto tante persone che a loro volta avevano «incontrato» la storia di Palatucci e ne erano rimaste affascinate. Proprio durante uno di questi incontri, a Trieste, con Ennio Di Francesco e Sergio Schirinzi, nel giugno scorso, sono venuto a sapere delle accuse rivolte a Palatucci provenienti da New York. Titoli eclatanti, accuse infamanti che sono rimbalzate sulle principali testate internazionali. Il «Corriere della Sera», ad esempio titolava: «Palatucci non fu un Giusto
. Yad Vashem riapre la questione. Escluso da una mostra in Usa. E il Vaticano studia il caso».
Gli faceva eco la testata «Huffington Post»: «Non ci sono prove che
abbia salvato centinaia di ebrei».
Per quanto riguarda la stampa estera, ad esempio il «Daily Mail» affermava: «New evidence suggests ‘Italy’s Schindler’ who was honoured for saving 5,000 Jews during World War Two may have been a collaborator sending families to Auschwitz». Ovvero: «Nuove prove dimostrano che lo Schindler d’Italia
, onorato per aver salvato cinquemila ebrei durante la Seconda guerra mondiale potrebbe essere stato un collaborazionista che inviò le famiglie ad Auschwitz».
Ma come? Cosa era successo?
Dopo aver approfondito la notizia e verificate le reali accuse che mi sono sembrate, da subito, in gran parte infondate (e mai smentite dai diretti interessati), mi sono sentito in dovere di rispondere, nel mio piccolo, attraverso la rubrica Le Storie di Ieri del quotidiano online «LoSchermo.it».
L’articolo ha avuto un certo consenso e mi ha fatto conoscere altre persone che si sono sentite in dovere di prendere posizione e difesa di Palatucci. Ne è nato un altro articolo e altre conoscenze. Mi sono accorto, piano piano, che c’era tanto materiale che andava conservato, che non andava perso. Mi sono messo, allora, a intervistare tutte queste persone. Senza un’idea precisa di come avrei utilizzato questi interventi. Quando ho avuto tutto il materiale che mi occorreva ho deciso che la cosa migliore sarebbe stata quella di raccoglierlo in un’unica pubblicazione.
Un libro che (attenzione!) non è un instant book ma è un libro fatto per, cercare di, rimanere e per, cercare di, aiutare chi, nei prossimi anni, si avvicinerà alla figura di Palatucci. Una raccolta di testimonianze autorevoli. Piccoli tasselli che vanno a comporre un mosaico in costruzione. Perché sicuramente sulla figura di Palatucci c’è ancora molto da lavorare e questo libro non ha la pretesa di essere definitivo. Anzi, non è altro che un work in progress. Un contributo per far luce su una figura interessante che, speriamo, potrà essere di aiuto nei prossimi anni per approfondire ancora di più studi e ricerche. Però, quello che mi premeva, era anche chiarire certi errori
o peggio certe affermazioni
a dir poco discutibili. Una volta per tutte.
Introduzione
La figura di Giovanni Palatucci è sempre stata sotto attacco
. Lo ammetteva anche Massimo Occello, ex funzionario del Viminale, per 15 anni direttore della rivista «Polizia moderna», a Angelo Picariello, in un’intervista del giugno 2013. Lui, che seguì le iniziali ricerche su Palatucci e la pubblicazione del libro Giovanni Palatucci. Il poliziotto che salvò migliaia di ebrei, affermava che Ferdinando Masone, allora Capo della Polizia, si era reso conto che la ricostruzione della figura del giovane funzionario realizzata, per forza di cose su fonti per lo più orali, avrebbe fornito buone occasioni per i detrattori di turno. E, in effetti, così è stato. Nel corso degli anni, mentre la figura del poliziotto irpino cominciava ad essere nota al grande pubblico, sempre, in sottofondo, ci sono state critiche o illazioni.
A volte con tesi interessanti, spesso con motivazioni al limite del ridicolo.
Ora, affrontando la figura di Palatucci bisogna tenere conto di alcune cose e ragionare con la logica e non con l’ideologia! Intanto, la sua opera avvenne in totale segreto, quindi non si hanno, logicamente, al di là di testimonianze orali, documenti concreti che dimostrino i suoi salvataggi. Inoltre non bisogna dimenticare il contesto, la zona geografica e il periodo storico in cui agì: Fiume, negli anni a cavallo tra Trenta e Quaranta del secolo breve
, e cosa successe dopo la guerra.
Bisogna tenere conto di tutte queste cose (e sono tante e complicate!) quando ci si avvicina alla figura e all’opera di Palatucci e quindi anche alla campagna denigratoria verso i suoi confronti che ha avuto il suo apice nei mesi centrali del 2013. Ma cosa è accaduto? Vediamolo assieme.
Articolo di Alessandra Farkas
Tutto è iniziato con un articolo apparso, il 23 maggio 2013, su «Corriere.it», portale del noto quotidiano milanese. Titolo del pezzo: «Palatucci tutte le ombre dello Schindler italiano
». A firmarlo la corrispondente dagli Stati Uniti Alessandra Farkas.
Si legge all’inizio dell’articolo: «a dar retta al crescente coro di storici e ricercatori che da anni studiano il più celebrato tra i giusti
italiani, il mito di Palatucci non sarebbe altro che una truffa clamorosa orchestrata da amici e parenti del presunto eroe che si dice abbia salvato oltre cinquemila ebrei in una regione dove non ve n’erano neanche la metà».
Per poi spiegare che «in una tavola rotonda organizzata dal Centro Primo Levi
alla Casa italiana Zerilli Merimò
di New York, l’ex direttore di Yad Vashem Mordecai Paldiel ha spiegato che, sotto la sua supervisione, nel 1990, Palatucci fu riconosciuto Giusto fra le Nazioni per aver aiutato una sola donna
, Elena Aschkenasy, nel 1940, e che la commissione non ha rinvenuto alcuna prova né testimonianza che avesse prestato assistenza al di là di questo caso
».
Nel pezzo venivano messi in dubbio i suoi «salvataggi di massa» (in particolare quello degli ottocento ebrei dell’Aghia Zoni) e il canale del campo di Campagna dove Palatucci affidava alle cure
dello zio i perseguitati. Infatti, secondo Anna Pizzuti, curatrice del database degli ebrei stranieri internati in Italia, questo sarebbe stato impossibile.
Dai presunti archivi, poi, veniva fuori che Palatucci «si occupò dei censimenti dei cittadini ebrei sulla cui base la Prefettura applicava le Leggi Razziali
» e proprio a Fiume «i censimenti furono condotti con una capillarità ineguagliabile e le leggi applicate con un accanimento che provocò proteste internazionali e la reazione dello stesso Ministero degli Interni».
L’articolo, citando il libro di Marco Coslovich Una Giusta Memoria, affermava che Palatucci era ritenuto «un funzionario modello» aggiungendo che era stato dichiarato «insostituibile» dal prefetto Temistocle Testa, di cui «godeva appieno dei suoi favori».
La giornalista dava, infine, spazio alle tesi dello storico veneziano Simon Levis Sullam secondo cui «l’affaire Palatucci s’inserisce nella questione più vasta di come la persecuzione antiebraica nell’Italia fascista e il ruolo degli italiani sono stati rappresentati nei 68 anni dalla fine della guerra».
Scrive Sullam, in Shoah in Italia edita dalla Utet nel 2013: «Il mito del bravo italiano ha costituito dopo la Seconda guerra mondiale una fonte di auto-assoluzione collettiva rispetto al sostegno offerto a politiche antisemite e razziste nel periodo 1937-1945, cui migliaia di italiani parteciparono direttamente».
Effetti delle accuse del Primo Levi
Center
Come apprendiamo dall’articolo il caso è scoppiato a New York durante un incontro sulla figura del poliziotto irpino organizzato dal Centro
Primo Levi
presso la Casa italiana Zerilli Merimò
a cui hanno partecipato l’ex direttore del Dipartimento Giusti di Yad Vashem, Mordechai Paldiel, lo studioso Marco Coslovich e, in veste puramente istituzionale, il console generale d’Italia a New York, Natalia Quintavalle. L’incontro si è aperto con una domanda: «davvero Palatucci salvò migliaia di ebrei?».
Secondo gli organizzatori lo studio condotto, nel corso degli ultimi sei anni, su circa settecento documenti, aveva fatto emergere che Giovanni Palatucci era invece un collaboratore nazista, tanto da partecipare alla deportazione degli ebrei nel campo di Auschwitz. Accuse pesanti, infamanti. Ingiuste.
Il 19 giugno sul «New York Times» Palatucci veniva accusato di essere «un collaboratore nazista». La notizia rimbalzava, improvvisamente, sui più importanti quotidiani nazionali e internazionali innescando un acceso e appassionato dibattito.
L’AntiDefamation League, l’associazione ebraica che aveva attribuito a Palatucci il suo Courage to Care Award il 18 maggio 2005, affermava: «Sappiamo adesso quel che non sapevamo allora, che cioè Palatucci non fu il salvatore in cui è stato trasformato dopo la guerra. Alla luce di prove storiche la Adl non onorerà più la memoria del poliziotto italiano».
Il Museo dell’Olocausto di Washington rimuoveva il materiale su Palatucci da una mostra riguardante i non ebrei che aiutarono le persone prese di mira dai nazisti per motivi razziali. Anche Yad Vashem, secondo alcuni quotidiani, decideva di riaprire la pratica e il Vaticano, secondo quanto riferiva il «New York Times» citando padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, intendeva «approfondire la questione».
Nel campo di concentramento di Dachau veniva deciso di togliere la targa apposta nel 2009 perché «secondo alcune recenti ricerche del Centro Primo Levi
di New York, contrariamente a quanto finora ipotizzato, Giovanni Palatucci non ha affatto salvato cinquemila ebrei dalla deporta-zione nel campo di sterminio di Auschwitz. Egli ha al contrario collaborato strettissimamente con i nazionalsocialisti. Tuttavia a Giovanni Palatucci è dovuto rispetto in quanto prigioniero del campo di concentramento di Dachau, dove morì nel febbraio 1945».
Intervista a Natalia Indrimi
Dopo l’uscita dell’articolo della Farkas il Centro Primo Levi
ha ritenuto giusto «chiarire la natura dell’iniziativa e le conclusioni preliminari a cui l’articolo si riferisce» con un comunicato stampa.
La prima intervista a Natalia Indrimi, direttrice del Centro di New York, invece, è apparsa su «Mosaico» del 29 luglio 2013 a cura di Laura Brazzo. Titolo del pezzo: «Palatucci: è il momento di passare dal Mito alla Storia». Nell’introduzione veniva spiegato che l’intento degli storici era quello di «ricondurre la sua figura al piano della realtà».
L’intervistatrice afferma che la storia di Palatucci che tanto spazio ha acquisito nella nostra memoria nazionale, andasse ad inserirsi nel contesto della storia della persecuzione degli ebrei a Fiume che invece è una «storia dimenticata».
Indrimi sosteneva nell’intervista, come già aveva spiegato nel comunicato stampa, che «il fine della ricerca era di far luce sulla storia delle persecuzioni anti ebraiche a Fiume, come parte del lavoro di divulgazione della storia degli ebrei d’Italia e in particolare di un programma sulla storia del fascismo e delle persecuzioni che col Primo Levi
Center portiamo avanti da anni insieme alla New York University, la Columbia University e la City University of New York». Durante la ricerca «di fronte a questi dati emersi dalla documentazione d’archivio, l’onnipresenza di Palatucci nella
memoria collettiva e ufficiale è diventata un catalizzatore di domande».
In particolare «rispetto ai numeri» con una tesi secondo cui, citando lo studio di Silva Bon, «nel 1943 tra Fiume e Abbazia erano registrati circa 570 ebrei; di questi 412 furono deportati o uccisi. Se queste erano le cifre, chi erano i cinquemila ebrei salvati da Palatucci, da dove venivano, dove li ritroviamo dopo la guerra, perché nessuno ha mai testimoniato?»
La ricerca era nata quasi casualmente. Spiegava, infatti, Indrimi: «è partito tutto piuttosto in sordina, quindici mesi fa… Abbiamo invitato Marco Coslovich, che da anni si occupa di Palatucci, a partecipare, insieme all’ex direttore dell’istituto dei Giusti di Yad Vashem, Mordechai Paldiel, ad un incontro su Heroes, Saints and the Righteous: the Case of Giovanni Palatucci
, alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University. Un incontro da cui è nata
l’esigenza di ampliare la documentazione presentata da Coslovich».
Il centro aveva così invitato a partecipare «sia Anna Pizzuti, che ha realizzato il database degli ebrei stranieri internati in Italia, sia Rina Brumini di Rijeka». Dopo i primi risultati i ricercatori si erano resi conto «che servivano altre competenze, altre specializzazioni
, così abbiamo cominciato a coinvolgere storici e ricercatori di provenienze, formazioni, specializzazioni, anche idee, diverse fra di loro». Tra questi: Susan Zuccotti, Carlo Spartaco Capogreco, Liliana Picciotto, Michele Sarfatti, Mauro Canali («il suo è stato un contributo particolarmente importante perché la sua conoscenza del sistema di polizia ha aperto un mondo
che nessuno degli altri storici avrebbe potuto affrontare…»).
Poi a questo primo nucleo di studiosi se ne sono aggiunti altri, specialmente come «lettori», tra questi Alexander Stille, Michael Ebner, Jonathan Dunnage.
Un collettivo storiografico
lo definiva la direttrice del Centro della Grande Mela il cui compito era quello di coordinare
le varie anime. Raccolto il materiale, infatti, sempre secondo il racconto della studiosa, «la quantità e varietà di fonti prese in esame ci ha consentito di seguire diversi filoni di ricerca». Il primo dei quali «è stato senz’altro quello di fare un sondaggio delle biografie ufficiali»: i collaboratori hanno cercato di capire «concretamente cosa si attribuiva a Palatucci e come questi salvataggi venivano descritti, per poi sottoporli alla prova dei documenti». È stato così fatto un elenco degli eventi narrati, di ciascuno dei quali si è cercato un riscontro nei documenti d’archivio.
Ancora l’Indrimi: «In realtà anche la tesi della distruzione dei documenti ha un che di mitico
: lo storico sa bene che se qualcosa viene distrutto, specie in un ufficio di polizia, da qualche parte rimangono delle tracce,
rimane uno strappo. In questo caso i documenti sono lì visibili a tutti. Aiutare era difficilissimo e non bastava passare la frontiera, bisognava trovare il modo di sopravvivere in un sistema controllatissimo in cui c’era bisogno di tessere annonarie, di permessi di transito, insomma di una complessa logistica. Lo vediamo nel caso della famiglia Conforty che viene aiutata dal loro amico, il colonnello Bertone, a entrare e rimanere in Italia. Quello che Bertone riesce a fare per la famiglia Conforty emerge chiaramente dai documenti: si tratta di uno stratagemma, di un negoziato con i superiori di Palatucci, che sfrutta le pieghe della legge da un lato e la gerarchia militare dall’altro (Bertone infatti, tecnicamente, era un superiore del prefetto Temistocle Testa…)».
Nello studio veniva poi preso in esame «tutto ciò che nelle biografie è considerata testimonianza
» per poi essere messo a confronto con i fascicoli della polizia. «Attraverso questo processo, dalla narrativa celebrativa ha gradualmente cominciato a prender corpo l’immagine più frammentaria e complessa dei drammi di vita quotidiana vissuti in un ufficio della questura durante le persecuzioni razziali».
Sempre secondo Indrimi «quella di Palatucci è la storia di un vice-commissario di polizia morto in maniera tragica e molto giovane e che, avendo avuto un ruolo subordinato, ha lasciato poche tracce dirette divenuto poi
personaggio-vaso" che nel dopoguerra ha consentito di essere riempito di varie cose, a seconda dei momenti, delle esigenze».
Una vicenda, quella di Palatucci, nata in un momento in cui ovunque si sentiva la necessità di un «dopoguerra conciliatorio». Un