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Semper vivum
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E-book237 pagine3 ore

Semper vivum

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Info su questo ebook

Sembra essere un caso a fermare i passi inquieti della giovane Friede davanti alla finestra della libreria attraverso la quale Vera, l'anziana proprietaria, la invita ad entrare. Friede, trincerata nell'abituale riluttanza con cui accoglie ogni novità, si trova a un tempo destabilizzata e attratta dalla familiarità con cui la donna la apostrofa.

Accetterà per prima cosa il libro che lei vuole regalarle, accetterà la propria curiosità e l'impulso a tornare altre volte al negozio.

Scoprirà così che Vera ha conosciuto Frei, suo fratello gemello, che anche lui aveva frequentato la libreria e che, come amava ripetere quando era ancora vivo, persino lì aveva lasciato un segno di se.

Friede comincia quindi a cercare le tracce del suo passaggio, immergendosi nella ricerca al punto da essere quasi sopraffatta dal peso dei ricordi, in una affannosa risalita verso il presente.

Durante la sua apnea, però, la vita del negozio comincia irrimediabilmente a cambiare.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788831665537
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    Anteprima del libro

    Semper vivum - Arianna Patelli

    creduto

    PROLOGO

    Quello che Friede ricordava con maggiore chiarezza erano le venature delle sue labbra dipinte e l’impronta scarlatta che lasciavano sul bordo delle tazze da tè. Subito dopo riaffioravano le sue mani secche, mai aride, il suo gesticolare carico, il triangolo severo della mandibola, il volo degli zigomi, il sorriso di carta fine, la voce stregata.

    A poco a poco tutto di lei tornava vivo, presente, ma incompleto. Mai perfetto abbastanza, una complessità inarrivabile.

    Quanti erano i suoi capelli, le sue rughe, le sue lentiggini? Quanto lunghe le ossa delle braccia? Quanto densa la pelle, il colore degli occhi, il rumore del suo respiro?

    Friede non sapeva più dirlo con certezza.

    Ormai tutto quello che rimaneva di lei non erano che ricordi imprecisi e un cartello sbiadito appeso alla porta di quello che era stato il suo negozio. Pennarello nero, calligrafia inconfondibile, le ultime parole di Vera.

    CHIUSO PER LUTTO

    Proprio come desiderava.

    «Quando sarò morta voglio che nessuno stacchi mai il cartello chiuso per lutto dalla porta. Voglio la polvere sui vetri e l’eternità.»

    Allora Vera aveva già cominciato ad usare la parola morte più spesso del necessario; per impararla meglio, come se ripeterla la aiutasse a gestirne il significato, a prepararsi.

    Adesso, a distanza di tanto, quell’annuncio sbiadito era ancora lì, tenacemente appeso alla porta del negozio di libri per costringere Friede a riconoscere che Vera, alla fine, era riuscita ad aver ragione su tutto: il negozio chiuso, il cartello che nessuno aveva staccato, la polvere. Tutto.

    Fu un istinto che nasceva dall’amore quello che le mosse il braccio all’interno di uno dei rombi del cancello a soffietto, violando le ragnatele con la manica del giubbotto per arrivare a trasgredire una delle ultime volontà di Vera.

    Era troppo vicina a quell’opportunità, troppo vicina al lutto nero indebolito dal battito del sole, troppo vicina alle ultime volontà di Vera. Non poteva più tornare indietro.

    Credeva che il tempo perdonasse, che dimenticasse, ma non era così; il tempo non ha memoria e quindi non può dimenticare, non porta rancore e non ha bisogno di perdonare. Il tempo accantona.

    Davanti a quella porta chiusa, anni dopo, distanze dopo, silenzi dopo, dentro le sue ossa fragili stava esplodendo tutto: l’affetto, il risentimento soffocato, il dolore per la lontananza, il desiderio di disubbidire un’ultima volta a Vera, alla morte e alla solitudine.

    C’erano centimetri troppo intensi a separarla da quel foglio, voleva tenere tra le mani quel simulacro di carta, calcolare il peso dell’inchiostro e dei ricordi, rileggerne il necrologio nero, riappropriarsi della calligrafia di Vera, delle sue ultime parole, delle loro ultime promesse.

    Lo voleva per se. Voleva il diritto di decidere se piegarlo e nasconderlo nel fondo della tasca o liberarsene, accartocciarlo stringendo con forza fino a spremere fuori tutto il dolore, lasciandone solo la buccia insignificante, tonda, da far rimbalzare nel ventre rugginoso di un cestino della spazzatura.

    Avrebbe strappato via il lutto, pulito la polvere con la manica e disonorato le volontà di Vera.

    Ci sono eredità che non si possono ignorare

    CAPITOLO I

    I colori fumosi della mattina filtravano attraverso la finestra. Dietro la tapparella, si apriva un paesaggio bianco e nero, scoraggiante; una giornata ammalata di nebbia, da chiudere fuori, da rimandare, ma non voleva cedere al maltempo, Friede. Si sentiva inaspettatamente fortunata, quasi di buonumore e uscendo non aveva preso l’ombrello nonostante il cielo minacciasse di cadere da un momento all’altro. Preferiva scommettere sul sole.

    Si era tuffata nella corrente delle gite turistiche, sbattendo contro zaini, macchine fotografiche e lingue straniere, per poi sfociare in uno stradello laterale e quieto, rassicurante con il suo ordinato susseguirsi di crepe, portoni, graffiti e numeri civici che si ripeteva sull’intonaco pallido e sui colori bruciati delle facciate esterne.

    Non aveva meta ma voglia di camminare, vincere la minaccia della pioggia e osservare la città, bendisposta allo stupore.

    La piccola finestra che attirò la sua attenzione si apriva sulla parete poco prima che il vicolo terminasse, bassa abbastanza da non poter resistere alla curiosità di spiare. Vetri opachi che negavano la soddisfazione di uno sguardo pulito lasciando distinguere solo ombre, sagome di persone che si muovevano pigramente, espressioni indefinite su volti sconosciuti, lo sguardo fugace di qualcuno, quello diretto e fermo di una donna che la stava chiaramente fissando.

    Sorrideva.

    Friede non smise di guardare e la figura non smise di sorridere. Fece per andarsene e la figura non smise di guardarla. Avanzò fino all’angolo color terra di Siena del palazzo, determinata a passare oltre ma quello sguardo insistente le rimase sulle spalle, appiccicato addosso assieme alla curiosità di sapere a chi appartenesse.

    Decise il passo seguendo il desiderio e la predisposizione a lasciarsi sorprendere. Cavalcò il cemento diretta a scoprire a chi appartenessero quegli occhi, gettandosi col fiato sospeso nella foce del vicolo che si apriva su un piccolo quadrilatero di porfido e acacie.

    La finestra era quella di un negozio senza vetrine, ingresso domestico e insegna modesta che descriveva l’interno e l’esterno assieme Dietro l’angolo e sotto - libri usati -.

    Sotto il peso della mano la maniglia guaì, il tappetino attutì il passo, e l’ombra che aveva incontrato attraverso la finestra si voltò verso di lei. Era alta, vestita di chiaro e non aveva mutato né sguardo né sorriso.

    «Ti stavo aspettando.»

    Irradiava una bellezza esclusiva, che sfuggiva ad ogni canone; un fascino antico e severo addolcito dagli occhi, rughe decise scavate sul viso e ammorbidite dalla fessura viva delle labbra. Era l’età a renderla speciale, la corteccia asciutta della sua pelle che sembrava nascere dalla lana morbida del maglione. Era la neve del suo abito caldo ad illuminarla cadendole addosso, la vivacità in ogni millimetro delle sue espressioni.

    Ti stavo aspettando. Una voce sfocata la sua, quella di un sogno.

    «Aspettavi me?» Friede inclinò la testa per esaminare meglio la situazione, inarcando sopracciglia sospettose.

    La donna annuì convinta e lei negò tutto.

    «Ho visto che mi fissavi, prima, ma io non ti conosco.»

    A quel punto lei parve dubbiosa, sul punto di dire qualcosa che scacciò via con un gesto molle della mano.

    «Non ancora.» Affermò, insinuando una possibilità.

    Friede si prese il tempo di restare senza parole, di rintanarsi in un’alzata di spalle, di cercare una replica.

    «Non sono entrata per questo, comunque. Cercavo un libro.» Una bugia che la donna sembrava aspettarsi. Fece un cenno condiscendente, di saluto e d’attesa al tempo stesso, e distese un braccio come un’ala, svelando il negozio.

    «Sei comunque la benvenuta.»

    Era stato insipido, deludente, del tutto diverso da come avrebbe voluto e diametralmente lontano dallo stupore che si aspettava di provare. Un dialogo di parole scarse, capaci di farla sentire sciocca e sconfitta, uno scambio dal quale avrebbe voluto prendere le distanze il più presto possibile, ma i suoi piedi e i suoi pensieri erano rimasti al punto in cui la signora vestita di bianco la aveva lasciata, in un momento senza scampo.

    Sfogliò qualche pagina, lesse qualche titolo e si sforzò di rendere credibile la sua bugia, ma senza passione, concentrandosi in modo discontinuo, ripetutamente interrotta dall’istinto di cercare con gli occhi gli occhi della donna.

    Lei non si era allontanata che di pochi passi, ma sembrava già altrove, lontana, in un’altra storia. Si sentiva come se il loro breve dialogo non fosse mai esistito. Si sentiva inappropriatamente tradita dall’ipotesi che la donna stesse già aspettando qualcun altro, al di là del vetro, per sorridergli, per invitarlo ad entrare, ad occupare un posto che già considerava suo.

    Le parole le uscirono di bocca senza permesso.

    «Non mi piacciono i libri.» A voce bassa, cercando di rendere meno vergognosa la sua confessione.

    «E come mai sei entrata?» Non c’era traccia di ironia in quella domanda; né condanna né assoluzione. La donna aveva soltanto ripreso in mano il gomitolo del loro dialogo, sciogliendone i nodi con gentilezza. Cercava cautamente il bandolo, districando un groviglio di lana e incomprensioni, attenta a non rompere il filo.

    Le stava proponendo una seconda possibilità, le permetteva di decidere se continuare a mentire o dire la verità. Scelse la seconda.

    «Perché mi hai invitata a farlo.» Non aveva mai sentito la sua voce così piccola, tanto da non essere sicura di aver parlato davvero.

    «Quindi sei mia ospite.» Un sorriso materno e sereno rischiarò le labbra della donna. Disse ospite e non cliente, non si scompose di fronte alle bugie, aspettò docilmente la verità. «E non ti piacciono i libri.»

    Friede si nascose di nuovo in un’alzata di spalle.

    «E’ da tanto che non ne leggo uno.»

    «Perché?» Dava voce alla sua coscienza quella donna, i punti interrogativi che le metteva di fronte erano gli stessi che Friede tendeva a dimenticare come bustine di tè nell’acqua bollente, facendoli diventare amari.

    «Perché non li so più scegliere.» Friede alzò un po’ la testa ma tenne bassa la voce.

    «E ti andrebbe di lasciar provare me?»

    Le andava? Cosa avrebbe scoperchiato accettando? Sarebbe riuscita a richiuderlo?

    «Prova.»

    Si sfidò, la sfidò, e lei affilò un sorriso appoggiando il palmo della mano sul dorso dei libri allineati sugli scaffali, iniziando ad accarezzarli uno ad uno. Cambiava espressione quando toccava la costa di un volume diverso, come una madre che sa riconoscere al tatto la pelle dei propri figli. Le sue dita erano lunghe, leggere e leggevano i titoli solo toccandoli, con gesti pieni, carichi di affetto.

    Ne scelse uno sottile che lasciò un altro buco nel sorriso sdentato nella scansia.

    «Ecco.» Commentò.

    Friede tirò le mani fuori dalle tasche del cappotto, toccando la copertina titubante, una bomba sul punto di esplodere.

    «Quanto costa?»

    «Questo libro non ha prezzo.» Friede non capì l’accento ambiguo di quelle parole.

    «E’ un regalo quindi?» La donna sembrò pensarci sopra, scelse le parole, ma non sembrò convinta.

    «Si, diciamo che è un regalo.» Concluse.

    Non erano i libri a non piacerle, ma il momento in cui aveva smesso di leggere, quando aveva lasciato a metà l’ultimo romanzo per cambiare le sorti di un altro finale, il suo, sostituendo a pagine e inchiostro i pixel luminosi delle schermate di forum e siti di medicina. Odiava l’inerzia con cui non aveva mai ricominciato, si rimproverava il passo lento della pigrizia.

    Il libro che la donna le aveva regalato era una notizia inattesa, un punto da cui ricominciare. Per questo lo temeva, per questo lo aveva confinato, appeso all’attaccapanni dentro la tasca del cappotto. Voleva mantenere le distanze, rimuoverlo dal tempo, estirparlo da se, ma nonostante l’impegno non riusciva a smettere di pensarci.

    L’idea di concedergli una possibilità continuava ad esserle pesante in testa, la tormentava, la sovraccaricava negandole il sonno.

    Servì coraggio per allungare le mani oltre il corridoio, attraverso il tempo, dentro le tasche del cappotto, tirare fuori quel volumetto senza spessore che pesava tra le dita come dentro la testa.

    Con il libro poggiato sui palmi come un’offerta cercò il senso di quel gesto, ne tastò l’abisso assaggiandone la profondità, ne calcolò il momento contando i battiti delle lancette. Non c’era ritorno, non c’era spazio per un’inversione di marcia, solo la linea del futuro, dritto davanti a se.

    Lo aprì con impegno, lasciando che il mare blu freddo della copertina si riversasse sulle sue ginocchia e inondasse la stanza. Rimase in apnea.

    Fu una notte senza respiro, una corsa a chi sarebbe arrivato prima, se il sonno o la fine del libro. Leggeva un parola dopo l’altra con voracità, senza pause negli spazi bianchi e punteggiature appena accennate perché nessun ragionamento si insinuasse in quei piccoli vuoti. Un centinaio di facciate da ingoiare, digerire e riordinare, dentro. Migliaia di parole con le quali tamponare i pensieri.

    Cedette al sonno tra i ringraziamenti e l’indice, senza saper dire se le fosse piaciuto o no, ma con la limpida decisione di tornare al negozio il giorno seguente.

    Voleva assolutamente rivedere la persona che con pochi gesti l’aveva scaraventata indietro nel tempo, davanti a quella grotta che era riuscita a chiudere solo con la sofferenza. Quella donna le aveva dato un libro con cui aprire a picconate quel varco ostruito, le aveva dato le armi ma non la forza.

    Voleva un colpevole, voleva un nome per la sua maledizione, voleva qualcuno con cui dividere il dolore.

    Era un venerdì lontano dalla primavera e la signora sembrava essere diventata più trasparente, avvolta nel vapore di uno scialle grigio perla.

    «Sei tornata.» La salutò con un’affermazione e un sorriso migliore di quelli che aveva per gli altri, espressioni conservate a lungo e che adesso riprendevano luce. «Non pensavo di vederti così presto.»

    Disse così presto e non di nuovo.

    «Passavo di qui.»

    C’erano situazioni in cui Friede era incapace di dire la verità. Situazioni in cui le bugie la facevano sentire al sicuro. A quelle parole la donna rispose con un’espressione studiata, sforzando un broncio e facendola sentire scoperta.

    Era una sensazione familiare, la stessa di quando da bambina giocava a rimpiattino nella casa dei nonni e andava a nascondersi sempre nello stesso posto, dietro lo sportello del lavatoio in garage. Sapeva che l’avrebbero cercata lì, che non aveva possibilità di correre a fare pace, ma le piaceva sentire la fine della conta, chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro e sapere che lei sarebbe stata la prima ad essere stanata.

    «Hai già letto il libro che ti ho lasciato?»

    Disse lasciato e non regalato, parole che sottolineavano una piccola intimità.

    «L’ho cominciato ma non mi piace. Ne vorrei un altro.»

    Di nuovo l’espressione della donna la fece sentire smascherata. Di nuovo si vide bambina, raggomitolata dietro lo sportello, incastrata tra la scatola di un detersivo e una spugna secca a respirare con la bocca per non inalare l’odore di muffa, di nuovo vide il sorriso soddisfatto di chi la andava a cercare, la fetta di luce che le feriva gli occhi mentre si aprivano le ante.

    «Come preferisci, mia cara.»

    Tana per Friede.

    Il negozio era una vertigine, la avvolgeva e la disorientava. Cercò di ritrovare l’equilibrio esaminando il perimetro con i piedi; non era grande come lo aveva percepito il giorno prima, ma l’evidente intenzione di riempire ogni vuoto ne moltiplicava lo spazio.

    Era la forma del negozio a interessarla, la materia; un quadrilatero di muri coperti di libri che si interrompeva per lasciar penetrare la luce dai vetri spessi delle finestre.

    Sul fondo un’apertura ad arco attirava inevitabilmente lo sguardo. Cemento moderno e armato che lottava contro le scansie di legno gonfio; due colonne d’Ercole coperte di fotografie ne sorreggevano il peso.

    Oltre si spalancava la fine del mondo e una spirale di gradini che si arrampicavano verso l’alto. Sul secondo scalino un’insegna di lamiera bianca confermava entrata libera.

    Friede si fidò, attraversò le colonne, la fine del mondo e salì la scala fino in cima, dove un pianoforte a muro dava il benvenuto. Gli arredi erano scarsi, raffazzonati e senza continuità; qualche sgabello, due poltroncine e un divano al centro della stanza circondavano una coppia di tavolini bassi.

    Stipati su un mobile appoggiato alla parete una decina di barattoli emanavano un odore speziato che Friede non riuscì a identificare e poco lontano una tenda di velluto sbocciava rossa dalla parete e sembrava messa lì apposta per nascondere qualcosa.

    «Quassù ci arriva solo chi è curioso o chi si è perso.» La voce rilassata della signora vestita di bianco raggiunse Friede alle spalle; era ferma sul penultimo gradino e guardava dentro la stanza con occhi carichi di soddisfazione.

    «Io credo di essermi persa.»

    «Io invece credo che tu sia curiosa. Chi si perde spesso torna subito indietro, i curiosi rimangono.»

    «Forse sono una curiosa che si è persa.» La donna rise di una risata che sembrava voler dire non ti stanchi mai di smentire il prossimo

    «Ti piace?» Domandò invece.

    «E’ esattamente come dovrebbe essere.» Risposta evasiva che generò un sorriso sul volto della donna. Guardò il salottino e la tenda rossa con affetto e accarezzò con tutte le dita il corrimano della scala per aiutarsi a superare lo sforzo dell’ultimo gradino e raggiungere Friede accanto al pianoforte.

    «E’ stato il secondo uomo che avrei voluto sposare a suggerirmi come potevo sfruttare questa stanza, prima non era altro che ripostiglio e polvere.»

    «Un architetto?»

    «Un compositore.» Voce sognante, insinuando le dita sotto il copri-tastiera e colpendo uno dei tasti. Nota breve, stridente e scordata.

    «E’ un buon rifugio, questa stanza. Fino a un paio di anni fa me ne occupavo con maggiore cura, ma ormai mi affatica salire e scendere quassù troppe volte al giorno.» Soffiò un sospiro e indicò le scale con un gesto carico di nostalgia.

    Friede invece non poteva smettere di fissare lei; le grinze dolci delle sue labbra, le dita secche ed i gesti che ne uscivano, tutta la sua persona avvolta nelle maglie grigie dello scialle. Catturava.

    «Le gambe?» Si sforzò di mostrare interesse, non era brava nelle formalità.

    «Gli anni.» Disse, e pronunciò il tempo come uno spirito a se. Non era colpa dell’età, non era colpa dei suoi anni, ma dell’accumularsi di giorni, del rincorrersi di stagioni. «Più passano più mi scivolano

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