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Paradisi artificiali
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E-book259 pagine3 ore

Paradisi artificiali

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Info su questo ebook

Del vino e dell’hashish · Il poema dell’hashish · Un mangiatore d’oppio

Introduzione di Massimo Colesanti
Edizione integrale

Il consumo di sostanze stupefacenti ha un peso centrale nell’esperienza poetica ed esistenziale di Baudelaire. Quando scrive le sue pagine sull’hashish – di cui condanna l’abuso – egli non ha mai intenti moralistici, ma essenzialmente estetici. Quello che a lui interessa è il potenziamento della creatività poetica attraverso l’ebrezza artificiale; quello che lui odia e teme è il risveglio, è la desolazione, è l’inferno della degradazione. Si disegna qui il dramma personale di Baudelaire, la sua consapevolezza di essere e di sentirsi lacerato fra i due opposti richiami di Dio e Satana, fra l’aspirazione a salire verso l’alto, l’infinito, e il gusto del peccato, il piacere di scendere in basso.
Charles Baudelaire
nato a Parigi nel 1821, a soli diciannove anni abbandonò la famiglia e iniziò una vita sregolata e bohémienne, segnata anche da difficoltà economiche e dall’uso dell’alcol e delle droghe. Partecipò alla rivoluzione del ’48, ma presto si allontanò dagli ideali socialisti. Tra il 1864 e il 1866 visse in Belgio. Morì a Parigi nel 1867. La Newton Compton ha pubblicato I Fiori del Male e tutte le poesie, Paradisi artificiali e la raccolta Tutte le poesie e i capolavori in prosa.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854130395
Paradisi artificiali
Autore

Charles Baudelaire

Charles Baudelaire (1821-1867) was a French poet. Born in Paris, Baudelaire lost his father at a young age. Raised by his mother, he was sent to boarding school in Lyon and completed his education at the Lycée Louis-le-Grand in Paris, where he gained a reputation for frivolous spending and likely contracted several sexually transmitted diseases through his frequent contact with prostitutes. After journeying by sea to Calcutta, India at the behest of his stepfather, Baudelaire returned to Paris and began working on the lyric poems that would eventually become The Flowers of Evil (1857), his most famous work. Around this time, his family placed a hold on his inheritance, hoping to protect Baudelaire from his worst impulses. His mistress Jeanne Duval, a woman of mixed French and African ancestry, was rejected by the poet’s mother, likely leading to Baudelaire’s first known suicide attempt. During the Revolutions of 1848, Baudelaire worked as a journalist for a revolutionary newspaper, but soon abandoned his political interests to focus on his poetry and translations of the works of Thomas De Quincey and Edgar Allan Poe. As an arts critic, he promoted the works of Romantic painter Eugène Delacroix, composer Richard Wagner, poet Théophile Gautier, and painter Édouard Manet. Recognized for his pioneering philosophical and aesthetic views, Baudelaire has earned praise from such artists as Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé, Marcel Proust, and T. S. Eliot. An embittered recorder of modern decay, Baudelaire was an essential force in revolutionizing poetry, shaping the outlook that would drive the next generation of artists away from Romanticism towards Symbolism, and beyond. Paris Spleen (1869), a posthumous collection of prose poems, is considered one of the nineteenth century’s greatest works of literature.

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    Anteprima del libro

    Paradisi artificiali - Charles Baudelaire

    257

    Titoli originali: Du Vin et du Hachisch, traduzione di Sergio De La Pierre

    Les Paradis artificiels: Le poème du hachisch, traduzione di Sergio De La Pierre

    Un Mangeur d'Opium, traduzione di Paolo Guzzi

    Prima edizione ebook: febbraio 2011

    © 1992, 1993, 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3039-5

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Charles Baudelaire

    I paradisi artificiali

    Del vino e dell'hashish

    Il poema dell'hashish

    Un mangiatore d'oppio

    Introduzione di Massimo Colesanti

    Postfazione di Enrico Malizia

    Newton Compton editori

    Nota dell'editore. In questa edizione, sotto il titolo Paradisi artificiali sono stati raccolti, per la loro affinità, sia il testo baudelairiano Del vino e dell'hashish sia i saggi che Baudelaire stesso pubblicò col titolo I paradisi artificiali.

    Introduzione

    Parlando a Bruxelles, nel 1864, dei suoi Paradisi artificiali, pubblicati in volume quattro anni prima, Baudelaire avverte i suoi ascoltatori di aver voluto scrìvere un libro non di pura fisiologia, ma soprattutto di morale. Avverte inoltre che la prima parte del libro, Il poema dell'hashish, è interamente sua, mentre la seconda e la terza parte sono l'«analisi» di un libro inglese straordinariamente curioso - le Confessioni di un mangiatore d'oppio di Thomas De Quincey - cui ha aggiunto qua e là le sue riflessioni personali, in una misura che tuttavia non è in grado di precisare nell'«amalgama» che ne è venuto fuori, dove, aggiunge, il suo apporto non può essere stato che molto piccolo.

    In realtà Baudelaire sbagliava o, per modestia, s'ingannava, ma al tempo stesso aveva ragione. Nella seconda e terza parte, le Confessioni di De Quincey rimangono il testo fondamentale, di cui egli ha voluto dare, più che una traduzione fedele, una trasposizione in francese. Ma l'analisi che dice di averne compiuto rivela una partecipazione che va molto al di là di un'inerte parafrasi, e che produce essa stessa un altro testo, tipicamente baudelairiano, segnato dalla sua esperienza, dalla sua poetica, cioè che porta inconfondibilmente il marchio della sua poesia. Non è un amalgama incoerente, ma una lega perfettamente riuscita, per una eccezionale, anche se non completa, coincidenza di sentire e di vedere. Ed è certo problematico, per non dire difficile, distinguere alla fine quel che veramente appartiene all'uno o all'altro dei due autori.

    Anche per «libro di morale», nel suo complesso, bisogna intendersi. Baudelaire non scrìve le sue pagine sull'hashish, non ricalca e traspone le memorie di un mangiatore di oppio, non ha scritto, dieci anni prima, Del vino e dell'hashish a fini moralistici, cioè ponendosi nella visuale di un'etica comune, umana o religiosa. Il suo scopo è sempre poetico e creativo, o se mai di igiene mentale e spirituale, legata al processo di immaginazione e di scrittura. L'inferno da cui vuole mettere in guardia è quello della degradazione e della impotenza che possono derivare dagli abusi e dalle «overdosi», o dalla scelta dello strumento artificiale che dovrebbe moltiplicare o esaltare le innate e naturali capacità. È la resa poetica che, nell'uso degli eccitanti e stimolanti, lo interessa e che al tempo stesso lo attrae nei suoi effetti meravigliosi e immaginifici, e lo respinge nelle sue deleterie e funeste conseguenze finali, cioè negli spaventosi risvegli del giorno dopo, nel ritorno alla normalità dopo le ebbrezze del sogno. E naturalmente il fenomeno lo interessa non quale può manifestarsi in tutti gli uomini, ma nelle anime sensibili, nei poeti, negli artisti: un mercante di buoi - dice nel Poema dell'hashish - non sognerà, non vedrà mai altro che buoi e pascoli.

    Perché nei tre scritti di Baudelaire sui «paradisi artificiali» che qui raccogliamo, ci sono alcune distinzioni da fare, ed un'evoluzione da seguire. Diciamo subito, anzitutto, che egli parlava con cognizione di causa, e non solo perché aveva usato la «confettura verde» dell'hashish o ancora usava i granuli dell'oppio, ma perché aveva assistito, più che partecipato, all'Hôtel Pimodan - sia pure raramente, come attesta il suo amico Théophile Gautier -, ad alcune sedute del Club des Hachichins (il «Club degli Assassini»). E poi aveva letto, si era documentato: conosceva certamente l'opera di Moreau de Tours (Du hachisch et de l'aliénation mentale. Etudes psychologiques, 1845), il medico che controllava le riunioni all'Hôtel Pimodan e che pretendeva di curare la follia con l'hashish (ed è lui che Baudelaire attacca in una nota alla fine di Del vino e dell'hashish). Conosceva anche, senza alcun dubbio, il famoso trattato di Brierre de Boismont Des Hallucinations [...], del 1845 (riedito nel 1852 e nel 1862), altro medico alienista che aveva discusso, su altre posizioni, dei rapporti fra droga e allucinazioni, e citando a lungo De Quincey e, nella terza edizione, lo stesso Baudelaire. Il quale, a sua volta, ben conobbe e citò, nelle sue note intime, l'altro grande trattato di Brierre, Du Suicide et de la folie suicide, del 1856.

    Ma Baudelaire, come ha dichiarato, non intende scrivere trattati scientifici, bensì raccogliere le sue esperienze personali e «morali», per estrarne se mai quintessenze poetiche, con le sue scelte, le sue distinzioni. Il suo primo scritto, Del vino e dell'hashish raffrontati come mezzi di moltiplicazione dell'individualità, pubblicato sul Messager de l'Assemblée il 7, l'8, l'11 e il 12 marzo 1851, è non solo il più breve, ma anche il più semplice e simmetrico (capitolo introduttivo, due capitoli sul vino, due sull'hashish, due di raffronto serrato e di conclusione), e il più «giovanile», non soltanto cronologicamente, per essere vicino alle sue prime esperienze di giovinezza, ma anche per la forza con cui condanna l'hashish - una droga che egli usò e gustò poco, e di cui non fu mai in tutto convinto adepto - e l'entusiasmo con cui esalta invece il vino, cui dedicherà e intitolerà, come sappiamo, una intera sezione, e non fra le più brevi, nei Fiori del Male (la quarta nella edizione del 1857, la terza nella edizione del 1861). E non è casuale, proprio ai fini della resa poetica che più gli sta a cuore, che in queste pagine frementi delle sue esaltazioni e delle sue delusioni giovanili, egli utilizzi e parafrasi anche alcune sue poesie, come farà poi in seguito per alcuni «poemetti in prosa» del suo Spleen di Parigi. Tutta la prima parte del secondo capitolo non è che la trascrizione e l'amplificazione in prosa di due sue poesie, L'anima del vino (composta probabilmente prima del 1843), e Il vino dei cenciaioli (che risente di entusiasmi quarantotteschi, e composta in quegli stessi anni). Ma accade anche il contrario. A queste sue pagine, ed a questa opposizione fra le illusioni benefiche del vino e i rischi e le complicazioni della droga, e in particolare dell'oppio, Baudelaire si ispira in una sua poesia del 1857, Le Poison, inteso nel suo triplice senso di «veleno», di «droga» e di «fascino amoroso». E qui però i «paradisi artificiali», pur conservando una loro forza e gradualità, fra innocenza e maleficio, cedono di fronte alla bellezza vertiginosa e tremenda, e che infonde ben altra ebbrezza, della donna amata (in questo caso, come sembra, Marie Daubrun).

    Una prova, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto dicevamo all'inizio. Baudelaire non scrive dei trattati, ma delle prose poetiche (in molti sensi), in cui ricerca, come nelle sue poesie, di inseguire ed esprimere, esteticamente, il suo «ideale» per sottrarsi allo «spleen» sempre incombente, e utilizza le sue analisi sempre in chiave poetica, non moralistica. Certo, in Del vino e dell'hashish, egli privilegia il vino, come quello più sano e sociale fra gli strumenti che l'uomo adopera per esaltare la propria personalità, la sua grandezza, per ravvivare le sue speranze ed elevarsi all'infinito. Guarda anche, concretamente, ai risultati. Arriva a dichiarare, senza mezzi termini, che il vino esalta la volontà - «l'organo più prezioso», specie per un artista quale egli era -, l'hashish l'annulla; che il vino è un supporto fisico, l'hashish un'arma per suicidarsi; che il vino è fatto per l'uomo che lavora e che merita di berne, mentre l'hashish è per gli oziosi miserabili e solitari (e qui si può cogliere ancora un'eco delle sue aperture umanitarie del '48); che infine il vino è utile e fruttuoso, l'hashish inutile e dannoso.

    Tuttavia non è che l'esperienza dell'hashish, pur condannata e, alla fine, disprezzata, venga respinta totalmente. Utilizzata molto bene, dialetticamente, a favore del vino, contiene anch'essa la sua parte di «verità estetica», per così dire. Dà anch'essa ì suoi «frutti», le sue immagini. Non meravigliamoci che, fra i vari effetti dell'hashish, Baudelaire registri anche quelli che egli stesso ha idealmente invocato in alcune sue poesie - la scomparsa del Tempo, ad esempio -, o che costituiscono già o costituiranno in seguito princìpi fra i più importanti della sua poetica, come le sinestesie. «I suoni hanno un colore, i colori hanno una musica», leggiamo nel capitolo quarto, e non possiamo non pensare al celebre sonetto delle Corrispondenze. Perché, se così non fosse, dovremmo chiederci come mai Baudelaire, dopo aver condannato così decisamente l'hashish nel 1851, vi torni sopra dieci anni dopo, dedichi all'hashish un intero «poema», e vi aggiunga le memorie di un «mangiatore d'oppio», cioè pubblichi un libro dì oltre trecento pagine nel 1860. Vi pensava anzi già dal 1857 - l'anno stesso in cui pubblica la prima edizione dei Fiori del Male -, quando aveva ripreso, ma rimaneggiandola e ampliandola, la parte sull'hashish del suo scritto del 1851, che appare sulla Revue contemporaine il 30 settembre 1858. E dal 1857 si era applicato anche alla rielaborazione delle «confessioni» di De Quincey, di cui appaiono, sempre sulla Revue contemporaine, il 15 e il 31 gennaio 1860, quasi tutti i capitoli, prima della raccolta in volume di questi suoi scritti nel giugno dello stesso anno.

    Collocazione cronologica significativa, dunque, questa dei «paradisi artificiali» fra la prima e la seconda edizione (1861) dei Fiori del Male, al cui lavoro di ristrutturazione e di ampliamento essi indubbiamente partecipano sotto più di un aspetto. Il Poema dell'hashish riprende, come abbiamo detto, e come si può vedere, ma in uno sviluppo molto più ampio, quasi tutti i temi trattati nel testo del 1851, nella parte relativa all'hashish, compresa la «morale» finale (cap. V), che è anche qui di condanna, con un rincaro anzi di argomenti contro la droga, definita qui un paradiso acquistato a prezzo dell'eterna salvezza. Dichiarazioni forti, anche troppo forti per non apparire anche delle uscite di sicurezza, delle misure prudenziali che debbano, in ultimo, riequilibrare quel che pure si è detto, e lungamente e dettagliatamente mostrato nei capitoli precedenti. Ma forse non è nemmeno questa la ragione di tale ambivalenza, di questo dire, rivelare, per poi condannare e distruggere. E ancora il dramma fondamentale di Baudelaire che è qui in causa. La sua consapevolezza di essere e di sentirsi dilacerato fra i due opposti richiami di Dio e di Satana, l'aspirazione a salire verso l'alto, l'infinito, ed il gusto del peccato, la gioia di discendere in basso, anche in un surrogato effimero e provvisorio come quello di un «paradiso d'occasione», fuggevole, precario, in una «ginnastica» al tempo stesso «pericolosa e deliziosa» (cap. iv). Certo, come egli dice, l'uomo non è così derelitto, e così privo di strumenti onesti per meritare il Cielo, da dover ricorrere alla «farmacia e alla stregoneria», e a danno della propria volontà. Ma tuttavia il poeta, nei suoi momenti di debolezza, di impotenza creativa (e Baudelaire vi cadeva spesso), può aver bisogno di ricorrere agli eccitanti, specie a quelli che procurano l'infinito nel finito, che ci trasportano in un sogno inverosimile, che ci presentano immagini inusitate, che danno sembianza alle nostre aspirazioni, alla bellezza come ai nostri incubi, alle nostre mostruose ossessioni, e comunque ci liberano dall'oppressione del Tempo e dello Spleen (e si vedano le considerazioni di Giovanni Macchia a questo proposito, nel suo libro fondamentale su Baudelaire e la poetica della malinconia). In un poemetto in prosa, pubblicato nel 1864, Inebriatevi!, Baudelaire arriverà ad esclamare: «Bisogna inebriarsi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù, a vostra scelta. Ma inebriatevi».

    Ma, ripetiamo ancora una volta, non è sul piano morale che queste pagine vanno lette e giudicate, bensì su quello estetico. Quelle che Baudelaire trascrìve e crea in questo suo «poema», sono di per se stesse immagini poetiche, sono «fiori del male», rientrano cioè nel suo processo creativo di estrarre la bellezza dal male. Sono analogie, corrispondenze, rapsodie, spirali infinite che egli si compiace di scoprire e di illustrare; paesaggi fiabeschi, sogni allucinati, dilatazione dello spazio, soppressione del tempo, moltiplicazione degli oggetti e della vita stessa si susseguono in varie fasi di esaltazione o di ebbrezza spirituale progressiva, fino alla suprema illusione, e satanica manifestazione, di sentirsi uguali a Dio (cap. IV). Ma quante di queste immagini non abbiamo già incontrate nei «fiori» raccolti nel 1857? Chi non riconosce per esempio nella Vita anteriore - un sonetto del 1855 -, e specialmente in alcuni versi, in alcune espressioni («Ho abitato a lungo sotto vasti porticati»; «alti pilastri, dritti e maestosi»; «onnipossenti accordi» di una «ricca musica» mescolati «ai colori del tramonto riflesso dai miei occhi»), la forza mistica e misteriosa di un sogno, o di un'ebbrezza artificiale, la dilatazione del tempo e dello spazio, le corrispondenze fra suoni e colori, tante volte descritte nel Poema dell'hashish e nel Mangiatore d'oppio? E ancora chi non può non riconoscere in alcune delle poesie composte negli anni dal 1857 al 1860, e aggiunte poi nella seconda edizione dei Fiori del Male, non diciamo, certo, l'incidenza diretta dell'esperienza della droga - in Baudelaire il travaglio di composizione poetica non è mai automatismo, ma sempre lucido e «freddo» intervento razionale -, bensì il riflesso di ciò che di tale esperienza egli ne aveva ricavato, o ne ricava ancora, nel suo mondo poetico? Si rileggano, ad esempio, Sogno parigino o I sette vecchioni. O si rilegga anche il poemetto in prosa, La doppia stanza (del 1862), un «sogno», un incantesimo «artificiale» d'una dimora splendida, in cui il tempo è scomparso, e in cui regna un'eternità di delizie, bruscamente interrotta dall'apparizione d'uno spettro-usciere, che sprofonda di nuovo il poeta nella realtà orribile della sua stamberga, della sua esistenza quotidiana, dove non c'è che la fialetta di laudano a sorridergli, la vecchia e terribile amica, che come tutte le amiche, purtroppo, è «feconda di carezze e di tradimenti».

    I Paradisi artificiali appaiono anch'essi segnati dal fondamentale e angoscioso dilemma baudelairiano, fra la voluttà illusoria affannosamente e volutamente perseguita, e la coscienza della sua vanità e del suo «peccato» (la «coscienza nel Male», e del Male), con conseguenti cadute o bruschi risvegli. Anche il discorso ch'egli svolge sull'oppio, sulla filigrana delle confessioni di De Quincey, ripropone un po' lo stesso percorso, con le stesse bivalenze, fra voluttà e torture, ma con una tematica più ricca, più densa di riferimenti e di riflessioni, e con alcune differenze notevoli rispetto ai testi precedenti. Già nel Poema dell'hashish egli aveva distinto gli effetti più disastrosi e più funesti dell'hashish, «un dèmone sconvolgente», da quelli dell'oppio, «un seduttore tranquillo». Qui, in Un mangiatore d'oppio, istituisce, seguendo De Quincey, ma mostrandosene anch'egli abbastanza convinto, un paragone fra vino e oppio a totale detrimento del primo (cap. III), e rovesciando dunque a favore dell'oppio la supremazia stabilita, dieci anni prima, del vino sull'hashish. Manca anche, qui, una vera «morale», cioè una condanna precisa. De Quincey (come lo stesso Baudelaire, del resto), confessa di avere iniziato ad assumere dosi sempre più forti di oppio come un rimedio contro mali fisici; quindi di esserne divenuto schiavo, voluttuosamente schiavo; infine di essersene a poco a poco liberato, per i tormenti anche fisici che quel rimedio, dopo anni ed anni di uso, gli procurava. Una parabola dunque un po' diversa, ed alla cui conclusione Baudelaire mostra di non credere in tutto (cap. v), e ne dà la prova in seguito, nella premessa ai Suspiria de profundis (cap. VI).

    Ma l'interesse di questo testo sta soprattutto nell'opera di riscrittura, che coinvolge interamente la personalità di un poeta come Baudelaire. «Analizzare in tal modo, è creare», gli scrisse Victor Hugo dopo aver ricevuto i Paradisi artificiali (e si riferiva evidentemente soprattutto a Un mangiatore d'oppio). Baudelaire certo abbrevia, snellisce, ma anche interviene, aggiunge, anche quando dice soltanto di tradurre, e scrivendo fra virgolette (come gli era avvenuto, in altri modi, traducendo Poe, un'altra sua affinità elettiva). Nelle varie peripezie dell'oppiomane inglese, come nella sua scrittura e nella sua sensibilità e malinconia, Baudelaire si riconosce: nel suo rapporto con la città, e con la folla, come nella sua solitudine; nel suo legame con la giovane prostituta Ann come nelle sue visioni asiatiche; nei suoi ricordi e nei suoi affetti d'infanzia, che affiorano nell'indistruttibile palinsesto della memoria, e filtrati dai sogni successivi che essi hanno generato, e visti attraverso la densità trasparente dell'oppio. Dovunque, in ogni piega del pensiero, in ogni immagine, appare un'evidente consonanza, e profonda, radicale, specialmente in quella specie di «poemetti in prosa» che sono i Suspiria, in Levana, in Savannah-la-Mar, e nella Conclusione, dove, nell'immagine del tirso, o nella dichiarazione di De Quincey sulla mescolanza in lui, fin dalla prima giovinezza, di orrore e di amore celeste della vita, sembra di leggere un poemetto in prosa di Baudelaire o un frammento di Il mio cuore messo a nudo. E non è un caso che anche queste pagine, come l'anno dopo la seconda edizione dei Fiori del Male, si chiudano sul fatale scenario del Regno delle Tenebre, della Morte. Qui la Morte è vista nel suo agguato improvviso, che spazza d'un colpo d'ala tutti i nostri piani, i nostri sogni, la gloria dei nostri ultimi giorni; lì, alla fine deludente del Viaggio dell'esistenza umana, come di ogni altro «viaggio» reale, immaginario o artificiale, è invocata dal poeta come liberatrice, per inabissarsi al fondo dell'Ignoto, non importa se in Cielo o all'inferno, e per trovare finalmente del Nuovo.

    MASSIMO COLESANTI

    Nota biobibliografica

    LA VITA

    Il 9 aprile 1821 nasce Charles-Pierre Baudelaire, in rue Hautefeuille a Parigi, da Joseph-François Baudelaire, funzionario del Senato, e dalla sua seconda moglie Caroline Dufays. La madre ha 28 anni, il padre 62 e morirà tre anni dopo.

    La madre di Baudelaire sposa in seconde nozze Jacques Aupick, ufficiale della Légion d'honneur, cavaliere di Saint-Louis. È P8 novembre del 1828; Charles getta dalla finestra la chiave della camera matrimoniale.

    Aupick, nel 1830 nominato tenente colonnello, viene inviato a Lione e nel 1831 si fa raggiungere a Lione da moglie e figliastro. Nel 1836 ritorna a Parigi e nel 1837 Baudelaire ottiene il secondo premio per la composizione in versi latini al concorso generale presso il collegio Louis-le-Grand, che frequenta dall'anno precedente.

    A questo periodo risalgono le sue prime composizioni poetiche. Per il rifiuto di consegnare al professore un biglietto passatogli da un compagno durante la lezione, nel 1839 viene espulso dal Louis-le-Grand. Alcuni mesi dopo supera gli esami di «baccalauréat» e nel 1840 si iscrive alla facoltà

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