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Jane Eyre - Shirley - Villette - Il professore - Agnes Grey - La signora di Wildfell Hall - Cime tempestose

Edizioni integrali

Anne, Charlotte e Emily Brontë, le sorelle più famose della letteratura mondiale, vissero le loro travagliate e brevi vite durante la prima metà del XIX secolo nella campagna inglese, nella regione dello Yorkshire. Figlie di un parroco anglicano di origini irlandesi, educate secondo i rigidi dettami dell’epoca, coltivarono fin da giovanissime una straordinaria passione per la letteratura e la poesia. Temendo i pregiudizi riguardo alle donne scrittrici scelsero, per pubblicare le loro opere, gli pseudonimi maschili di Acton, Currer, Ellis Bell, rispettando le iniziali del nome e cognome di ciascuna di loro. Dopo essersi dedicate, senza grandi fortune, alla pubblicazione di una raccolta di poesie, nel 1847 pubblicarono, in contemporanea, i tre romanzi Jane Eyre, Agnes Grey e Cime tempestose. L’opera di Charlotte, Jane Eyre, un romanzo di formazione scritto in forma di autobiografia, fu accolto con notevole favore e anche Agnes Grey della sorella Anne ricevette numerose lodi, ma il pubblico e la critica dell’epoca vittoriana rivelarono scarsa lungimiranza nel decretare l’insuccesso di Cime tempestose, unico romanzo di Emily Brontë, ormai considerato un capolavoro della letteratura mondiale. Questo volume comprende l’opera narrativa completa delle tre sorelle Brontë.
Anne Brontë
(Thornton 1820 - Scarborough 1849), sorella minore di Charlotte ed Emily, visse fino a diciannove anni nella campagna inglese dello Yorkshire, insieme al padre, un umile pastore di origini irlandesi, e al resto della famiglia. Impiegatasi poi come governante, lasciò presto la professione per coltivare le proprie ambizioni letterarie, che furono tuttavia stroncate dalla tubercolosi, malattia che portò Anne a una morte precoce nel 1849. Fece in tempo, però, a scrivere i due romanzi La signora di Wildfell Hall, Agnes Grey (entrambi presenti in questo volume) oltre a un libro di poesie, scritte insieme alle sorelle.Charlotte Brontë
(Thornton 1816 - Haworth 1855) trascorse nello Yorkshire la propria vita funestata da malattie e disgrazie familiari. Fu autrice di romanzi che hanno per protagoniste delle drammatiche figure di donne: Villette, Jane Eyre, Shirley e Il professore, tutti presenti nel volume Tutti i romanzi.Emily Brontë
(Thornton, 1818 - Haworth, 1848) crebbe nella selvaggia e desolata brughiera dello Yorkshire e, con le sorelle Charlotte e Anne, condusse fin dall’infanzia un’esistenza chiusa in un’aspra solitudine e segnata da una fortissima tensione interiore. Nelle poesie e nel suo unico romanzo, Cime Tempestose, la sua immaginazione febbrile e la sua accesa visionarietà romantica si esprimono con singolare vigore, facendo originalmente rivivere situazioni e atmosfere del romanzo “nero” e del titanismo byroniano.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2016
ISBN9788854198777
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Autore

Emily Brontë

Emily Brontë (1818-1848) was an English novelist and poet known famously for her only novel, Wuthering Heights. The work was originally published in a three-volume set alongside the work of her sister Anne. Due to the politics of the time, she and her sister were given the names Ellis and Acton Bell as pseudonyms. It wasn’t until 1850 that their real names were printed on their respective works. The initial reception of Wuthering Heights by the public was not favorable. Many readers were confused by the novel structure—they had not previously encountered a frame narrative (story-within-a-story) as unique as that of Wuthering Heights. Emily Brontë died from tuberculosis at age thirty, only a year after the publication of her landmark book. Alas, she didn’t live long enough to revel in its legacy; the book later became an iconic work of English literature.

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    Anteprima del libro

    Tutti i romanzi - Emily Brontë

    455

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9877-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di Librofficina

    Anne, Charlotte, Emily Brontë

    Tutti i romanzi

    Charlotte Brontë, Jane Eyre

    Charlotte Brontë, Shirley

    Charlotte Brontë, Villette

    Charlotte Brontë, Il professore

    Anne Brontë, Agnes Grey

    Anne Brontë, La signora di Wildfell Hall

    Emily Brontë, Cime tempestose

    Edizioni integrali

    Charlotte Brontë

    Jane Eyre

    Introduzione di Giuseppe Lombardo

    Titolo originale: Jane Eyre, traduzione di Lia Spaventa Filippi.

    Introduzione

    Un padre austero ma dalla personalità assai sfaccettata, una madre scomparsa troppo presto eppure sempre incombente nel ricordo dei figli, il piccolo ambiente di Haworth, nello Yorkshire, un villaggio incastonato fra colline di selvaggia bellezza, sono questi gli elementi centrali di un «caso» unico nella storia della letteratura inglese, un vero e proprio mito che resiste tuttora all’usura del tempo: il mito dei Brontë.

    Le origini della famiglia sembrano ritagliate in modo da esaltare la leggenda. Il capostipite, Patrick Brontë (nato nel 1777), irlandese di umile provenienza, persegue con volontà incrollabile l’obiettivo della carriera ecclesiastica e nel 1802 entra al St. John’s College di Cambridge. La laurea e il successivo ingresso nella Chiesa d’Inghilterra lo porteranno dopo varie tappe (Wethersfield, Wellington, Hartshead e Thornton) alla curazia perpetua di Haworth (1820). A otto anni prima risale il matrimonio con Maria Branwell, allietato da ben sei figli: Maria (aprile 1814), Elizabeth (febbraio 1815), Charlotte (aprile 1816), Patrick Branwell (giugno 1817), Emily Jane (luglio 1818), Anne (gennaio 1820). Un anno dopo la nascita di Anne, il 15 settembre 1821, la madre muore di cancro. L’improvviso vuoto di affetti spinge i piccoli Brontë a rafforzare i legami reciproci e quelli con il padre. Questi assume in proprio il compito dell’educazione dell’unico maschio, Patrick Branwell, del quale incoraggia una certa dote innata per il disegno oltre a insegnargli i rituali greco e latino: il sogno è quello di farne un artista. Le femmine, invece, a eccezione di Anne, frequentano per due anni (1824-1825) la Clergy Daughters’ School di Cowan Bridge, vicino a Tunstall nel Lancashire, dove si compie l’episodio forse più tragico dell’intera esistenza della famiglia: le due bambine più grandi, Maria ed Elizabeth, a causa delle dure condizioni di vita si ammalano di tubercolosi e muoiono all’età di dodici e dieci anni rispettivamente, mentre Charlotte ed Emily Jane vengono fatte rientrare in tutta fretta a casa. Ai nuovi impegni il reverendo Brontë fa fronte occupandosi direttamente dei settori nei quali si sente maggiormente versato, la letteratura, i classici, la storia, la geografia, la grammatica, ecc. Per Patrick Branwell assume un insegnante di disegno del quale si serviranno anche le figlie e per queste ultime ci sarà un insegnante di musica. Si crea così all’interno della famiglia un’atmosfera di eccitante libertà intellettuale e di essa usufruiscono soprattutto Charlotte ed Emily, anzi la fantasia vivacissima della prima ne sarà indelebilmente segnata. La partecipazione, poi, quale socio fondatore, alla vicina Keighley Mechanics’ Institute Library, ricca di libri di viaggio e di scienze naturali, gli consentirà di mettere a disposizione delle figlie una serie di testi destinati a esercitare un influsso decisivo sullo sviluppo del loro talento artistico.

    Nell’atmosfera accogliente del vecchio presbiterio di Haworth, i piccoli Brontë crescono intrecciando esperienze e influssi fra i più disparati. Il padre, nel quale le passioni di un tempo per la politica e la vita militare non si sono mai sopite, offre una finestra costantemente aggiornata sul mondo esterno. Ma sono soprattutto le riviste più note, con la «Blackwood’s Magazine» in testa, ad alimentare il gusto onnivoro per la lettura e a stimolare la naturale precocità del genio di Charlotte ed Emily. Le affinità elettive, com’era prevedibile, avvicinano Charlotte a Patrick Branwell e Anne a Emily Jane. Le due coppie lavorano a progetti diversi ma radicati sullo stesso terreno biografico-fantastico. Fra il gennaio 1829 e il dicembre 1830, Charlotte e Patrick Branwell tirano fuori quindici numeri di una «Branwell’s Blackwood’s Magazine», ben presto trasformata in «Branwell’s Young Men’s Magazine», dove poesie e recensioni di libri, racconti a puntate e commenti sulle notizie di attualità, indovinelli e disegni ecc., costituiscono una gioiosa controparte fanciullesca della famosa «Blackwood’s». Assumendo le vesti di personaggi illustri del periodo (il duca di Wellington, Napoleone, il duca di York, il maresciallo Soult), i giovani Brontë giocano a creare eroi fantastici su cui riversano i frutti delle tante letture e una sorta di smisurato e ingenuo entusiasmo. Charlotte si dedica a perfezionare il personaggio del Duca di Zamorna, figura romantica per eccellenza di seduttore e avventuriero nutrita delle sue letture di Sir Walter Scott e Lord Byron. Il regalo di una scatola di soldatini di legno indurrà Patrick Branwell a trasformare un gioco innocente nel teatro di battaglie e conquiste nella favoleggiata Glass Town Confederacy, in Africa, a cui seguirà una vera e propria ricostruzione delle vicende del Regno di Angria. Queste cronache fantastiche si coaguleranno intorno alla figura di Alexander Percy, visconte di Elrington e già conte di Northangerland, una creazione di Branwell che Charlotte farà propria per contrapporla a Zamorna e mescolare così l’intrigo politico alle passioni e ai sentimenti esasperati. Alla rivista fatta in casa, con i fascicoletti ordinatamente rilegati a mano, si affianca via via un flusso inarrestabile di brevi pezzi narrativi, di commenti sugli affari di Angria, di abbozzi provvisori, di carte manoscritte insomma, che oggi costituiscono una vera e propria miniera per gli studiosi dei Brontë. La collaborazione fra Emily Jane e Anne è meno pirotecnica e di essa ci sono rimasti soltanto alcuni frammenti poetici. I contorni dell’intero disegno sono però abbastanza chiari: la saga di Gondal ruota attorno all’eroina Augusta Geraldine Almeda, liberamente ispirata dalla giovane principessa Vittoria, i cui umori capricciosi gettano nella disperazione gli amanti rivali, Julius Brenzaida di Angora, Ferdinando de Samara e Lord Alfred Aspin di Aspin Castle. La situazione prefigura il «triangolo» di Wuthering Heights (1847), cioè Catherine, Heathcliff ed Edgar Linton.

    La magia di questo straordinario cerchio familiare subisce un primo colpo quando Charlotte viene iscritta in una scuola distante circa venti miglia da casa, Roe Head in Mirfield Moor (gennaio 183I-giugno 1832). L’ambiente aperto e la generosità della direttrice, Miss Margaret Wooler, coadiuvata dalle sorelle Catherine ed Eliza, contribuiranno a fare di lei una perfetta governante, e durante il triennio seguente, 1832-1835, ella provvederà all’istruzione delle altre due sorelle. Nell’autunno del 1835 Patrick Branwell approda a Londra, dove tenta di farsi ammettere alla Academy Schools ma ben presto deve constatare l’illusorietà del progetto di una rispettata carriera di artista; nel maggio del 1836, ormai sconfitto e incapace di opporsi a quelli che sembrano inesorabili colpi del destino, egli fa definitivamente ritorno a Haworth. Ma l’incantesimo di un tempo è ormai svanito. Anche Emily Jane e Anne sono costrette a lasciare la casa paterna; come Charlotte, entrambe si guadagnano da vivere accettando un posto di governante, mestiere duro e privo di reali soddisfazioni. L’ultimo tentativo di venire a patti con il mondo è del 1842: nel febbraio di quell’anno Charlotte ed Emily Jane si trasferiscono a Bruxelles dove studiano lingue e lavorano presso una scuola diretta dai coniugi Héger; qui Charlotte si lascerà prendere da un amore disperato e impossibile per M. Héger suscitando la gelosia della consorte e finendo per essere costretta a rientrare in Inghilterra (1844).

    Le ambizioni letterarie delle tre sorelle trovano sbocco nel 1846 con la pubblicazione congiunta di Poems by Currer, Ellis and Acton Bell. La scelta dei tre pseudonimi, Currer (Charlotte), Ellis (Emily) e Acton (Anne), si innesta in quel tessuto fitto di scambi tra realtà e fantasia che le ha viste mettere alla prova il loro genio precoce. È uno stato di grazia che nel giro di appena un anno le vedrà impegnate ciascuna a un proprio romanzo: Wuthering Heights di Emily e Agnes Grey di Anne saranno accettati dall’editore Henry Colburn mentre Charlotte cercherà inutilmente di piazzare il suo The Professor (il libro vedrà la luce postumo nel 1857). Indispettita, ella passa senza indugio alla composizione di Jane Eyre che esce nell’ottobre 1847 e riscuote subito un successo imprevisto. A differenza di Emily, Anne affronterà una seconda prova narrativa, The Tenant of Wildfell Hall del 1848. Di Charlotte avremo ancora Shirley (1849) e Villette (1853).

    Il tramonto della famiglia è tragico e malinconico insieme. Tra il 1848 e il 1849 muoiono in rapida successione Branwell, Emily e Anne. Charlotte trascorrerà i pochi anni che le rimangono (muore nel 1855) accanto al vecchio padre e al reverendo Arthur Bell Nicholls (sposato nel 1854), a parte un paio di occasionali visite a Londra dove l’amicizia di William M. Thackeray e quella di Elizabeth Gaskell saranno il suo unico conforto. Quest’ultima, con la famosa Life of Charlotte Brontë (1857), si incaricherà per prima di raccontare al mondo i fatti e il mito.

    Se la figura del reverendo Brontë è per moltissimi versi decisiva nel creare quell’atmosfera di libertà e vivacità intellettuale che dà respiro al mito, è innegabile tuttavia che da un certo momento in avanti essa venga in qualche modo sostituita da quella di Charlotte. La morte delle due figlie maggiori e poi la debolezza di Patrick Branwell fanno di lei la «guida» naturale del gruppo, il punto di intersezione delle tensioni sentimentali e psicologiche che cementano le aspirazioni dei singoli e si traducono nel caleidoscopio di romanzesche avventure della storia di Angria e della saga di Gondal. Fin dall’inizio ella si distingue dai fratelli per la non comune capacità di tratteggiare con plastico realismo personaggi scaturiti dall’incrocio tra la fantasia e le suggestioni libresche; ma è nelle novelettes degli anni 1836-1839 (Passing Events, Mina Laury, Captain Henry Hastings, Caroline Vernon, ecc.), tutte rigorosamente inedite, che ella perfeziona il suo tema preferito, il «tema della seduzione», della proposta d’amore inaccettabile sul piano morale o sociale e però destinata a innescare il tormento della passione e della conseguente repressione. Charlotte, comunque, funge da battistrada anche verso l’esterno, prima come governante e poi durante il breve soggiorno a Bruxelles. E se non bastasse, lo straordinario triennio 1846-1848, sorta di irripetibile annus mirabilis, la vede protagonista in tutti i sensi: è sua l’idea del volume di poesie e del triplice pseudonimo al riparo del quale sfidare il perbenismo borghese imperante, così come vengono da lei la spinta decisiva alla composizione dei romanzi delle sorelle e la tenacia con cui reagisce alla mancata pubblicazione del suo The Professor. È da questo momento concentratissimo che scaturisce Jane Eyre, il capolavoro, la storia melodrammatica della piccola governante che affascina e infine sposa il suo padrone, né bella né attraente per i canoni estetici dell’epoca, forse del tutto ignara delle arti femminili della seduzione, ma dotata di una volontà di ferro che travolge ogni ostacolo e la preserva immune dai rischi delle tentazioni di cui è disseminato l’aspro cammino della vita.

    Storia semplice quella di Jane e neanche tanto complicata nell’intreccio se si tiene a mente il ruolo unificante della prima persona che narra per ricostruire, come recita il sottotitolo del romanzo, «Un’autobiografia».

    E di questo genere letterario il testo conserva i tratti salienti: l’azione si sviluppa in un arco temporale che copre tutto il processo di crescita della protagonista, dai primi passi in casa della zia Mrs. Reed fino al matrimonio conclusivo con Edward Rochester; la rievocazione di persone ed eventi si colora della nostalgia del ricordo e sollecita l’intervento dell’io narrante che a ogni giro di frase distingue, interpreta, suggerisce, giudica o commenta, intrecciando con il lettore un colloquio talora ossessivo. Sia che in Jane si colga l’ennesima versione della Cenerentola in attesa del suo principe, dell’anonima portatrice di una bontà innata che finirà per trionfare sull’odio e l’invidia, o che si preferisca leggere la sua vicenda come riedizione in chiave minore del Viaggio del pellegrino di John Bunyan, la sequenza di «interni» ed «esterni» in cui si articola la trama possiede l’inevitabilità di un destino già segnato. Gateshead Hall, Lowood, Thornfield Hall, Whitcross, Marsh End, Ferndean: ecco le tappe di un percorso accidentato, ricco di cadute non meritate cui seguono altrettanto insperate resurrezioni. Ogni nome simboleggia una fase dell’esistenza, ne racchiude le gioie o i dolori. Gateshead: barriere (gates) che imprigionano l’orfana ospitata a malincuore in casa dell’arcigna Mrs. Reed solo perché ella così ha promesso in punto di morte a Mr. Reed, lo zio buono. Lowood: degrado (low) e vita di stenti in una scuola per poveri dove il sadismo del falso benefattore, Mr. Brocklehurst, è appena temperato dal sorriso e dalla dedizione di Miss Temple, l’insegnante che avvia Jane al mestiere di governante. Thornfield: spine (thorns) dolorose infliggono tormenti mai provati al cuore ingenuo della giovinetta perduta d’amore per il padrone, l’ombroso e passionale Edward Rochester, più grande di lei e custode di un segreto terribile, il matrimonio con Bertha, donna bellissima e sensuale ma ben presto divenuta pazza e ora rinchiusa nelle stanze (il celebre «attico») dell’ultimo piano della gotica dimora dei Rochester. Whitcross: incrocio (cross), cioè momento di scelta, incertezza circa il futuro dopo la fuga da Thornfield in seguito al fallito tentativo di sposare Rochester, illusione di trovar pace lasciandosi andare nel grembo di una natura accogliente ma selvaggia. Marsh End: fine (end) di un vagare senza meta, uscita dalla palude della sofferenza, gioia nel ritrovare i parenti creduti morti, nell’apprendere la notizia di un’eredità tale da ripagare delle passate vicissitudini, nel ricevere una proposta di matrimonio (quella di St. John Rivers) che sembra giungere a fortificare la tempra morale di Jane. Ferndean: porto finale, verde come le felci (fern) che crescono intorno rigogliose a simboleggiare un futuro radioso per il padrone e la governante ormai definitivamente riuniti.

    Scacciata da Gateshead e poi oppressa dalla fame e dalle privazioni a Lowood, in fuga da Thornfield o accolta dal calore di Marsh End, sola nella landa desolata di Whitcross o premurosa a Ferndean, Jane è sempre uguale a se stessa. Il nucleo forte del suo carattere consiste in una fede sincera che la guida all’istintivo riconoscimento del bene e del male; a essa si accoppia una singolare autodisciplina, perfezionata lentamente con il passare degli anni, che bilancia le spinte insopprimibili e gli eccessi della passione con il richiamo all’etica della responsabilità. Ogni volta che le circostanze sembrano mettere in discussione la stessa natura ragionata delle scelte che ella è chiamata a compiere, Jane riesce a fare il classico passo indietro, si ferma prima del limite anche a costo di mutare radicalmente il corso della propria vita. E così a Thornfield quando rifiuta sdegnosamente di diventare l’amante di Rochester dopo che il segreto del matrimonio con Bertha è stato svelato; la stessa cosa si ripete a Marsh End quando ella resiste tenacemente alle pressioni di St. John Rivers che non esita a prospettarle il loro matrimonio come parte degli imperscrutabili disegni divini. Lo stesso «tema della seduzione» presenta differenze significative rispetto allo sviluppo tradizionale: i tratti byroniani di Rochester sono assai meno marcati del solito, anzi egli sembra a lungo incapace di trascendere gli schemi mentali del ceto di appartenenza e troppo spesso si rivela goffo e burbero invece che seducente; Jane non fa niente per incoraggiarlo, sembra quasi divertirsi a tarpare le ali della sua irruenza e non diviene mai preda dei languori e delle svenevolezze naturalmente associati al cedimento femminile. Alla fine l’amore fra i due trionfa ma a quale prezzo! Thornfield distrutta dall’incendio provocato da Bertha, che a sua volta muore suicida, Rochester spezzato nel fisico e nell’orgoglio, mutilato e accecato dalle fiamme nel vano tentativo di fermare la tragica follia della moglie.

    Tutto ciò porta dritti alla questione che ha smosso le acque della critica moderna su Jane Eyre, quella del femminismo della protagonista e, per trasposizione, della stessa Charlotte Brontë. La cifra autobiografica del romanzo è così intensa da non consentire artificiosi distinguo fra autore e personaggio e non vi è dubbio che la proverbiale «cocciutaggine» di Jane, il suo spirito ribelle fin dagli anni della fanciullezza, abbia come bersaglio preferito il conformismo della famiglia e della società patriarcali, il vieto moralismo sotto cui si dissimulano i rapporti di forza che opprimono le donne. Inoltre, il «doppio» costituito dalla figura di Bertha, la pazza rinchiusa nell’attico, sottratta all’osservazione e al giudizio diretti e però sempre in agguato, denuncia la sostanziale falsità degli opposti clichés di donna costruiti dal maschilismo della cultura dominante, la pazza o l’isterica appunto e l’angelo del focolare. Jane torna accanto a un Rochester ormai sceso dal piedistallo del rango e del sesso: la distanza fra i due si è ridotta enormemente e il rapporto che li unisce non è più di forza ma di vicendevole integrazione; ella vede e si muove per lui e nessuno domina. Ma siamo a Ferndean sembra dire la voce di Charlotte sovrapposta a quella di Jane, siamo nello scenario edenico e utopico al tempo stesso di una Natura che sola può lenire le ferite inferte dagli uomini, lontano da una società a cui è invece connaturato il germe della discriminazione e dell’ingiustizia.

    GIUSEPPE LOMBARDO

    Capitolo primo

    Impossibile far la passeggiata quel giorno. La mattina, invece, avevamo errato un’ora per le macchie spoglie, ma dopo pranzo (la signora Reed, quando non aveva compagnia, pranzava presto) il freddo vento invernale aveva ammassato delle nuvole così cupe, e cadeva una pioggia così insistente, che di andar fuori non si parlò neppure.

    Me ne rallegrai. Non ho mai amato le passeggiate lunghe, specialmente nei pomeriggi rigidi. Era per me terribile ritornare a casa nel crepuscolo grigio, con le dita delle mani e dei piedi gelate, il cuore rattristato dai rimproveri di Bessie, la bambinaia, e sentirmi umiliata dalla consapevolezza della mia inferiorità fisica di fronte a Eliza, John e Georgiana Reed. Eliza, John e Georgiana erano ora raccolti in salotto intorno alla loro mamma, distesa su un divano accanto al fuoco. Contornata dai suoi cari figlioli, che per il momento non si bisticciavano né piangevano, aveva un’aria perfettamente felice. Quanto a me, ero dispensata dall’unirmi al gruppo. Le rincresceva, aveva dichiarato, di dovermi tenere a distanza, ma finché non avesse sentito da Bessie, o non avesse potuto osservare lei stessa che facevo dei seri sforzi per acquistare un carattere più socievole e infantile, delle maniere più amabili e briose, un atteggiamento più aperto e franco, realmente doveva escludermi dai privilegi riservati soltanto ai suoi soddisfatti e felici figlioli.

    «Che cosa dice Bessie?», domandai.

    «Jane, non mi piace che tu critichi o discuta. E poi è insopportabile che una bambina si rivolga ai più anziani con quel tono. Va’ a sederti in qualche parte, e, finché non riuscirai a discorrere affabilmente, rimani zitta». Me la svignai nel piccolo tinello ch’era attiguo al salotto. Là c’era una libreria. M’impossessai di un volume, facendo attenzione che fosse molto illustrato. Salii sulla sporgenza della finestra, e tirati su i piedi, sedetti con le gambe incrociate alla turca; tirai la tenda di damasco rosso e mi sentii doppiamente sola.

    A sinistra la vista mi era preclusa dai panneggi della tappezzeria scarlatta; a destra i vetri chiari della finestra mi riparavano, senza separarmene, dalla triste giornata novembrina. A intervalli, ogni volta che giravo le pagine del libro, osservavo l’aspetto di quel pomeriggio invernale. L’orizzonte si perdeva in un biancore di nebbia e nuvole. Vicino, la prateria umida e la macchia battuta dalla tempesta, sotto la pioggia incessante che spingeva selvaggiamente dinanzi a sé l’infinito e lamentoso soffiar del vento.

    Ritornai al mio libro, La storia degli uccelli d’Inghilterra del Bewick. Il testo in genere m’interessava poco; eppure c’erano delle pagine introduttive che, sebbene bambina, non potevo saltare. Erano quelle che si riferivano ai ricoveri degli uccelli marini, le rocce solitarie e i promontori di cui essi sono i soli abitatori, le coste della Norvegia, con la sua frangia di isole all’estremità meridionale, Lindeness o Nake, al Capo Nord.

    Ove il Mar Artico con ribollenti

    Vortici l’isole nude dell’ultima

    Tule circonda; e il flutto atlantico

    Le procellose Ebridi batte.

    Né poteva passarmi inosservata la visione suggestiva delle coste desolate della Lapponia, della Siberia, dello Spitzbergen, della Nuova Zemlja, dell’Irlanda, della Groenlandia, con «la vasta cerchia della Zona Artica e quelle regioni sperdute, quel serbatoio di gelo e di neve, dove immensità di ghiaccio, ammassato in centinaia di inverni, accumulato vetta su vetta, circondano il polo, e raccolgono moltiplicati i rigori del freddo estremo».

    Di questi regni della morte bianca mi facevo una idea tutta mia, vaga come tutte le nozioni comprese a mezzo, che riempiono il cervello infantile, ma stranamente impressionanti. Il testo delle pagine introduttive si collegava alle vignette, e dava un senso alla roccia che si ergeva solitaria su un mare in tempesta, al battello arenato su una riva deserta, alla luna squallida che guardava un naufragio attraverso gli spiragli delle nuvole.

    Non posso esprimere quale sentimento mi ispirasse il camposanto solitario, con le sue iscrizioni sulle pietre tombali; il cancello con due alberi a fianco, l’orizzonte basso, il muro diroccato intorno, e la luna nuova che accompagna l’ora della bassa marea.

    Le due barche galleggianti sul mare immobile mi parevano fantasmi marini.

    Ogni immagine aveva la sua storia, spesso misteriosa alla mia comprensione infantile e al mio sentimento incompleto, eppure sempre profondamente interessante. Interessante come le storie che a volte nelle sere d’inverno ci raccontava Bessie, quando era di buon umore. Essa portava il tavolo da stiro accanto al caminetto della camera dei bambini, ci permetteva di sederci intorno, e mentre ripassava le gale di pizzo della signora Reed, alimentava la nostra ardente immaginazione con storie d’amore e d’avventure di vecchie fiabe o di antiche ballate; o, come scoprii più tardi, con passi presi da Pamela, e da Enrico, Conte di Moreland.

    Con Bewick sulle ginocchia mi sentivo felice. Felice a mio modo, almeno. Temevo soltanto di essere interrotta, e questo accadde troppo presto. La porta del tinello si aprì.

    «Ohi, madama Smorfiosa!», gridò la voce di John Reed. Ma si fermò, perché non vide nessuno nella stanza.

    «Dove diavolo è?», continuò.

    «Lizzy, Georgy!» (chiamando le sorelle).

    «Jane non c’è. Dite alla mamma che è uscita sotto la pioggia, quella brutta bestia».

    «Ho fatto bene a tirare la tenda», pensai, e desiderai caldamente che non riuscisse a scoprire il mio nascondiglio. Né da sé sarebbe stato capace, poiché non era rapido né di occhio né di fantasia. Ma appena Eliza si affacciò nella stanza disse immediatamente:

    «Di sicuro è sulla finestra, Jack».

    Allora uscii subito fuori, perché tremai al pensiero di esservi sloggiata dal detto Jack.

    «Che cosa vuoi?», dissi con intima diffidenza.

    «Devi dire: Che cosa vuoi, signor Reed?», egli rispose.

    «Voglio che vieni qui» e, sedutosi su una poltrona, mi intimò con un gesto che mi avvicinassi e stessi dinanzi a lui.

    John era uno scolaro di quattordici anni, aveva quattro anni più di me, che ne avevo dieci. Grande e grosso per la sua età, con una pelle scura e malsana, i lineamenti marcati nella faccia magra, le membra pesanti e i piedi grandi. Di solito s’impinzava a tavola, cosa che lo rendeva collerico e gli procurava gli occhi opachi e le guance flosce. Sarebbe dovuto in quel tempo essere a scuola, ma la mamma lo aveva ritirato per un mese o due, «per la sua cattiva salute».

    Il maestro dichiarava che sarebbe stato benissimo, se avesse ricevuto meno torte e dolciumi da casa, ma il cuore materno respingeva un concetto tanto severo, e preferiva attribuire il giallore di John al troppo studio, o piuttosto, alla sua nostalgia per la famiglia.

    John non sentiva molto affetto per la madre e le sorelle; e sentiva avversione per me. Mi minacciava e mi puniva, e questo non avveniva due o tre volte alla settimana, o due o tre volte al giorno, ma continuamente. Tutti i miei nervi lo temevano, tutti i miei muscoli si contraevano al suo approssimarsi. Certi momenti ero esasperata dal terrore che mi ispirava, perché non avevo a chi ricorrere per difendermi dalle sue minacce e imposizioni. Ai domestici non garbava offendere il signorino col prendere le mie parti contro di lui; la signora Reed era su questo punto sorda e cieca. Anche se mi picchiava e sgridava in sua presenza, non lo vedeva.

    Siccome avevo l’abitudine di obbedire a John, mi avvicinai alla sua sedia. Egli rimase per tre minuti a tirarmi fuori la lingua quel tanto che poté farlo senza divellerla dalle radici. Sapevo che mi avrebbe picchiato, e mentre paventavo il colpo, riflettevo sulla bruttezza fisica di colui che mi avrebbe colpito. Chissà che non mi avesse letto il mio pensiero sul viso, perché a un tratto, senza aprir bocca, mi assestò un colpo violento. Vacillai e, riacquistando l’equilibrio, arretrai di qualche passo.

    «Questo è per la sfacciataggine con cui hai risposto alla mamma, poco fa», disse, «e per il tuo modo vigliacco di nasconderti dietro la tenda, e per lo sguardo che avevi negli occhi due minuti fa, vipera!». Abituata ai maltrattamenti di John Reed, non mi preoccupai di rispondere, ma di come sopportare il resto.

    «Che cosa facevi dietro la tenda?», mi chiese.

    «Leggevo».

    «Mostra il libro!».

    Ritornai alla finestra a prenderlo.

    «Non hai il diritto di prendere i nostri libri. Sei una dipendente, dice la mamma. Non hai denaro; tuo padre non te ne ha lasciato. Dovresti andar per elemosina, e non vivere con ragazzi di famiglia signorile come noi, né mangiare, né vestire a spese della nostra mamma. Ora ti insegnerò a frugare fra i miei libri perché i libri sono miei. Tutta la casa mi appartiene, o mi apparterrà fra pochi anni. Va’ vicino alla porta, ma tieniti lontana dallo specchio e dalle finestre.

    Obbedii, senza capire dapprima che intenzione avesse. Ma quando sollevò e soppesò il libro, e poi lo vidi sul punto di gettarlo, istintivamente mi tirai da parte con un grido, tuttavia non abbastanza in fretta. Il volume lanciato mi colpì, e io caddi picchiando la testa contro la porta, e mi ferii. La ferita sanguinava, e mi faceva male. Il mio terrore aveva oltrepassato i limiti. Altri sentimenti intervenirono.

    «Cattivo, crudele!», dissi.

    «Sei come un assassino, sei come un mercante di schiavi, sei come gli imperatori romani!». Avevo letto La storia di Roma di Goldsmith, e mi ero fatta un’opinione su Nerone, Caligola ecc. Avevo anche fatto dei paragoni, che non avevo mai supposto di poter esprimere ad alta voce.

    «Che cosa, che cosa?», gridò.

    «Che cosa mi ha detto? Avete sentito, Eliza e Georgiana? Credi che non lo dica alla mamma? Ma prima…». Si precipitò su di me. Sentii che mi scuoteva i capelli e la spalla. Ma attaccava un essere disperato. In realtà vedevo in lui un tiranno, un assassino. Sentii scivolarmi lungo il collo una o due gocce di sangue e il dolore della ferita alla testa. Queste sensazioni dominarono per un momento la paura, e lo ricevetti come una forsennata. Non so bene dove misi le mani, ma egli mi chiamò «Vipera! vipera!» e cominciò a mugghiare a voce alta. L’aiuto fu subito pronto. Eliza e Georgiana erano corse dalla signora Reed, che si trovava di sopra. Essa entrò sulla scena, seguita da Bessie e da Abbot, la sua cameriera. Ci separarono. Sentii dire:

    «Mio Dio! Quella furia attaccarsi al signorino John!».

    «Si è mai visto tale spettacolo di violenza!». La signora Reed soggiunse:

    «Portatela nella camera rossa e chiudetevela».

    Quattro mani mi presero immediatamente, e mi portarono su per le scale.

    Capitolo secondo

    Io continuai a dibattermi: era una cosa nuova, e la circostanza rafforzò grandemente la cattiva opinione che Bessie e la signorina Abbot erano propense ad avere di me. Difatti io avevo perduto un poco il controllo, o meglio ero fuori di me. Ben sapevo che un istante di ribellione già mi aveva attirato dei terribili castighi, e, come una qualsiasi schiava ribelle, ero decisa, nella mia disperazione, ad andare fino alla fine.

    «Le tenga le braccia, signorina Abbot: pare un gatto infuriato».

    «Che vergogna! che vergogna!», gridò la cameriera della signora.

    «Che condotta ripugnante, signorina Eyre, colpire il signorino, il figlio della sua benefattrice! Il suo padroncino!».

    «Il mio padroncino! In che modo è il mio padroncino? Sono una serva?»

    «No; è meno di una serva, perché non fa nulla per il suo mantenimento. E ora si sieda, e pensi alla sua cattiveria». Mi avevano frattanto condotta nella stanza indicata dalla signora Reed, e mi avevano gettata su uno sgabello: il mio impulso fu di schizzar via con un salto; le loro quattro mani mi fermarono immediatamente.

    «Se non rimarrà tranquilla, dovremo legarla», disse Bessie.

    «Signorina Abbot, mi dia le sue giarrettiere; le mie le romperebbe subito». La signorina Abbot si voltò per liberare le sue gambe robuste dei legacci richiesti. Questi preparativi di schiavitù, e l’ignominia che vi si aggiungeva, servirono a rendermi un poco più calma.

    «Non le prenda», gridai; «non mi muoverò». E come garanzia alle mie parole, salii da me al mio posto.

    «Farà meglio a metter giudizio», disse Bessie. E quando fu certa che veramente stavo sottomettendomi, lasciò andare la stretta. Allora tutte e due incrociarono le braccia, e mi guardarono con un’aria aggrondata e inquieta, come fossero incredule sulle mie buone intenzioni.

    «Non ha fatto mai così», disse finalmente Bessie rivolgendosi alla confidente della signora.

    «Ma era sempre in sé», rispose l’altra.

    «Ho espresso più volte il mio parere su questa bambina alla signora, e la signora è d’accordo con me. È una piccola sorniona: non ho mai visto una ragazzina della sua età dissimulare così bene». Bessie non rispose; ma un momento dopo, rivolgendosi a me, disse:

    «Dovrebbe rendersi conto, signorina, che è obbligata alla signora Reed: se dovesse mandarla via, sarebbe costretta ad andare all’orfanotrofio».

    Non avevo nulla da obiettare a quelle parole. Non mi erano nuove. I primi ricordi della mia esistenza contenevano allusioni di quel genere. Questo rimprovero sulla mia dipendenza suonava al mio orecchio come un ritornello, molto doloroso e lancinante, ma comprensibile solo per metà. La signorina Abbot fece osservare:

    «Non deve sognarsi di mettersi su un piede di eguaglianza con le signorine Reed e il signor Reed, solamente perché la signora ha, bontà sua, permesso che lei sia allevata insieme con loro. Essi avranno un mucchio di denaro e lei non avrà nulla: quel che deve fare è di essere umile, e cercare di rendersi loro gradita».

    «Quel che le diciamo è per il suo bene», aggiunse Bessie, senza asprezza nella voce: «deve cercare di rendersi utile e gradita; allora, forse, si troverà come a casa sua qui; ma se diventerà violenta e sgarbata, certo le signorine la manderanno via».

    «Inoltre», disse la signorina Abbot, «Dio la punirà. Egli può colpirla in mezzo a una sua crisi, e allora che sarà di lei? Vieni, Bessie, lasciamola. Non vorrei avere il suo cuore per nulla al mondo. Dica le sue preghiere, signorina Eyre, quando sarà da sola, perché se non si pente, può darsi che un diavolo scenda giù dal camino e la porti via». Esse uscirono, chiudendo la porta a chiave.

    La stanza rossa era una camera di riserva, dove raramente si dormiva; potrei dire mai, a meno che un fluire eccezionale di visitatori a Gateshead Hall rendesse necessario utilizzare tutti i locali che conteneva. Era la camera più grande e sontuosa della casa. Un letto, sostenuto da massicce colonne di mogano, da cui pendevano delle tendine di damasco rosso vivo, si ergeva nel mezzo come un tabernacolo; le due grandi finestre, con le persiane sempre abbassate, erano seminascoste da festoni e ricaschi della stessa stoffa. Il tappeto era rosso. Il tavolino ai piedi del letto era coperto da un panno cremisi. Le pareti erano di un blando fulvo, ravvivato da un tocco di rosa. L’armadio, la toeletta, le sedie erano di vecchio mogano lucido e avvolgevano profonde strisce d’ombra, e spiccavano candidi i materassi e i cuscini del letto, ricoperti da un niveo panno di Marsiglia. Non era di minore effetto un’ampia poltrona imbottita, a capo del letto, pure bianca, con un predellino dinanzi che mi faceva l’impressione di un pallido trono.

    Questa camera era gelida, perché raramente vi si accendeva il fuoco; era silenziosa, perché lontana dalla stanza dei bambini e dalle cucine; solenne, perché vi si entrava di rado. Solo la cameriera vi veniva il sabato a togliere la silenziosa polvere settimanale dagli specchi e dalla mobilia. La stessa signora Reed la visitava a lunghi intervalli, per passare in rivista il contenuto di un certo cassetto segreto dell’armadio, dove teneva riposte alcune pergamene, il cofano dei suoi gioielli, e una miniatura del marito morto; e in queste ultime parole stava il segreto della camera rossa… del fascino che la rendeva così solitaria nonostante la sua grandiosità.

    Il signor Reed era morto da nove anni. In questa camera egli aveva esalato l’ultimo respiro; là aveva riposato in gran pompa; di là era partito il feretro portato dagli uomini delle pompe funebri; e da quel giorno un senso di consacrazione funebre l’aveva difesa da frequenti intrusioni.

    La sedia, ove Bessie e l’acida signorina Abbot m’avevano lasciata inchiodata, era un basso sgabello imbottito accanto al marmo del caminetto. Dinanzi s’innalzava il letto. Alla mia destra stava l’armadio alto e scuro con dei riflessi smorzati, che alteravano il luccichio dei pannelli; alla sinistra le finestre mezzo nascoste; e un grande specchio fra esse ripeteva la grandiosità del letto e della stanza vuota. Non ero assolutamente certa che avessero chiusa a chiave la porta; e quando osai muovermi, mi alzai per assicurarmi. Ohimè, sì! Nessuna prigione era stata mai più sicura. Ritornando, dovetti passare dinanzi allo specchio. Il mio sguardo affascinato esplorò senza volerlo le sue profondità. In quello spazio illusorio tutto pareva più oscuro che nella realtà: e la strana figurina che mi fissava col volto sbiancato, e gli occhi lucenti di paura, che si muovevano in quella calma profonda, mi faceva l’effetto di un vero fantasma. Lo presi per uno di quei piccoli esseri mezzo fata e mezzo elfo, che, nelle storie serali di Bessie, abitava i luoghi desolati e coperti di felci delle lande, e compariva dinanzi ai viaggiatori sorpresi dalla notte. Tornai allo sgabello.

    In quel momento la superstizione mi assalì; ma non era ancora venuta l’ora della sua completa vittoria. Il mio sangue era ancora caldo, e bruciava ancora in me, con la sua energia dolorosa, la ribellione della schiava. Dovetti respingere un flusso rapido di pensieri retrospettivi, prima di tremare dinanzi al presente spaventoso. Tutte le tirannie di John Reed, tutta l’indifferenza orgogliosa delle sorelle, tutta l’antipatia della madre, tutta la parzialità della servitù s’agitavano nella mia mente inquieta come il fondo agitato di un pozzo fangoso. Perché ero sempre calpestata, sempre accusata, sempre condannata? Perché non potevo mai essere amata? Perché inutilmente cercavo di guadagnare il favore altrui? Eliza, che era testarda ed egoista, era rispettata. Georgiana, una ragazza viziata, piena di rancore e d’insolenza, le aveva vinte da tutti. La sua bellezza, le sue guance rosate e i riccioli d’oro parevano incantare tutti quelli che la guardavano, e ottenevano l’impunità da ogni colpa. E John, nessuno lo rimproverava e ancor meno lo puniva; si permetteva di torcere il collo ai piccioni, di uccidere i pavoni giovani, di aizzare i cani contro le pecore, di spogliare le vigne di serra dai loro frutti, di rompere i germogli delle piante pregiate. Chiamava sua madre «la mia vecchia»; qualche volta le rimproverava la sua carnagione scura, simile alla propria. Apertamente disprezzava i suoi consigli. Abbastanza di frequente strappava e rovinava i suoi vestiti di seta; e con tutto ciò era «il suo diletto».

    Io non osavo commettere alcuna colpa; mi sforzavo di adempiere ogni dovere, e mi dicevano indocile e importuna, cupa e falsa, dalla mattina alla sera.

    Mi faceva ancora male il capo che sanguinava per il colpo e la caduta. Nessuno aveva rimproverato John per avermi colpito per suo capriccio; ma a me, che mi ero rivoltata per evitare un’ulteriore violenza, era caduto addosso l’obbrobrio generale.

    «È ingiusto, è ingiusto!», diceva la mia ragione stimolata dal dolore. E la decisione, egualmente stimolata, suggeriva strani espedienti per cercare di sfuggire a quell’oppressione insopportabile, per esempio di scappar via, o di lasciarmi morire di fame e di sete. In quale costernazione si trovava in quel terribile pomeriggio la mia anima! In quale agitazione il mio cervello, e in quale stato di rivolta il mio cuore! In che oscurità e ignoranza combattevo la mia battaglia intima! Non potevo rispondere alla domanda assillante:

    «Perché devo soffrire?».

    Ora, a distanza di molti anni, lo capisco bene.

    Io stonavo a Gateshead Hall; non assomigliavo a nessuno. Non avevo nulla in comune con la signora Reed o i suoi figlioli, o i suoi scelti servitori. Se essi non amavano me, anch’io amavo poco loro. Non potevano essere disposti ad accordare il loro affetto a un essere che non poteva simpatizzare con nessuno, là; un essere eterogeneo, a loro contrario per temperamento, facoltà e tendenze; un essere inutile, incapace di servire i loro interessi, o accrescere il loro piacere; un essere nocivo che accoglieva germi di indignazione per il loro trattamento, di disprezzo per le loro opinioni. Sapevo che se fossi stata una bambina esigente e bella – anche se dipendente e senza amici –, la signora Reed avrebbe sopportata la mia presenza più di buon animo, i figli mi avrebbero dimostrata più cordialità, la servitù sarebbe stata meno propensa a far di me il capro espiatorio della stanza dei bambini.

    La luce cominciava ad abbandonare la camera rossa. Erano le quattro passate, e il pomeriggio nuvoloso andava trasformandosi in un crepuscolo lugubre. Udivo la pioggia che continuava a picchiare contro la finestra delle scale, e il vento sibilare nel boschetto dietro l’atrio. A poco a poco mi sentivo agghiacciare come una pietra, e il coraggio abbandonarmi. Il mio abituale stato d’animo fatto di umiliazione, dubbio, abbattimento disperato, stava spegnendo le ceneri della mia ira declinante. Tutti dicevano ch’ero cattiva, e forse lo ero per davvero. Non avevo dianzi concepita l’idea di farmi morir di fame? Questo certamente era un delitto; ed ero disposta a morire? O invece la cripta della cappella di Gateshead era la meta tanto invitante? In quella cripta mi era stato detto che era sepolto il signor Reed. Per associazione di idee mi soffermai su quel pensiero con paura crescente. Non lo ricordavo, ma sapevo ch’era mio zio diretto – il fratello di mia madre –, ch’egli m’aveva preso in casa sua quando da piccola ero rimasta orfana; e che nei suoi ultimi momenti di vita aveva fatto promettere alla signora Reed che mi avrebbe allevata come uno dei propri figli. La signora Reed probabilmente credeva di aver mantenuta la promessa; forse l’aveva mantenuta per quello che le permetteva la sua natura. Ma come in realtà avrebbe potuto amare un’intrusa, che non era della sua razza, che non le era unita da nessun legame, dopo la morte del marito? Doveva vedermi come un’estranea immischiata di continuo nel suo gruppo familiare.

    Un’idea strana si faceva strada in me. Non avevo alcun dubbio, né mai l’avevo avuto, che se fosse vissuto il signor Reed, egli mi avrebbe trattata con bontà. E ora, mentre seduta miravo il letto bianco, e le pareti cariche d’ombra, e di tanto in tanto volgevo l’occhio affascinato verso lo specchio foscamente luccicante, ricordavo d’aver udito parlare di morti, turbati nella tomba perché erano stati violati i loro ultimi desideri, che erano ritornati sulla terra per punire gli spergiuri e vendicare gli oppressi. Così immaginai che lo spirito del signor Reed, tormentato dai torti fatti alla figlia di sua sorella, avrebbe potuto abbandonare la sua dimora, sia la cripta che il mondo sconosciuto dei defunti, e sorgermi dinanzi agli occhi in quella stanza. Asciugai le lagrime e repressi i singhiozzi, per la paura che il minimo segno di dolore violento potesse chiamare a confortarmi una voce soprannaturale, o suscitare dalle tenebre un viso aureolato che mi si accostasse pietoso. Questa idea era confortante in teoria, ma sarebbe stato terribile se si fosse mutata in realtà. Con tutte le mie forze cercavo di respingerla e di dominarmi. Scostai i capelli dagli occhi, levai il capo e tentai di guardare arditamente intorno per la camera buia. In quel momento una luce si rifletté sulla parete. Era, mi chiesi, un raggio di luna penetrato per una fessura della persiana? No; la luna rimaneva immobile, e questo si moveva. Mentre fissavo scivolò fino al soffitto e tremolò sulla mia testa. Con ogni probabilità quel raggio di luce, penso ora, non era che il riverbero di una lanterna portata da qualcuno attraverso la prateria, ma in quel momento con la mente disposta all’orrore, e i nervi scossi, immaginai che quel bagliore oscillante fosse il messaggero di una visione che veniva dall’altro mondo.

    Il mio cuore accelerò i battiti, sentii la testa in fiamme; un suono, che presi per un brusio d’ali, mi riempì le orecchie. Mi pareva d’aver qualcosa vicino. Mi sentii oppressa, soffocata. Non resistetti più. Mi precipitai verso la porta e scossi la serratura con uno sforzo disperato. Si fecero sentire dei passi lungo il corridoio. La chiave girò, ed entrarono Bessie e la signorina Abbot.

    «Si sente male?», disse Bessie.

    «Che fracasso pauroso! Mi ha tutta scossa!», esclamò la signorina Abbot.

    «Lasciatemi uscire, portatemi nella stanza dei bambini!», gridai.

    «Perché? Si è fatta male? Ha visto qualcosa?», domandò di nuovo Bessie.

    «Oh! Ho visto una luce e ho pensato che stesse per giungere uno spirito». Avevo afferrata la mano di Bessie, ed essa non cercava di liberarla.

    «Ha fatto apposta a gridare», affermò la signorina Abbot, con ripugnanza. «E che grido! Se fosse stata in gran pena, la si potrebbe scusare, ma voleva solo farci correr qui; conosco i suoi trucchi».

    «Che cosa succede?», chiese un’altra voce in tono perentorio, e giunse la signora Reed dal corridoio con la cuffia al vento e in un fruscio di seta.

    «Abbot e Bessie, credo di aver dato ordine di lasciare Jane Eyre nella camera rossa, finché non venga io».

    «La signorina Jane gridava così forte…», obiettò Bessie.

    «Lasciatela gridare», fu la sola risposta. «Lascia andare la mano di Bessie, bambina: non credere di uscire fuori di qui con quel mezzo. Detesto l’astuzia, specialmente nei bambini. È mio dovere mostrarti che i tuoi trucchi non l’avranno vinta. Rimarrai qui un’ora di più, e poi ti metterò in libertà, solo a patto che sarai perfettamente sottomessa e tranquilla».

    «Oh, zia! Abbia pietà, mi perdoni! Non posso resistere… mi punisca in un altro modo! Morirò se…».

    «Silenzio! Questa violenza è quasi ripugnante». Senza dubbio questa era la sua opinione. Ai suoi occhi ero un’attrice in erba. Era sincera, giudicandomi un insieme di passioni virulente, di spirito volgare, e di doppiezza pericolosa.

    Bessie e Abbot si erano ritirate. La signora Reed, spazientita dal mio strazio e dai singhiozzi selvaggi, mi spinse bruscamente indietro e mi chiuse a chiave senz’altra parola. La sentii allontanarsi, e subito dopo che se ne fu andata ebbi una specie di crisi, e inconsciamente persi i sensi.

    Capitolo terzo

    Il primo ricordo dopo questo fatto, è quello d’essermi svegliata con l’impressione d’aver provato un incubo spaventoso, e con la visione innanzi agli occhi di un tremendo bagliore rosso attraversato da fitte sbarre nere. Udivo anche delle voci, che parlavano in un tono sordo, come se fossero smorzate da un rumore di vento o di acqua. L’agitazione, l’incertezza, e un senso di terrore che mi dominava, confondevano i miei sensi. Poco dopo mi resi conto che qualcuno mi maneggiava, mi sollevava e mi metteva a sedere, e con una delicatezza a cui non ero abituata. Appoggiai il capo contro un guanciale o un braccio e mi sentii comoda.

    Passarono cinque minuti e la nuvola dello smarrimento si dissolse. Capii benissimo che mi trovavo nel mio letto, e che il bagliore rosso era il fuoco della camera dei bambini. Era notte. Sul tavolino ardeva una candela. Bessie stava ai piedi del letto con una catinella in mano, e un signore, che si chinava su di me, stava seduto a capo del letto.

    Provai un sollievo inesprimibile, una convinzione rassicurante di essere protetta e al sicuro, quando compresi che c’era un estraneo nella camera, un individuo che non apparteneva a Gateshead, e non era parente della signora Reed. Stornai lo sguardo da Bessie (sebbene la sua presenza mi fosse molto meno odiosa di quella di Abbot), e scrutai il signore in viso. Era il signor Lloyd, il farmacista, che la signora Reed faceva chiamare qualche volta, quando erano ammalati i domestici. Per sé e per i figli faceva venire il medico.

    «Ebbene, chi sono?», chiese costui.

    Pronunciai il suo nome, e nello stesso tempo gli tesi la mano. Egli la prese con un sorriso e disse:

    «Andremo ben presto benissimo».

    Poi mi distese di nuovo e, volgendosi a Bessie, la incaricò di prendersi cura perché non fossi disturbata durante la notte. Diede poi qualche altra istruzione, e disse che sarebbe tornato il giorno dopo. Provai dolore a vederlo partire. Mi ero sentita così protetta e appoggiata mentre era seduto accanto a me! Una volta chiusa la porta dietro le sue spalle, la camera si oscurò e perdetti di nuovo il coraggio. Una tristezza inesprimibile mi accasciò.

    «Ha voglia di dormire?», mi chiese Bessie quasi con dolcezza.

    Osai appena rispondere, per la paura che la frase seguente sarebbe stata aspra.

    «Cercherò».

    «Ha sete, o si sente di mangiar qualcosa?»

    «No, grazie, Bessie».

    «Allora io andrò a letto, perché è mezzanotte passata, ma può chiamarmi se avrà bisogno di qualche cosa durante la notte». Che gentilezza straordinaria! Mi arrischiai a fare una domanda.

    «Bessie, che cos’ho? sono ammalata?»

    «S’è ammalata, suppongo, nella camera rossa a furia di piangere, ma presto starà meglio». Bessie andò nella stanza della cameriera ch’era lì accanto. Sentii che diceva:

    «Sarah, vieni a dormire con me nella camera dei bambini. Non vorrei a nessun costo star sola questa notte con quella povera bambina. Potrebbe morire. È ben strano che abbia avuto quella crisi; mi chiedo se ha visto qualche cosa. La signora è stata un po’ troppo dura».

    Sarah ritornò insieme a lei. Si misero a letto tutte e due. Prima di addormentarsi stettero a bisbigliare fra loro per una mezz’ora. Afferrai dei frammenti della loro conversazione, dai quali potei chiaramente capire qual era il principale soggetto discusso.

    «Le è passato qualcuno dinanzi, tutto vestito di bianco, ed è scomparso… e dietro a questo un grosso cane nero… tre colpi violenti alla porta della camera… una luce nel cimitero proprio sopra la sua tomba…», ecc. ecc.

    Finalmente si addormentarono tutte e due. Il fuoco e la candela si spensero. Per me le ore di quella notte trascorsero in una lunga e paurosa veglia: i miei sensi erano tenuti desti da un terrore che solo i bambini conoscono.

    Nessuna malattia grave o lunga seguì questo incidente della camera rossa; soltanto mi scosse i nervi in tal modo che ancor oggi ne risento. Sì, signora Reed, a lei devo dei gravi tormenti psichici. Ma dovrei perdonarle perché non sapeva quel che faceva; e straziandomi il cuore, essa credeva di sradicare le mie cattive tendenze.

    Verso il mezzogiorno del giorno seguente, alzatami e vestita, sedevo, avvolta in uno scialle, accanto al fuoco nella camera dei bambini. Mi sentivo fisicamente debole e abbattuta; ma il mio male peggiore era una tristezza indicibile che mi faceva sgorgare lacrime silenziose. Avevo appena asciugata una goccia salata dalla guancia che un’altra ne seguiva. Eppure sarei dovuta essere felice, perché non c’era presente nessuno dei Reed, erano usciti in carrozza con la madre. Anche la signorina Abbot stava cucendo in un’altra stanza, e Bessie, che si dava da fare, sistemando giocattoli e ordinando cassetti, mi rivolgeva di tanto in tanto una parola benevola. Questa situazione per me, abituata a una vita di repressione continua e di asservimento, sarebbe dovuta essere un paradiso; ma i miei nervi torturati si trovavano ora in tale stato, che non potevano godere né della calma né della gioia.

    Bessie era discesa in cucina, e mi aveva portato una piccola torta. L’aveva posata su un certo bel piatto di porcellana di Cina su cui era dipinto un uccello del paradiso in un nido di vilucchi e boccioli di rosa, che aveva sempre risvegliato in me un senso di ammirazione entusiastica. Avevo spesso chiesto di avere quel piatto in mano per poterlo esaminare più da vicino, ma ero stata sempre giudicata indegna di tale privilegio. Questo prezioso vassoio ora stava sulle mie ginocchia, ed ero cordialmente invitata a mangiare la delicata pasta circolare che vi era sopra. Favore inutile! Come tutti i favori troppo differiti e troppo desiderati, esso giungeva troppo tardi! Non potevo mangiare la piccola torta: e le piume dell’uccello, i colori dei fiori mi sembravano stranamente sbiaditi! Allontanai piatto e torta. Bessie mi chiese se volevo un libro. La parola libro agì come uno stimolo fugace, e la pregai d’andare a prendere nella libreria I viaggi di Gulliver. Avevo sempre letto con passione questo libro. Lo consideravo un racconto di fatti veri, e risvegliava in me una vena di interesse più profondo di quello che provavo per le fiabe. Perché invano avevo cercato gli elfi nelle foglie di digitale e nelle campanule, sotto i funghi e accanto all’edera che rivestiva i vecchi muri, e mi ero alla fine convinta della triste verità che erano partiti dall’Inghilterra per andare in qualche paese selvaggio, dove i boschi erano più antichi e fitti, e la popolazione più scarsa. Poiché Lilliput e Brobdignag, secondo me, esistevano realmente sulla superficie della terra. Non dubitavo, intraprendendo un lungo viaggio, di vedere un giorno di persona i piccoli campi, le case, gli alberi, la popolazione minuscola, le mucche, le pecore, gli uccelli in miniatura del primo regno; e i campi di grano alti come foreste, i cani immensi, i gatti mostruosi, e gli uomini e le donne alti come torri dell’altro. Ma quando questo volume prediletto fu fra le mie mani, quando ne sfogliai le pagine, quando cercai nelle belle immagini il piacere che avevo sempre provato e che tuttora provo, tutto mi parve strano e triste; i giganti erano smunte larve, i pigmei dei diavoletti malevoli e paurosi, Gulliver un povero vagabondo errante per paesi desolati e pericolosi. Chiusi il libro, che non osavo continuare a leggere, e lo posi sul tavolino accanto alla torta intatta.

    Bessie aveva finito di spolverare e di girare per la camera. Si era lavata le mani, aveva aperto un certo cassettino pieno di splendidi pezzi di seta e di raso, e aveva cominciato a cucire una cuffia nuova per la bambola di Georgiana. Frattanto cantava:

    Quando eravamo zingari

    Tanto tempo fa…

    Gliela avevo sentito cantare spesso, e l’avevo ascoltata sempre con gran piacere, perché Bessie aveva una bella voce, o almeno così mi sembrava. Ma in quel momento, nonostante la sua voce fosse ancora dolce, trovavo nel suo canto una tristezza indescrivibile. Qualche volta, tutta occupata nel lavoro, abbassava il tono e strascicava tanto il ritornello Tanto tempo fa da farlo assomigliare alla lugubre cadenza di un inno funebre. Passò a un’altra ballata, e questa veramente melanconica.

    Stanche le membra son, i pie son lassi

    Per il lungo cammin e l’erte vette,

    E paurosa la notte vien sui passi

    di me, povera bimba.

    Chi mi ha cacciata solitaria sino

    Alla landa rocciosa? Aspra è la gente,

    Gli angeli solo veglian sul cammino

    di me, povera bimba.

     Dolce e mite è la brezza, il ciel risplende

    Nella notte serena; e Dio nel cuore,

    Per grazia sua, luce e speranza accende

    in me, povera bimba.

    Anche se mai cadrò da un ponte infranto,

    O se mi sperderò nella palude,

    Dio aprirà pietoso il Seno santo

    a me, povera bimba.

    Un pensier mi dà forza; ed è che priva

    Pur di riparo e di soccorso, il cielo

    Sarà la riposata ultima riva

    a me, povera bimba.

    «Su, signorina Jane, non pianga più», disse Bessie, quando ebbe finito. Essa avrebbe potuto ben dire al fuoco: «Non bruciare», ma come avrebbe potuto indovinare la sofferenza morbosa da cui ero dominata? Durante la mattinata ritornò il signor Lloyd.

    «Come, già in piedi!», esclamò, entrando nella camera. «Bene, bambinaia, come sta?». Bessie rispose che andavo benissimo.

    «Ma allora dovrebbe aver l’aria più allegra. Venga qui, signorina Jane; si chiama Jane, nevvero?»

    «Sì, signore, Jane Eyre».

    «Ma ha pianto, signorina Jane Eyre; può dirmi perché? Le duole in qualche parte?»

    «No, signore».

    «Oh! Forse piange perché non è potuta uscire in carrozza con la signora», intervenne Bessie.

    «Certamente no! È troppo grande per queste bambinaggini». Anch’io pensavo così; e siccome sentivo l’amor proprio ferito da un’accusa falsa, subito risposi:

    «Non ho mai pianto per una cosa simile in vita mia. Odio l’andare in carrozza. Piango perché sono infelice».

    «Oh, via, signorina!», disse Bessie.

    Il buon farmacista parve un po’ imbarazzato. Io stavo in piedi dinanzi a lui; aveva gli occhi piccoli e grigi, non molto brillanti. Aveva un viso dai tratti duri, ma dall’espressione buona. Dopo avermi osservato per qualche minuto, disse:

    «Che cosa l’ha fatta ammalare ieri?»

    «È caduta», disse Bessie, interrompendo di nuovo.

    «Caduta! Come, è ritornata una bambina piccola! Non può camminare da sola alla sua età? Deve avere otto o nove anni».

    «Fui gettata per terra», mi affrettai a spiegare, punta un’altra volta nell’orgoglio; «ma non è stato questo che mi ha fatto ammalare», aggiunsi, mentre il signor Lloyd prendeva una presa di tabacco.

    Mentre rimetteva la scatola nella tasca del panciotto, suonò il campanello per il pranzo della servitù; egli comprese:

    «Questo è per lei, bambinaia», disse. «Può scendere. Io rimarrò a conversare con la signorina Jane fino al suo ritorno». Bessie avrebbe preferito rimanere, ma fu costretta ad andare, perché a Gateshead la puntualità ai pasti era rigidamente osservata.

    «Se non l’ha fatta ammalare la caduta, che cosa allora l’ha fatta ammalare?», continuò il signor Lloyd, quando Bessie fu uscita.

    «Fui chiusa in una camera, dove c’è uno spirito, fino a quando fu buio». Vidi il signor Lloyd sorridere e accigliarsi nello stesso tempo.

    «Uno spirito! In fin dei conti è una bambina! E ha paura degli spiriti?»

    «Ho paura dello spirito del signor Reed. Egli morì in quella camera, e di là lo portarono via. Né Bessie né alcun altro ci entra di notte, se può farne a meno. È stato crudele rinchiudermi da sola senza candela, così crudele che credo non lo dimenticherò mai!».

    «Sciocchezze! Ed è questo che la fa sentire infelice? Ora, di giorno, sente paura?»

    «No: ma fra non molto ritornerà la notte; e poi sono infelice, molto infelice per altre cose».

    «Quali altre cose? Può dirmene qualcuna?». Come desideravo di rispondere pienamente a questa domanda! Ma com’era difficile dare una risposta! I bambini possono sentire, ma non possono analizzare i loro sentimenti, e anche se l’analisi avviene in parte nel pensiero, non sanno come esprimere in parole il risultato del processo mentale. Temendo, tuttavia, di perdere questa prima e unica occasione di addolcire la mia pena condividendola con qualcuno, mi sforzai, dopo un breve turbamento, a pronunciare una frase insignificante, ma comunque vera.

    «Una è, che non ho né padre né madre, né fratelli né sorelle».

    «Ha una buona zia e dei buoni cugini». Tacqui di nuovo; poi, come mi veniva, dissi:

    «Ma John Reed mi ha spinto per terra, e la zia mi ha chiusa nella camera rossa».

    Per una seconda volta il signor Lloyd estrasse la scatola del tabacco.

    «Non crede che Gateshead Hall sia una casa bellissima?», chiese. «Non si sente contenta di vivere in un bel posto come questo?»

    «Non è la mia casa, signore, e Abbot dice che ho meno diritto di una serva di starci».

    «Bah! Non sarà così sciocca da desiderare di abbandonare un posto così splendido!».

    «Se avessi qualche altro posto dove andare, sarei contenta di lasciarlo; ma non potrò andar via da Gateshead finché non sarò una donna».

    «Forse lo potrebbe… chissà? Ha altri parenti oltre la signora Reed?»

    «Credo di no, signore».

    «Nessuno dalla parte di suo padre?»

    «Non lo so; lo chiesi alla zia Reed una volta, ed essa mi rispose che forse avevo dei parenti poveri e di bassa condizione di nome Eyre, ma che lei non sapeva nulla di loro».

    «Se sapesse che ci sono, le piacerebbe andare con loro?». Riflettei. La povertà spaventa gli adulti, ancor più i bambini. Essi non possono avere un’idea della povertà attiva e rispettabile di chi lavora; uniscono a quella parola solo vestiti cenciosi, poco cibo, fornelli senza fuoco, maniere grossolane e vizi degradanti. Per me povertà era sinonimo di degradazione.

    «Non mi piacerebbe star con gente povera», risposi.

    «Neppure se fossero buoni con lei?». Scossi la testa. Non potevo concepire in che modo la gente povera potesse essere buona; e poi imparare a parlare come loro, assumere le loro maniere, essere senza educazione, crescere come una di quelle povere donne che vezzeggiano i loro bambini o lavano i vestiti sulla soglia di casa, come nel villaggio di Gateshead; no, non ero abbastanza eroica per scegliere la libertà rinunciando alla mia casta! «Ma i suoi parenti sono così poveri? Sono operai?»

    «Non saprei. La zia Reed dice che, se ci sono, devono essere una schiera di mendicanti. Non mi piacerebbe andare a mendicare».

    «Le piacerebbe andare a scuola?». Riflettei di nuovo. Sapevo appena che cosa fosse una scuola. Bessie a volte me ne parlava come un posto dove le giovanette sedevano come in prigione, vestivano di nero, e dovevano comportarsi in modo straordinariamente corretto e preciso. John Reed detestava la sua scuola e insultava il maestro. Ma i gusti di John Reed non dirigevano i miei, e se i resoconti di Bessie sulla disciplina della scuola (raccolti dalle giovanette di una famiglia dove aveva vissuto prima di venire a Gateshead) erano alquanto impressionanti, i particolari di quel che facevano nella scuola quelle stesse signorine, invece, mi attraevano. Raccontava mirabilie dei dipinti di paesaggi e di fiori che pitturavano; delle canzoni che cantavano e dei pezzi di musica che suonavano, e dei lavori di ricamo, dei libri francesi che traducevano, tanto che, ascoltandola, mi sentivo tutta fremere di emulazione. Inoltre la scuola sarebbe stato un cambiamento completo che implicava un lungo viaggio, una netta separazione da Gateshead, e il principio di una vita nuova.

    «Veramente mi piacerebbe andare a scuola», fu la conclusione delle mie meditazioni.

    «Bene, bene; chissà che cosa può accadere», disse il signor Lloyd alzandosi. «Questa bambina dovrebbe cambiare aria e ambiente», aggiunse parlando a se stesso. «Non ha i nervi in buono stato». In quel punto ritornò Bessie; contemporaneamente si sentì la ghiaia del viale scricchiolare sotto le ruote della carrozza.

    «È la signora, bambinaia?», chiese il signor Lloyd. «Mi piacerebbe parlarle prima di andar via». Bessie l’invitò ad accomodarsi nella sala da pranzo e lo precedette. Durante il colloquio che seguì fra lui e la signora Reed, date le conseguenze, immagino che il farmacista s’arrischiò a consigliarle di mandarmi a scuola; e senza dubbio la raccomandazione fu accettata con abbastanza prontezza. Infatti una sera Abbot discuteva della cosa con Bessie, mentre tutte e due cucivano nella camera dei bambini, dopo che mi ero messa a letto, ed esse mi credevano addormentata, e Abbot disse che la signora sarebbe stata ben contenta di sbarazzarsi di una bambina noiosa e malaticcia, che aveva sempre l’aria di sorvegliare qualcuno e di complottare. Credo che Abbot mi prendesse per una specie di Guy Fawkes.

    Nella stessa occasione seppi, per la prima volta, dalle informazioni date dalla signorina Abbot a Bessie, che mio padre era stato un povero pastore; che mia madre l’aveva sposato contro la volontà dei suoi che consideravano il matrimonio al di sotto della sua condizione; che mio nonno Reed si infuriò talmente per quella disobbedienza che non le diede un soldo. Seppi anche che un anno dopo che mia madre e mio padre erano sposati, quest’ultimo prese il tifo, visitando i poveri di una grande città industriale dove si trovava la sua parrocchia, e dove si era diffusa l’epidemia, e che mia madre prese la malattia da lui, e che morirono tutti e due a distanza di un mese l’uno dall’altro.

    Bessie, dopo aver sentito il racconto, sospirò e disse:

    «La povera Jane è ben degna di compassione, Abbot».

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