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Gli ultimi sette mesi di Anne Frank
Gli ultimi sette mesi di Anne Frank
Gli ultimi sette mesi di Anne Frank
E-book281 pagine4 ore

Gli ultimi sette mesi di Anne Frank

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Info su questo ebook

Una storia che ha inizio dove il diario drammaticamente si interrompe

Che cosa avvenne ad Anne Frank dopo l’arresto? Questo libro racconta per la prima volta la drammatica conclusione della vita di Anne attraverso le commoventi testimonianze di sette donne ebree, sue compagne di prigionia nei lager nazisti. 
Ognuna di queste donne, tra le quali c’è anche Hannah Pick-Gosiar, la Lies Goosens del Diario, amica d’infanzia di Anne Frank, racconta la sua storia: la vita nei Paesi Bassi prima dell’invasione tedesca, l’arresto, la deportazione, la sopravvivenza nei campi di concentramento di Westerbork, Auschwitz-Birkenau e Bergen-Belsen. Sette storie diverse, che hanno però in comune la tragica esperienza della vita nei lager e l’incontro con una prigioniera che sarebbe diventata più tardi il simbolo stesso dell’Olocausto. Emerge da queste pagine lo straordinario ritratto di una ragazza coraggiosa, la cui storia privata, scritta per rimanere lo sfogo segreto di una coscienza, s’è trasformata in un terribile atto d’accusa contro il fenomeno più agghiacciante del Ventesimo secolo. Le testimonianze di queste donne, dalle quali l’autore ha tratto, oltre al libro, un documentario televisivo, ci raccontano gli ultimi giorni di Anne Frank, svelando una storia che ha inizio dove il diario drammaticamente si interrompe.

«Questa maledetta guerra dovrà pur finire, e allora saremo di nuovo uomini, e non soltanto ebrei.»
Anne Frank

«Una testimonianza preziosa e fondamentale. Gli ultimi mesi di una vita straordinaria troncata da inimmaginabili crudeltà, raccontati attraverso le parole di chi è sopravvissuto per miracolo.» 

«Uno dei migliori libri che abbia mai letto.»

«Un documento straordinario e straziante. Dobbiamo essere profondamente grati a queste donne per aver avuto il coraggio di condividere le loro storie. Grazie.»
Willy Lindwer
cineasta olandese, è nato ad Amsterdam nel 1946. Ha fondato e diretto la Ava Production, una casa di produzione televisiva e cinematografica. È autore di libri e documentari sulla cultura ebraica dell’Europa settentrionale.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ago 2016
ISBN9788854198470
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    Anteprima del libro

    Gli ultimi sette mesi di Anne Frank - Willy Lindwer

    416

    Titolo originale: De Laatste 7 maanden. Vrouwen in het spoor van Anne Frank

    Copyright © Willy Lindwer 1988

    Traduzione dal nederlandese di Franco Paris

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.i.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9847-0

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Willy Lindwer

    Gli ultimi sette mesi di Anne Frank

    La drammatica fine dell’autrice del Diario, raccontata da sette compagne di prigionia, testimoni oculari di ciò che seguì al suo arresto: la vita nei lager e la tragica morte

    Prefazione di Elio Toaff

    Newton Compton editori

    Prefazione

    Gli ultimi sette mesi della vita di Anne Frank si possono ricostruire solo attraverso la testimonianza di chi con lei condivise la vita nel campo di Auschwitz poi in quello di Bergen-Belsen.

    In questo libro ci sono i racconti di donne olandesi sopravvissute miracolosamente all’inferno del Lager che, dopo tanti anni, hanno accettato sia pur di malavoglia di raccontare ciò che avvenne in quel campo e i loro rapporti con le persone con cui dovettero dividere la tragica sorte.

    Nei racconti delle superstiti le figure di Anne Frank, della sorella Margot e della loro mamma compaiono solo fugacemente, ma è dal contesto del racconto stesso che si può capire come i fatti narrati siano stati vissuti non solo da chi li racconta, ma condivisi da tutti i compagni di sventura. C’è nelle parole di queste scampate una certa naturale ritrosia a riferire le atrocità che le ss fecero subire ai prigionieri anche perché dissuase dal pensiero che certo qualcuno avrebbe avanzato dei dubbi sulla veridicità del loro racconto.

    Primo Levi ha descritto con molta efficacia questo stato d’animo diffuso tra i deportati nei campi. Egli, testimone oculare della vita che là si conduceva, si rese conto di come nei prigionieri si fosse radicata l’idea che se si fossero salvati e avessero raccontato la loro terrificante esperienza, nessuno li avrebbe creduti. «Curiosamente — egli ha scritto — questo pensiero (se raccontassimo non saremmo creduti) affiorava in forma di sogno dalla disperazione dei prigionieri. Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari, ma unico nella sostanza, di essere tornati miracolosamente a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi ad una persona cara e di non essere creduti, anzi neppure ascoltati».

    Questo accadeva alle vittime, a coloro che erano stati oggetto di un trattamento incredibile che nulla aveva di umano. Ma anche gli oppressori, soprattutto negli ultimi mesi prima del crollo, ebbero la percezione che era indispensabile cancellare ogni traccia dei loro incredibili misfatti e per questo accelerarono l’annientamento dei prigionieri perché nessun testimone sopravvivesse.

    Basta riflettere per un solo momento all’impegno che i tedeschi misero nel realizzare questo loro programma per capire come anch’essi si rendessero conto dell’enormità del crimine che avevano commesso e si rifugiassero nella speranza che gli eventuali testimoni non sarebbero stati creduti proprio perché raccontavano cose incredibili e non dimostrabili. Per questo tentarono di far sparire le tracce accusatrici, le fosse comuni, bruciando i cadaveri che altri prigionieri avevano dovuto esumare, facendo saltare con la dinamite i forni crematori. Come si vede, sia i persecutori che le loro vittime erano persuasi che nessuno avrebbe mai potuto credere che certe cose fossero effettivamente avvenute nei campi, nei ghetti nei posti di polizia o nelle retrovie del fronte orientale.

    Fortunatamente le cose non andarono come era stato programmato e ancora una volta è risultato vero il detto che il delitto perfetto non esiste.

    I nazisti sono stati indiscutibilmente sul punto di riuscire nel loro intento, ma negli ultimi mesi della guerra, quando gli Alleati li incalzavano da tutti i lati e la sconfitta era ormai certa, la loro organizzazione perse di efficienza e l’ordine di sterminio completo e di distruzione delle prove poté essere eseguito solo in parte.

    Le rovine delle camere a gas e dei forni crematori rimangono come prove inequivocabili e così le rovine del Ghetto di Varsavia, che avrebbero dovuto nascondere per sempre la pagina gloriosa della rivolta dei suoi difensori, hanno invece conservato e fatto venire alla luce quei tragici, meravigliosi diari nei quali si descrivevano gli orrori del Ghetto con ricchezza di particolari e si portavano prove inconfutabili di quanto era avvenuto.

    Ma la verità sui campi di sterminio si è avuta solo dai racconti dei superstiti, dagli scampati ai forni crematori, dai sopravvissuti alle micidiali marce di trasferimento da un campo all’altro. Ho detto la verità sui campi, ma non tutta la verità, perché la testimonianza dei reduci non è affatto precisa e niente affatto completa, perché chi era nei campi non aveva la possibilità di fare un’analisi approfondita di quello che stava accadendo. Chi era arrivato ad Auschwitz o a Birkenau dalla Grecia o dall’Olanda, dall’Italia, dal Nord Africa o dalla Francia, nei vagoni piombati, certamente non si poteva rendere neanche conto di dove lo avessero portato, né se quello fosse il solo campo esistente o se ce ne fossero altri.

    Quella che conosceva bene era solo la sua situazione e quella dei suoi compagni di sventura e sapeva anche che doveva fare tutto quanto poteva, lecito o illecito, per sopravvivere.

    È evidente che la testimonianza di queste persone non può essere esauriente, né circostanziata, né globale, ma solo personale, parziale e incompleta perché esse conoscevano solo ciò che accadeva là dove le avevano portate, ma nulla di più. Per questo io credo che la verità sull’Olocausto ancora non sia completa e non tutto sia venuto alla luce.

    Certamente il passare del tempo non facilita le cose e se è vero che gli eventi storici acquistano una loro prospettiva solo a distanza nel tempo, è però altrettanto vero che col passare degli anni e con la scomparsa conseguente dei testimoni di quel tragico periodo, la verità che non è ancora stata scoperta rischia di non esserlo mai più.

    A questo si deve aggiungere quell’ignobile tentativo neo revisionista, sorto in Francia e passato poi in Germania, che tende a negare ogni specificità del nazismo, asserendo che tutte le dittature in ogni tempo usarono gli stessi mezzi e il genocidio di sei milioni di ebrei non è un fatto eccezionale. E ancora si sostiene che non esistono prove assolute degli stermini e che il famoso gas Zyklon B era usato solo per disinfettare e disinfestare i reclusi.

    E allora ecco qual è il grande valore di questo libro. Alcune donne ebree olandesi scampate ai Lager hanno raccontato la loro storia, a distanza di anni, con distacco, con naturalezza. Non hanno calcato la mano, non si sono lasciate andare a rievocare macabri particolari.

    Hanno semplicemente raccontato, non commentato, non hanno imprecato, né hanno lasciato troppo trasparire quel sentimento che sicuramente celano nel profondo della loro anima. Lenie de Jong-van Naarden ha scritto queste parole che mi hanno profondamente colpito: «Sono contenta che i miei genitori e la famiglia che avevo siano andati subito nelle camere a gas. Era la cosa migliore. Gli è stata risparmiata una grande tortura. Non sapevano affatto ciò che sarebbe successo. È successo immediatamente e quindi si erano liberati di ogni peso».

    Sono parole tragiche dette con una naturalezza sconcertante per evitare che potessero in qualche modo suscitare una qualche emozione.

    Tutte le testimonianze di questo libro hanno una comune caratteristica: quella di raccontare anche le cose più tremende come se fossero normali avvenimenti di un certo ambiente in un determinato tempo.

    Di tanto in tanto compaiono i vari membri della famiglia Frank. Sono come dei flash che illuminano una parte del campo o della baracca per mostrare come quella famiglia che avevamo imparato a conoscere attraverso il diario di Anne sia ormai inserita completamente in una nuova vita irreale che nulla ha più in comune con quella del rifugio segreto del Prinsengracht.

    Il padre, Otto Frank, separato dalla moglie e dalle figlie, sarà l’unico che si salverà. La madre, Edith, rimane ad Auschwitz quando le figlie, gravemente ammalate, partono per il campo di Bergen-Belsen e là viene uccisa nelle camere a gas. Margot muore un giorno prima di Anne, entrambe uccise dal tifo.

    Possibile che tutto questo sia potuto accadere?

    È l’assillante domanda che i reclusi si sono posti. Mentre molti spiriti illuminati dalla fede sono riusciti a trovare in essa una spiegazione e la forza per sopportare, altri invece, agnostici, o che la fede avevano perduto, hanno cercato di vedere, come Ronnie Goldstein-van Cleef se era ancora possibile concepire l’esistenza di un Dio in quell’inferno dove ogni principio e ogni morale venivano regolarmente negati dando così via libera alle più nefande atrocità.

    «Era difficilissimo credere all’esistenza di Dio. Volevamo crederci perché volevamo avere un appiglio, ma d’altra parte non potevo spiegarmi come mai, se un Dio esisteva davvero, permettesse che la vita continuasse in quel modo. Il fatto che bambini e vecchi fossero uccisi resta sempre un problema per me. E poi quella bestialità intorno a me l’esistenza di un Dio che organizzava il tutto o approvava o se ne disinteressava era per me una questione molto spinosa».

    È questo un grave problema che ha coinvolto fra i tanti altri anche Elie Wiesel che nel suo libro La notte ha spiegato come egli, che viveva nella fede profonda e appassionata per il suo Dio, nutrito di studi talmudici e cabbalistici, ad un certo punto, sconvolto dalle atrocità a cui, dodicenne, aveva assistito, così si esprime: «Yom Kippur, il giorno del grande perdono... io non digiunai perché non c’era più nessuna ragione perché digiunassi. Non accettavo più il silenzio di Dio. Inghiottendo la mia gamella di zuppa vedevo in quel gesto un atto di rivolta e di protesta contro di Lui».

    François Mauriac nella prefazione che ha scritto al libro di Wiesel, affrontando questo argomento sconvolgente, così si esprime: «E io che credo che Dio è amore, cosa potevo rispondere al mio giovane interlocutore, i cui occhi azzurri conservavano il riflesso di quella tristezza d’angelo apparsa un giorno sul volto di un bambino impiccato? Cosa gli ho detto?...

    Sion è risorta dai crematori e dai carnai. La nazione ebraica è resuscitata da questi milioni di morti. È per essi che vive di nuovo. Noi non conosciamo il prezzo di una sola goccia di sangue, dì una sola lacrima. Tutto è grazia. Se l’Eterno è l’Eterno l’ultima parola per ciascuno di noi gli appartiene».

    Ed io aggiungo che certamente il sacrificio di quei milioni di morti ha espiato i peccati di un mondo sprofondato nella violenza e nella follia razzista facendo rinascere negli uomini il senso della giustizia, della morale e del divino, avviandoli di nuovo a vedere nel prossimo l’immagine di Dio, da rispettare, da onorare, da amare.

    elio toaff

    Gli ultimi sette mesi di Anne Frank

    Un ringraziamento particolare alle donne che in modo ammirevole hanno fornito la loro collaborazione per la realizzazione del documentario e di questo libro.

    A mia nonna Rivka, assassinata in Polonia dai nazisti.

    Premessa

    Questo libro contiene un resoconto completo dei colloqui sui quali si basa il mio documentario dallo stesso titolo, mandato in onda nel maggio 1988 dalla tros-televisione e nel dicembre 1988 dalla brt.

    Facendo il film mi sono reso conto che vi poteva essere usata solo una parte molto limitata dei colloqui, sebbene ognuna delle interviste contenesse materiale talmente interessante da meritare di essere conservato. Il libro perciò non è diventato soltanto un’integrazione e un completamento del film, ma soprattutto un documento storico durevole, nel quale è tramandato ai posteri l’ammirevole coraggio dimostrato dalle donne coinvolte nell’accettare di raccontare la loro drammatica storia.

    In totale il lavoro ha richiesto più di due anni, molti colloqui preliminari prima di eseguire le registrazioni finali delle interviste, e uno sforzo che ha sottoposto le donne a una enorme pressione psichica ed emotiva; ma la necessità di raccontare comunque la storia ha prevalso alla fine su eventuali conseguenze.

    Anche per questo ritengo importante la pubblicazione integrale delle interviste che fa seguito al film, perché così la motivazione, la ragione che ha spinto alla fine queste donne a raccontare assume maggiore concretezza.

    Il film e il libro forniscono una ricostruzione di un periodo della seconda guerra mondiale narrato da donne che hanno come denominatore comune l’avere avuto contatti con Anne Frank negli ultimi sette mesi della sua vita. Ciascuna racconta la sua storia, che è anche il racconto di Anne Frank.

    Con ognuna delle donne intervistate ho stabilito un legame particolare, che ha portato fiducia e amicizia. È difficile esprimere a parole la mia ammirazione per la enorme forza dimostrata da tutte queste donne.

    Ho imparato a capire meglio il fardello di ognuna di loro e di tutti quelli che sono sopravvissuti a questi orrori dei campi di concentramento nazisti.

    Io stesso, nato nel periodo postbellico ma proveniente da una famiglia ebrea uscita dalla guerra molto malconcia, non ero digiuno di questa materia. Tuttavia questo confronto con i sopravvissuti di Auschwitz mi ha reso chiaro più che mai che cosa ha significato essere privati della libertà ed essere sottoposti agli orrori del campo di sterminio tedesco.

    Di tutti quelli che hanno fornito un contributo alla realizzazione di questo lavoro meritano di essere menzionati, in modo particolare, soprattutto il Dott. A.H. Paape, direttore dell’Istituto Nazionale per la Documentazione Bellica di Amsterdam, e Renée Sanders, giornalista free-lance e collaboratrice a questo progetto. Voglio ringraziare Bob Bremer, direttore dei programmi della tros-televisione, che ha sostenuto il progetto con grande interesse. Ringrazio anche volentieri la signora Elfriede Frank e il Fondo Anne Frank di Basilea per il loro simpatico appoggio.

    Né voglio dimenticare mia moglie Hanna alla quale sono grato in modo particolare per il sostegno, per me molto importante datomi nei momenti opportuni e per aver svolto molto lavoro per il film e per il libro.

    willy lindwer

    Amstelveen, 12 luglio 1988

    Introduzione

    La fama di Anne Frank è cresciuta fino a fare della sua persona un simbolo della seconda guerra mondiale. Il Diario di Anne è stato pubblicato in più di cinquanta paesi e il suo nome è andato ben oltre i confini dei Paesi Bassi, assumendo un significato assoluto per quanto riguarda la seconda guerra mondiale. Molte volte il Diario di Anne, scritto durante il periodo trascorso nell’alloggio segreto tra il 12 giugno 1942 e il primo agosto 1944, è stato portato sulle scene, mandato in onda come dramma televisivo o rappresentato come film per il cinema.

    Lo stesso alloggio segreto è stato trasformato, dopo la guerra, in museo e richiama da molti anni ad Amsterdam centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo.

    Era inevitabile che quello che era diventato un simbolo assumesse un’aureola romantica presso un vasto pubblico, soprattutto tra la generazione del dopoguerra. Le vicende di una ragazza tredicenne durante uno dei più miserabili periodi della nostra storia sono annotate in un diario.

    Martedì primo agosto 1944 Anne scrive la sua ultima lettera nel diario. Il 4 agosto il Sicherheitsdienst¹ fa irruzione nell’«alloggio segreto» situato nel Prinsengracht 263. Tutti i rifugiati clandestini vengono arrestati e condotti via.

    Il racconto personale di Anne si conclude qui.

    L’arresto, la deportazione e lo sterminio costituiscono gli ultimi capitoli del diario non scritto di Anne e con lei dei sei milioni di ebrei suoi compagni di sventura, dei quali più della metà erano donne, ragazzi e bambini. Nascondiglio e alloggio segreto, le lettere del Diario, romanticismo e immagine idealizzata, cedono il posto alla dura e spietata realtà del campo di concentramento tedesco, dove ebbe luogo il più grande genocidio di tutti i tempi. Qui trovarono la morte Anne, sua sorella Margot e sua madre Edith.

    Forse perché se ne sapeva poco (per queste scarse informazioni si veda il libro di Ernst Schnabel: Anne Frank. Spur eines Kindes del 1958, e le introduzioni a De Dagboeken van Anne Frank del 1986 dell’Istituto Nazionale per la Documentazione Bellica), quest’ultima fatale parte della breve vita di Anne ha riscosso poca attenzione in passato.

    Il periodo trascorso nell’alloggio segreto era un tentativo di evitare il campo di concentramento e con questo una morte quasi certa. Non si sa praticamente nulla di questi ultimi sette mesi della vita di Anne e di come soffrì l’amara miseria di Westerbork e Auschwitz-Birkenau, prima di morire infine, poche settimane prima della liberazione, nel Häftlingen-Lager² del campo di concentramento di Bergen-Belsen, di malattia, fame e deperimento.

    Dopo più di quarant’anni soltanto poche persone sono ancora in grado di raccontare qualcosa di questo periodo, e disposte a farlo. Donne sopravvissute, che per molti anni sono state incapaci di parlarne. Per alcune questo vale ancora oggi. Ma man mano che accettano questo passato, sembra esserci in alcune donne un desiderio di raccontarlo, con motivazioni che vanno dalla vittoria su se stesse al «vogliamo raccontarlo per i posteri». Queste donne si rendono conto di far parte degli ultimi testimoni oculari di quel periodo dell’umanità, irreale e inconcepibile.

    Nel film e in questo libro prendono la parola donne che, come Anne, erano a Westerbork, Auschwitz-Birkenau e Bergen-Belsen e ci si fa un’idea di quello che accadeva in quel periodo, durante gli stessi trasferimenti e nelle stesse baracche dove si trovava Anne. Queste donne hanno conosciuto Anne e la sua famiglia, alcune hanno addirittura frequentato Anne prima a scuola, o erano sue buone amiche.

    Il libro, poiché riporta integralmente i colloqui, dà un’idea degli ambienti e del retroterra di ognuna di queste donne, situando così l’intero quadro in un contesto più ampio. Anita Mayer-Roos viene citata soltanto nel copione del film, perché il suo racconto completo è stato già pubblicato in libro.

    Su alcuni dettagli che si riferiscono agli ultimi sette mesi di Anne vi sono racconti diversi e diversi punti di vista. I fatti esatti, storici del resto non sono forse così importanti. È invece molto importante stabilire quello che Anne e queste donne hanno sofferto, dove sono i limiti di ciò che un uomo può sopportare, la terribile paura della morte. Avere sempre la morte vicino, vedere come muoiono gli altri intorno a te, diventare insensibili a ogni sentimento. E soprattutto anche i piccoli dettagli umani che tanta importanza assumono. Nel campo non valeva più alcuna norma. Il Dott. Eli Cohen scrive nella sua tesi per il dottorato di ricerca pubblicata nel 1952: «È una pretesa troppo grande che coloro che non hanno mai vissuto in un campo possano figurarsi cosa fosse in realtà un campo di concentramento».

    Dopo molti mesi di ricerca e diversi colloqui preliminari, e in parte con l’aiuto dell’Istituto Nazionale per la Documentazione Bellica, è stato possibile trovare delle donne disposte a raccontare davanti alla camera da presa ed al microfono le proprie esperienze personali nel campo di concentramento tedesco. Tutte donne, che, senza eccezioni, hanno conosciuto da vicino o incontrato Anne Frank o la famiglia Frank.

    È evidente che queste donne hanno sofferto in prima persona una profonda estrema infelicità, che ognuna ha superato a modo suo; ognuna si è fatta una ragione o ha cercato di farsi una ragione.

    La ferita non si rimargina, e queste donne ne sono il portavoce.

    Ma perché questa nostra indagine? La risposta è molteplice. In primo luogo si dà il caso che noi non sappiamo quasi niente delle vicende di Anne Frank e della sua famiglia da dopo l’arresto fino alla loro morte.

    Poche ricerche approfondite sono state compiute al riguardo, e in alcuni casi le scarse fonti si contraddicono.

    Non è veramente importante sapere se questi colloqui forniranno chiarimenti su tutto. Ciò che è davvero importante è ampliare le conoscenze di un vasto pubblico, per quanto riguarda Anne, estendendole dall’«alloggio segreto» all’amara miseria del campo di concentramento tedesco. Nascondersi nel rifugio era un tentativo di evitare una morte quasi sicura in uno dei campi di concentramento tedeschi.

    I testimoni oculari degli orrori di Auschwitz sono ancora oggi in mezzo a noi, e sono ancora in grado di raccontare per esperienza personale ciò che per molti, in particolare i più giovani, è già diventato storia.

    Continuare a raccontare sembra purtroppo una necessità: fascismo, neonazismo, discriminazione razziale e antisemitismo sono sempre all’ordine del giorno. Persino l’autenticità del diario viene ancora messa in dubbio da qualcuno. Alcune reazioni a proposito del documentario ne sono la testimonianza! È anche per questa ragione che la maggior parte di queste donne ora vuole raccontare la sua storia. Esse vogliono porre il male fatto loro al servizio della lotta all’ingiustizia che viene segnalata quotidianamente nella nostra società. Che siano in particolare delle donne a parlare non è un caso. Oltre alla relazione con Anne Frank, c’è infatti l’ingiustizia arrecata a donne e bambini, che fino ad oggi è stata studiata relativamente poco, ed evidenzia ancora di più che la follia non conosce limiti.

    Si raccontano i sentimenti di donne all’epoca delle privazioni più pesanti, quando l’uomo era stato degradato a bestia, ogni coscienza umana e qualsiasi norma erano state cancellate e regnava uno stato di totale abbrutimento. Che queste donne siano sopravvissute fa gridare al miracolo; Auschwitz e Bergen-Belsen non avevano come scopo la sopravvivenza.

    Queste donne porteranno per tutta la vita sulle proprie spalle l’immenso fardello degli ultimi sette mesi.

    1 Servizio di Sicurezza, in tedesco nel testo (N.d.T.).

    2 Campo di prigionia, in tedesco nel testo (N.d.T.).

    Panorama storico

    Otto Frank prese nel 1933 la decisione di partire con la sua famiglia da Francoforte, dove si trovava una grande comunità ebraica, per Amsterdam. Aveva previsto che l’avvento di Hitler non prometteva molto di positivo per gli ebrei.

    Con i genitori e la sorella Margot, più grande di tre anni, Anne, nata il 12 giugno 1929, venne a vivere ad Amsterdam, nella Merwedeplein al numero 37. Figlia di genitori benestanti, vi trascorse un’infanzia spensierata. Quella

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