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Il codice di Giza
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E-book904 pagine13 ore

Il codice di Giza

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Info su questo ebook

Segreti, enigmi e verità sconvolgenti del sito archeologico più misterioso del mondo

Non esiste al mondo un sito archeologico più straordinario della piana di Giza, a due passi dalla città del Cairo. Qui, da tempo immemorabile, allo stupore dei turisti si sovrappone il fermento di una ricerca assidua e instancabile, condotta da avventurieri e scienziati, mistici e studiosi, ingegneri e archeologi. Un impegno massacrante, anche solo per cercare di avvicinare la radice del mistero che avvolge le piramidi e i loro costruttori. Il codice di Giza, frutto di una serie di ricerche condotte da Ian Lawton e Chris Ogilvie-Herald, cerca di penetrare questo enigma rispondendo a tutti gli interrogativi sorti fino a oggi. Avvalendosi sia delle informazioni esclusive fornite da alcuni dei più celebri ricercatori della valle di Giza, sia delle proprie indagini dirette, gli autori svelano retroscena inediti e sorprendenti, dai profanatori di tombe ai primi esploratori, dalla nascita dell’egittologia alle recenti, strabilianti scoperte. Il loro è l’unico studio che prende in considerazione in modo assolutamente equilibrato e obiettivo tutte le teorie esistenti sulle piramidi: chi le ha costruite, quando, come e perché. Possiamo tranquillamente considerare Il codice di Giza il lavoro definitivo, più dettagliato, approfondito e affascinante sulla vera storia di Giza e sui motivi che hanno spinto molti studiosi a cercare di decifrare i segreti dei più enigmatici monumenti del mondo, che sembrano assistere con indifferente distacco a questa frenetica agitazione, sfidando da millenni l’intelligenza e la fantasia dell’uomo.


Ian Lawton
studioso di civiltà del passato, ha scritto diversi libri sull’argomento tra cui Le antiche civiltà antidiluviane e, con Chris Ogilvie-Herald, Il codice di Giza.


Chris Ogilvie-Herald
è stato direttore della rivista «Quest for Knowledge». Fondatore e responsabile dell’EgyptNews – il sito internet più aggiornato di informazioni sull’Egitto – ha pubblicato numerosi libri tra cui, editi dalla Newton Compton, La cospirazione di Tutankhamen, in collaborazione con Andrew Collins e Il codice di Giza con Ian Lawton.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854155572
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    Anteprima del libro

    Il codice di Giza - Ian Lawton

    PARTE PRIMA

    PROLOGO

    1

    LE PRIME ESPLORAZIONI

    Fra tutti i monumenti del mondo antico, non ve n’è alcuno più misterioso di quelli che costellano la Piana di Giza – una piattaforma rocciosa situata al limitare del deserto libico, lungo la sponda occidentale del Nilo, nei pressi della moderna Cairo. Le tre costruzioni più conosciute – la Grande, la Seconda e la Terza Piramide – dominano il paesaggio per chilometri tutto attorno, quasi come custodite dalla gigantesca Sfinge che sta loro accanto. Gli egittologi fanno risalire la loro costruzione ai sovrani dell’Antico Regno della Quarta Dinastia, Khufu (Cheope per i Greci), Khafre (Chefren) e Menkaure (Micerino) rispettivamente, negli anni 2575-2465 a.C.

    Non c’è immagine fotografica, né filmato, né tanto meno parole che possano rendere appieno la straordinaria maestosità di queste strutture. E se ancora oggi ci strappano una sensazione di meraviglia, possiamo solo vagamente immaginare quale effetto potessero mai esercitare nell’antichità, quando, tra l’altro, erano completamente rivestite con lastre di calcare levigato, così lucente da riflettere la luce del sole per un vasto raggio ed avevano – se non le due minori quasi certamente la Grande Piramide – il vertice sormontato da una cuspide triangolare dorata.

    La Grande Piramide da sola occupa un’area superiore a 50 mila metri quadrati e venne innalzata, con incredibile precisione, perfettamente allineata ai quattro punti cardinali. Contiene oltre 2 milioni di blocchi di calcare e granito dal peso variabile da 2 a 70 tonnellate, per una massa totale di materiale superiore a quello necessario per costruire tutte le cattedrali, le chiese e le cappelle inglesi degli ultimi duemila anni. Si eleva tramite 201 file di blocchi fino a 144 m, vale a dire circa i quattro quinti dell’altezza della Torre Telecom di Londra. Ciò malgrado, il metodo con cui venne realizzata, per movimentare blocchi così pesanti e perfettamente collocati secondo un angolo di inclinazione delle facce di circa 52 gradi, costituisce ancora adesso una vera e propria sfida per ingegneri e architetti.

    Tutto questo, ovviamente, senza dimenticare che anche la Seconda Piramide era alta in origine circa 141 m, vale a dire soltanto 3 m meno della Grande e che, sorgendo su un tratto di piattaforma lievemente più innalzato, appare ancora più imponente agli occhi di chi osserva. L’inclinazione delle facce, leggermente più ripida, vale 53 gradi ed è solo per questo che la superficie alla base risulta di circa il 6% inferiore rispetto a quella occupata dalla sorella più grande. Questa Seconda Piramide, edificio altrettanto stupefacente (almeno per quel che concerne le dimensioni), conserva ancora nell’ultimo quarto superiore alcuni blocchi di rivestimento in calcare lucidato – anche se, ovviamente, il trascorrere del tempo li ha ricoperti di una spessa patina di incrostazioni. Da ultimo, il grandioso spettacolo è completato dalla Terza Piramide, la più piccola, visto che si eleva solo fino ad un’altezza di 64 m, meno della metà di quella delle compagne, con un’area occupata al suolo ridotta in conseguenza. Anch’essa risulta però realizzata in virtù di una grande capacità costruttiva.

    Il fascino e il misterioso influsso esercitato nel tempo dalle piramidi è tale che si contano a centinaia i libri pubblicati sul loro enigma, nel tentativo di dare risposta agli eterni interrogativi: chi le ha costruite, quando, come e perché? Affidarci ciecamente alle risposte canoniche dei testi di Egittologia classica in cui si dice che a tutte queste domande già è stata data una risposta definitiva sarebbe ingenuo. L’evidenza dei fatti che dimostra quanti misteri ancora aleggino in proposito è enorme – anche se, dal verso opposto, dare credito a tutte le fantasie alternative continuamente proposte sarebbe altrettanto sciocco. È per questo, allora, che oggi, al sorgere del nuovo millennio, l’attenzione è più che mai rifocalizzata sulla Piana di Giza – considerato che le pronunciazioni di scienza e religione ortodosse che sostengono di avere una risposta per tutto costituiscono certamente un azzardo da rigettare. Perché, se è vero che queste costruzioni ancora oggi ci inquietano, rimandandoci alla formidabile abilità dei loro costruttori, è assolutamente necessario procedere con la massima cautela – per esempio, mettendo a fuoco un punto della situazione corretto ed equilibrato, portando ordine nel confuso ed agitato pelago di una serie pressoché infinita di ipotesi e speculazioni.

    Per far questo, a nostro avviso, la prima cosa da compiere è risalire alle prime esplorazioni della Piana, alle imprese di quei ricercatori che possiamo definire i Padri Fondatori. Questa eterogenea miscela di accademici, studiosi, scienziati, archeologi, esploratori, cacciatori di fortuna e non di rado eccentrici personaggi ha avuto in tutti per lo meno un elemento in comune: scardinare il segreto della Piana di Giza. Per questo dobbiamo loro moltissimo.

    In questo capitolo vogliamo raggiungere alcuni obiettivi per compensare in qualche modo la trascuratezza con cui la gran parte delle pubblicazioni di massa ha trattato l’argomento. Non si parla, infatti, soltanto delle ricerche svolte attorno alla Grande Piramide, ma su tutta la superficie della Piana. I riferimenti sono, a seconda del caso e della credibilità, ora le notizie esposte nei lavori originali degli stessi pionieri, ora i dati più recenti e accreditati. Così facendo, nel nostro tentativo di assicurare informazioni il più possibile credibili e storicamente accurate, abbiamo ritenuto utile, da una parte di non trascurare nulla, e dall’altra di non dare troppo peso a niente, in una giusta miscela ben equilibrata. Per farcela abbiamo consultato un gran numero di riferimenti e sovente li abbiamo interconnessi e confrontati fra loro.

    Poi, il nostro lungo elenco si è drasticamente ridotto, andando a mirare in modo più puntuale su tre fonti primarie, ciascuna caratterizzata da punti deboli e vincenti. Il lavoro Secrets of the Great Pyramid di Peter Tompkins venne completato nel 1971, dopo circa vent’anni di ricerca, e sebbene sia nato soprattutto come trattato dedicato alle caratteristiche matematiche e geometriche della Grande Piramide, non poco spazio è dedicato alle esplorazioni fino a quel momento compiute (vale a dire a tutto il 1970). Però, non solo si parla esclusivamente della Grande Piramide, trascurando le altre, ma si è evidenziato che molte affermazioni di Tompkins, specie quelle relative alle fonti più antiche, non sono corrette. Allora, ci siamo rivolti all’opera del colonnello Richard Howard Vyse. Costui non solo contribuì di persona al compimento di molte ricerche sulla Piana, documentando il tutto nel libro Operations Carried Out on the Pyramids of Gizeh..., pubblicato in tre volumi nel 1840, ma è senza dubbio l’autore che ci offre la più ampia e autorevole rassegna delle esplorazioni effettuate a Giza, dai tempi antichi in avanti. Da ultimo, abbiamo tenuto in considerazione il libro che più di tutti ci aggiorna sulle ricerche dell’Egittologia ortodossa, ossia la dettagliata e completa opera del dottor Mark Lehner intitolata The Complete Pyramids, edita nel 1997. Abbiamo dunque soprattutto lavorato su questi tre capisaldi. Laddove è stato necessario completare un punto di vista o colmare qualche lacuna, abbiamo consultato fonti diverse citandole in nota; mentre, quando lo ritenevamo opportuno, abbiamo aggiunto le nostre personali osservazioni, commenti e interpretazioni.

    La gran parte delle indicazioni di misura relative alle dimensioni interne delle tre Piramidi di Giza sono tratte dalle accurate segnalazioni di Vyse¹. Per qualche lettore trovare indicazioni di misura espresse in piedi e pollici potrà risultare un po’ complicato, e ne conveniamo; ma in alcuni casi abbiamo deciso di mantenerle per una sorta di giusto rispetto nei confronti dei primi pionieri, soliti adoperare queste unità di misura. Un riferimento approssimato ma utile sta nel ricordare che un piede vale 0.3048 m (circa 30 cm). Inoltre, chi ancora non conoscesse la geografia della Piana di Giza, è opportuno tenga la figura 1 come costante riferimento.

    GLI SCHERZI DEL CALIFFO

    Come ben si conveniva ad un megalomane assalito da un’inestinguibile sete di potere, verso la fine del iv secolo a.C., Alessandro (assai impropriamente soprannominato il Grande) distrusse la maggior parte delle tracce dell’Antica Sapienza che, stando a molti illustri studiosi, era ampiamente diffusa all’interno dei templi e delle grandi biblioteche, qua e là sparse un po’ ovunque nel Mondo Antico. Alessandro venne educato niente meno che da Aristotile, crebbe come uomo colto, e, una volta compiute le sue grandi conquiste, dimostrò di possedere notevoli doti politiche e di governo. Tuttavia, questo ritratto contrasta fortemente con la singolare mania distruttiva che lo portò, sin dall’inizio delle sue imprese, a cancellare dalla faccia della Terra i centri di conoscenza di straordinarie città quali Persepoli ed Heliopolis. Nelle loro biblioteche erano gelosamente custodite le ricerche astronomiche e matematiche dei sacerdoti egizi – probabili discendenti di quelle altre schiere di iniziati che per millenni avevano protetto conoscenze scientifiche ancora più remote – in merito alle quali si è praticamente certi che fossero assai avanzate, se non addirittura paragonabili alle nostre.

    illustrazione

    Fig. 1. Mappa della Piana di Giza.

    Questo tentativo di guadagnare potere tramite la soppressione della conoscenza venne continuato nei secoli successivi da un nutrito gruppo di religiosi ipocriti e uomini politici offuscati dalla brama di dominio. La favolosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, fondata da Tolomeo i proprio nella città dedicata ad Alessandro dopo che questi era morto, venne a sua volta completamente distrutta dall’imperatore romano Teodosio nel 389 d.C. Per fortuna, a seguito della conquista da parte di Mohammed nel 640, la città visse una specie di Rinascimento islamico, con il disperato sforzo di recuperare la sua antica nobiltà letteraria. I testi antichi che ancora erano sopravvissuti alle distruzioni furono oggetto di un’attenta ricerca e tutti tradotti – certo per amor di conoscenza, ma anche per ricavare tutte le indicazioni utili a fini geografici e marittimi, cosa che comunque comportava una grande dimestichezza con altre scienze, come per esempio la Matematica e l’Astronomia. Tanto che, mentre nel resto del mondo imperava l’Evo Buio, fu nel Califfato di Baghdad che si svilupparono i nuovi, grandi centri del sapere.

    Circa un paio di secoli dopo, salì al potere il califfo Abdullah al Mamun. Intellettuale desideroso di conoscere, sempre alla ricerca della verità, in gioventù aveva tradotto il trattato astronomico di Tolomeo dal titolo Almagesto ed ansioso di metterne alla prova i principi teorici, sperimentò a lungo per valutare la circonferenza della Terra, misurando lo spazio corrispondente ad un grado di latitudine tramite osservazioni astronomiche. Tutto questo mentre, poco lontano, gli scolastici, i religiosi d’Occidente, sostenevano che la Terra era piatta, concetto che ostinatamente continuarono a difendere nei secoli successivi.

    Parrebbe però che il mondo arabo di quest’epoca soffrisse della stessa, umanissima, sindrome che flagella oggi la nostra società. Certamente le sue furono civiltà molto avanzate sul piano culturale, eppure una grande parte degli scritti che ci hanno lasciato è infarcita di miti, storielle ed eventi distorti, spacciati come fatti veri. La Piana di Giza costituì uno dei temi di esagerazione favoriti e il brano che segue, tratto dall’opera dello scrittore arabo Abd al Hokm, vissuto qualche tempo dopo il califfo Mamun, è esemplare nel sottolineare l’interesse morboso con cui anche il mondo arabo si era rivolto, sin da quei tempi, ai misteri delle piramidi egiziane. Egli narra che vennero costruite dal re Saurid Ibn Salhouk circa 300 anni prima del Grande Diluvio, dopo che questi aveva sognato la catastrofe imminente, d’altra parte confermatagli dalle visioni dei sacerdoti astronomi²:

    [...] ed egli ordinò che nel frattempo venissero innalzate le Piramidi, e che venisse costruito un grande bacino dove far concorrere le acque del fiume Nilo, che da qui sarebbe confluito nelle terre occidentali e nella terra di Al-Said; e le riempì di talismani, e altri strani oggetti, e di ricchezze e tesori e d’altro ancora. Poi incise in esse tutte le cose che gli erano state rivelate dai sapienti e anche tutta la scienza più profonda [...] La scienza dell’Astrologia e dell’Aritmetica e della Geometria e della Fisica. E tutte egli le conosceva, perché sapeva interpretare i loro segni e il loro linguaggio [...] Allora egli innalzò i tesori della Piramide [la Seconda?] d’Occidente, che riempì di ricchezze, e utensili, e indicazioni fatte di pietre preziose, e strumenti di ferro, e recipienti di terra, e armi che non arrugginiscono mai, e vetri che possono essere piegati senza rompersi [...] Ed egli innalzò anche la Piramide [la Grande?] d’Oriente, con le diverse sfere celesti, e le stelle, e le variegate configurazioni con cui esse si muovono, e i differenti incensi che ad esse sono consacrati e i libri che trattano di queste cose. Ed egli pose anche nella Piramide colorata [la Terza?] racchiusi in scrigni di marmo nero i sacri libri dei sacerdoti, e per ciascun sacerdote un libro, dentro cui stavano i prodigi della sua scienza, e delle sue azioni, e della sua natura, e ciò che era stato fatto nel suo tempo, dall’inizio dei tempi, fino al loro termine [...] I Copti tramandano nei loro testi che dentro di esse è trascritta questa iscrizione [...]: «Io, re Saurid, ho costruito le Piramidi in tale e tale tempo, e le ho condotte a compimento in sei anni. Colui che viene dopo di me e ha il coraggio di dire che è simile a me, ebbene, neppure in seicento anni riuscirà a distruggerle [...]».

    Questo affascinante resoconto è praticamente identico, fatti salvi alcuni dettagli, a quello di Masoudi, redatto nel 950 d.C., analizzato e tradotto da uno dei più insigni esperti del campo, il dottor Sprenger³. La differenza più evidente sta nel tempo impiegato da Saurid per realizzare l’impresa, che secondo Masoudi sarebbe pari a sessanta e non sei anni soltanto, come riferito da Hokm. Tuttavia, il dottor Sprenger suggerisce: «Gli autori arabi narrano da almeno un millennio, con pochissime varianti, le stesse cose a proposito delle Piramidi; e sembra evidente che la loro tradizione altro non faccia che riecheggiare quella egizia, intrisa com’è di storie favolose e fatti strani, certamente non di matrice araba». E poi continua: «Sembra che ciascuno di loro abbia fatto a gara per enumerare quante più cose straordinarie la sua fervida immaginazione poteva suggerirgli».

    A proposito poi dei tanti supposti tesori celati nelle Piramidi, in alcuni dei succitati testi arabi si narra che attorno all’anno 820 d.C. Mamun venne preso dalla smania di violare la Grande Piramide per impossessarsene. Hokm, per esempio, racconta che fu Mamun ad aprire una breccia nella parete della Piramide «Con fuoco e aceto. Ci vollero due fabbri, e appuntirono i ferri e gli attrezzi, con i quali forzarono l’ingresso, e occorse una grande fatica per riuscire ad aprirlo...»⁴.

    Ipotesi confermata, come vedremo in seguito, non solo da Makrizi, che scrive nel XV secolo⁵, ma anche dal notissimo Le Mille e una Notte e da altre fonti arabe. Come risultato, oggi è universalmente accettato, per lo meno senz’altro dalla scuola non ortodossa, che la prima persona a ispezionare le parti alte dell’edifico fu Mamun, anche se si ammette che quelle inferiori fossero già state violate da altri visitatori. Per la verità, esiste più di una ragione per credere che non sia stato così e che l’intero edificio fosse già stato penetrato nell’antichità più remota. Poiché questo è un tasto, diciamo così, dolente, ci torneremo su ancora più avanti. Ad ogni modo, il resoconto che segue è quello classico accettato da Tompkins e altri e, fatta salva la possibile variante in merito al modo in cui venne ottenuto il primo sfondamento, lo si può ragionevolmente ritenere autentico.

    Per realizzare la sua impresa, Mamun radunò un gran numero di architetti, capomastri ed ingegneri, nella speranza, andata vana, di riuscire a rintracciare, sotto lo strato dei blocchi calcarei di copertura, un ingresso nascosto sul fronte della parete nord. Imperterrito, decise allora di scavare un’apertura forzata nei blocchi, immaginando di andare a incrociare qualche passaggio interno. Per l’operazione scelse il centro della facciata settentrionale, all’altezza del settimo filare di blocchi (tav. 1). Per scalzare le lastre di rivestimento calcareo, i suoi operai le scaldarono con il fuoco per poi raffreddarle all’istante, rovesciandoci sopra grandi quantità di aceto, al fine di procurare delle improvvise fratture. Ottenuto questo, avrebbero potuto aprirsi con maggiore facilità un varco nella più morbida roccia calcarea dell’interno.

    Scavarono per circa 30 m, senza imbattersi in nulla. A questo punto però si verificò forse la più straordinaria coincidenza nella storia della Grande Piramide. Uno degli operai avvertì il suono sordo di qualcosa di pesante caduto nel cuore della Piramide, apparentemente non molto lontano, sulla sua sinistra. Raddoppiati gli sforzi, il gruppo di esploratori deviò l’asse di avanzamento dello scavo fino a che, in breve, sfociò in quello che oggi è chiamato Passaggio Discendente, in parte ostruito da un grosso blocco di pietra che staccatosi dal soffitto era precipitato sul pavimento. Risalendo la via appena scoperta (alta poco più di 1,20 m, larga 1 m ed inclinata di 26 gradi), gli uomini di Mamun giunsero all’ingresso originale della Piramide, che si trovava 16,5 m più in su della base piramidale, all’altezza del diciassettesimo corso di blocchi, ma anche spostato di 7 m verso est rispetto alla linea mediana.

    illustrazione

    Fig. 2. Sezione della Grande Piramide, vista ovest.

    Poi, tornati sui loro passi, superato il tunnel da loro scavato, gli operai scesero lungo tutto il Passaggio Discendente, per la più parte scavato nella viva roccia della Piana. Finalmente, dopo quasi 100 m di calata, il passaggio si livellava, mettendosi in piano, per circa 8 m prima di spalancarsi in direzione dell’angolo di nord-est in quella apertura conosciuta oggi con il nome di Camera Sotterranea. Questa misurava 13,8 m lungo l’asse est-ovest e 8 lungo l’asse nord-sud, toccando poco più di 3 m nel punto massimo dell’altezza; presentava un soffitto piuttosto levigato, mentre il pavimento era ruvido e irregolare e veniva a trovarsi 174 m al di sotto del vertice piramidale. In corrispondenza della parete più lontana a quella dove si apriva l’ingresso, occhieggiava l’accesso di un altro passaggio, di circa 2 mq d’apertura, composto da blocchi appena sbozzati che, dopo essersi snodato per 16 m terminava la sua progressione contro la roccia viva.

    Ecco presentarsi il primo enigma della Grande Piramide: poiché lo schema di un passaggio discendente che conduce ad una camera sotterranea sembra essere motivo ricorrente nelle piramidi egiziane, perché dentro vennero trovati solo polvere e detriti? Perché appariva così mal finito? E, ancora: visto che dalla qualità con cui risulta scavato il passaggio nella parete sud c’era motivo di credere che si trattasse di una struttura autentica, che senso avrebbe avuto far partire dalla camera un altro tunnel che non conduceva in alcun posto? Dagli evidenti sbaffi di fumo dovuti alle torce che chiazzavano le pareti, Mamun convenne che la stanza era già stata visitata (probabilmente da gente che ben sapeva dove si trovava l’ingresso originale); ma veniva spontaneo domandarsi se anche quei precedenti visitatori avessero sottratto qualcosa o se pure loro l’avessero trovata così, totalmente spoglia.

    Fatta questa scoperta, Mamun concentrò il proprio interesse sul blocco di pietra la cui caduta nel Passaggio Discendente, quasi a fianco del tunnel scavato dai suoi uomini, aveva impresso una svolta decisiva all’esplorazione. Si trattava di una specie di grande paratia o tappo di granito che dava adito ad un altro passaggio, questa volta ascendente verso il centro della costruzione, un corridoio mai menzionato prima nei tanti racconti. Era forse questa la chiave che avrebbe permesso di accedere alle camere segrete della Piramide?

    I numerosi tentativi di rimuovere il blocco granitico risultarono vani, tanto che per aprirsi la via gli operai furono costretti a scalpellare sul lato ovest nei più malleabili blocchi di calcare. Dopo aver scavato lateralmente lungo altre tre maestose paratie di granito, finalmente gli uomini di Mamun sbucarono nel Passaggio Ascendente, un corridoio in tutto e per tutto simile a quello gemello discendente e con la stessa angolazione di 26 gradi. Dopo 36 m di faticosa salita, il passaggio finalmente si poneva in piano confluendo in un tunnel sufficientemente alto per consentire di stare in piedi. Davanti a loro si estendeva, questa volta, un percorso orizzontale lungo 38 m che terminava su un dislivello di circa mezzo metro, il quale si apriva nell’angolo nord - orientale di un’altra camera, di circa 5 m lungo il lato nord-sud e 6 m lungo quello est-ovest, perfettamente realizzata in blocchi di calcare. Le pareti ben lavorate e pulite (sebbene testimonianze di esploratori successivi parlino di averle rinvenute ricoperte da uno strato di salnitro spesso almeno un centimetro); il pavimento grezzo – tanto da dare l’impressione di non essere finito; il soffitto a due falde, con un’ altezza massima di 6 m all’apice, costituito da lisci blocchi monolitici. La stanza – immediatamente battezzata Camera della Regina perché nella tradizione araba erano le donne ad essere tumulate in tombe dal tetto spiovente – si trovava allineata in modo pressoché perfetto lungo l’asse verticale che passava per il vertice della Piramide. Ma, ancora una volta, anch’essa era completamente vuota. L’unica singolarità consisteva in una particolare nicchia a mensole, ricavata nella parete occidentale, profonda un metro, alta 4,5, con quattro filari di blocchi che partendo da una base di 1,5 m si rastremavano via via fino a poco più 40 cm alla sommità.

    Intuendo di trovarsi davanti ad un altro singolare mistero della Piramide, Mamun decise di proseguire lo scavo nella parete di fondo della nicchia. La speranza era quella di scoprire l’accesso ad un’altra camera, ma dopo circa 12 m di faticosi scavi approdati a nulla l’azione venne interrotta. (Secondo Tompkins il nuovo cunicolo sarebbe progredito soltanto per un metro, ma sono disponibili resoconti del XVIi secolo in cui si conferma che a quel tempo lo scavo era lungo per davvero 12 m. E, dal momento che nell’intervallo di tempo trascorso fra l’operato di Mamun e queste testimonianze non risultano essere stati intrapresi altri lavori di perlustrazione, siamo propensi a credere che questo scavo sia realmente da attribuire a Mamun o, per lo meno, a qualcuno che visse in quello stesso periodo). Ora ci domandiamo: la nicchia conteneva una statua o qualcos’altro che venne trafugato? O gli uomini del Califfo furono i primi a penetrare nella misteriosa stanza da quando, nella notte dei tempi, era stata sigillata? E ancora: se non era destinata a contenere niente, a che cosa doveva servire?

    Usciti dalla Camera della Regina, gli scalpellini ritornarono al Passaggio Ascendente. Ma le sorprese non erano finite. Sollevate le torce verso l’alto, un’altra rivelazione li attendeva: appena sopra ad un gradone verticale posto laddove iniziava il corridoio che conduceva alla Camera della Regina, sembrava dipartirsi un ulteriore passaggio. Si trattava di un corridoio ascendente, inclinato secondo un angolo di 26 gradi, alto 8.5 e lungo 47 m. Anche qui le pareti laterali, realizzate in blocchi perfettamente levigati di calcare prelevati nelle cave di Tura – originariamente di un colore bianco candido e accecante – presentavano un andamento rastremato lungo sette filari di blocchi, passando dai due metri alla base al metro in corrispondenza della parte superiore. Battezzato il passaggio con il nome più che mai appropriato di Grande Galleria, gli uomini di Mamun non poterono fare a meno di stupirsi per la perfezione con cui era stato realizzato. Un altro mistero ancora, dunque – ulteriormente intricato dalla singolare conformazione del pavimento costituito da una corsia centrale, larga un metro, affiancata da ambo i lati da due rampe larghe 50 cm ed alte 60, costellate ad intervalli regolari da fori allineati alle pareti lunghi 30 cm e larghi 15. Perché era stata costruita quella strana Galleria e che significato o funzione potevano avere quei fori?

    All’estremità terminale della Galleria si presentava, rialzato di 90 cm rispetto al piano del pavimento, un grande blocco a scalino, la cui parte superiore costituiva una piattaforma quadrata. Da qui si dipartiva l’imbocco di un altro passaggio orizzontale, questa volta piuttosto breve, che conduceva ad una piccola anticamera realizzata non più in calcare, ma con lastre di granito rosso ben levigato. Lungo le pareti laterali di questa anticamera si notava una serie di quattro scanalature idonee presumibilmente a far scivolare qualche chiusura scorrevole verticalmente. Il percorso lasciava intuire una prosecuzione e allora, dopo un breve tratto, superato carponi per via della ristrettezza del passaggio, gli uomini di Mamun vennero a trovarsi nell’angolo a nord-est di quello che apparentemente poteva considerarsi il fulcro, il punto focale della Grande Piramide – la stanza chiamata Camera del Re, la quale con le sue dimensioni di 10 m lungo l’asse est-ovest, 5 lungo l’asse nord-sud e circa 6 in altezza, risultava essere la più spaziosa fra le stanze fino a quel momento scoperte. E non era tutto: pareti, pavimento e soffitto erano tutti realizzati con lastre di granito rosso ben levigato e lavorato. Questa volta, finalmente, trovarono però qualcosa: vicino alla parete occidentale della Camera c’era un sarcofago, privo di coperchio, ricavato da un unico grande blocco di granito rosso. Quanto l’interno dava segni di essere stato accuratamente lisciato, così l’esterno si presentava rozzo e scabro. Le dimensioni esterne segnalavano: 0,95 m di larghezza, 2,35 di lunghezza per circa un metro di profondità (senza il coperchio).

    Fortemente innervosito dal non essere riuscito a scoprire qualcosa di prezioso, Mamun fece eseguire ancora un piccolo scavo direttamente sotto il sarcofago e fece aprire un discreto foro di sondaggio nel pavimento verso la parete nord vicino al sarcofago, senza però scoprire alcun altro corridoio o stanza. A dire la verità, secondo altri racconti sempre di matrice araba, Mamun avrebbe invece rintracciato qualcosa. Ecco, per esempio, che cosa afferma Hokm⁶: «[...] c’era una brocca di smeraldo verde che conteneva un migliaio di monete pesanti, e ciascuna pesava un’oncia delle nostre. Questo stupì tutti moltissimo, perché non capivano che cosa potesse significare. Allora Al Mamun disse che avrebbe prelevato soltanto la quantità di monete bastevoli a pareggiare la spesa di quella spedizione e, cosa straordinaria, la conta stabilì che esse erano giusto giusto sufficienti alla bisogna, non una di più non una di meno».

    Sta certamente qui il fondamento di un’altra distorsione proposta da Tompkins, secondo cui il Califfo fece segretamente nascondere nella Piramide le monete necessarie a pagare il lavoro degli scalpellini, per evitare la loro rabbia dopo aver tanto lavorato senza trovare nulla, fingendo che una tale fortuna fosse stata inviata dal cielo da Allah. Il racconto di Hokm prosegue: «Essi scoprirono proprio in cima alla Piramide una stanza che custodiva una grande pietra cava: dentro si trovava una statua di pietra simile ad un uomo e ancora dentro un uomo vero, sul cui petto era adagiato un pettorale d’oro tempestato di pietre preziose e una spada di inestimabile valore, mentre sul capo portava un rubino grosso come un uovo, brillante come la luce del giorno, ed egli era dappertutto ricoperto di strani segni dipinti, il cui significato era oscuro a tutti».

    Tuttavia, abbiamo già visto che alcuni dettagli segnalati da Hokm sono a volte un po’ esagerati e per questo è meglio non attribuire grande peso alle sue affermazioni. Proprio questi episodi estremi sono stati raccolti nel tempo dagli indigeni egizi e da altri personaggi fantasiosi o in mala fede e la cosa va avanti ancora adesso – specie a proposito di presunte stanze ancora da scoprire. Ma se per la gente del posto che vive in una condizione di miseria assai accentuata, il tentativo continuo di creare misteriosi intrecci fasulli può essere un buon sistema per raccogliere quattrini; chi arriva in Egitto eccitato dalla speranza di compiere qualche nuova scoperta, non può che provare una gran rabbia nel vedersi circondato da tanta irresponsabile confusione.

    Se dunque il califfo Mamun fu davvero il primo a ritrovare, dal momento della loro sigillatura, le stanze superiori della Piramide e se tutti questi resoconti sono corretti, ebbene, noi, generazioni venute dopo, gli dobbiamo davvero molto. Dopo tutto, se non fosse stato spinto dal desiderio di conoscere l’Antica Sapienza e se la fortuna non gli avesse dato una mano, forse noi saremmo ancora adesso in attesa che le autorità egiziane ci consentano di sondare la struttura della Piramide per andare a scovare quelle stanze che egli ha scoperto un migliaio di anni or sono. Perché, in fin dei conti, chiunque sia stato ad esplorarle per primo, Mamun o altri dopo di lui, è assolutamente certo che in tutto questo lungo lasso di tempo che ci separa dalla sua epoca e malgrado la nostra strepitosa tecnologia, facendo un confronto, ben poco di più siamo riusciti a conoscere su questo grande mistero.

    RACCONTI ARABI

    Per qualcosa come 700 anni, fra il IX e il XVI secolo, gli unici racconti utili per gettare qualche luce sulla Piana di Giza furono quelli di fonte araba. L’atteggiamento più diffuso è sempre stato quello di non ritenerli credibili, ridondanti come sono di fatti strepitosi, tuttavia ci siamo convinti che pur criticando narrazioni come quella di Hokm, non tenerne conto per nulla sarebbe stato un grave errore. Non sono molti, ma alcuni racconti, meno fantastici e dunque certamente più credibili, offrono ottimi spunti di conoscenza. Ci riferiamo ad uno scritto in particolare, History of the Pyramids, di Edrisi, opera quasi del tutto dimenticata dalla letteratura contemporanea, risalente al 1245 d.C.

    Fra le tante avventure, l’autore ricorda – dando l’impressione di un racconto di prima mano – una visita all’interno della Grande Piramide. È molto difficile stare al passo della narrazione, vista l’estrema vaghezza del linguaggio usato; tuttavia, una volta riusciti a identificare le varie strutture descritte con quelle reali, il quadro che ne risulta ben si accorda allo schema interno della Piramide che conosciamo, fatte salve alcune piccole esagerazioni o abbellimenti. Edrisi si rivela così preciso da citare persino gli strani fori ricavati a intervalli regolari lungo le rampe della Grande Galleria⁷.

    Ma, cosa assai più importante, aggiunge almeno tre inedite informazioni mai emerse nel resoconto del califfo Mamun. Primo: «A destra di chi sta salendo, si nota un pozzo collocato fra i due camminamenti [il Passaggio Ascendente e la Grande Galleria] e la porta ora citata [il passaggio orizzontale che porta alla Camera della Regina], ma sotto al secondo passaggio». Osservazione già di per sé sufficiente ad indicare un ben preciso particolare che si è sempre ritenuto fosse stato scoperto soltanto nel XVII secolo, oggi conosciuto come Il Pozzo. Ma torneremo su questa struttura più avanti.

    Secondo. Edrisi riferisce una cosa che, se abbiamo interpretato correttamente le sue parole, non ci risulta compaia in alcuna altra testimonianza, antica o moderna. Egli scrive: «Attraverso questa porta o apertura, si accede ad una camera quadrata in cui si trova un contenitore vuoto». È chiaro che la stanza a cui si fa riferimento è la Camera della Regina. In prima battuta, si potrebbe pensare alla descrizione della nicchia, ma l’ipotesi cade quando arriviamo alla Camera del Re, in merito alla quale precisa: «Anche qui si può vedere un contenitore vuoto, in tutto uguale al precedente ». È indubbio che anche la Camera della Regina conteneva un sarcofago, simile a quello conservato nella Camera del Re. Poiché questa testimonianza appare credibile, se la teniamo per buona nascono un bel po’ di interrogativi: se questo secondo sarcofago esisteva davvero, in che modo può modificare l’interpretazione simbolica attribuita alla Grande Piramide? E, dal momento che non venne mai più citato come in situ in tutti i dettagliati e successivi resoconti del XVI e XVII secolo, che fine ha fatto, chi lo ha rimosso?

    Come se il racconto di Edrisi non ci avesse fornito a sufficienza strabilianti notizie, ecco la terza testimonianza. Sempre riferendosi alla Camera della Regina scrive: «Sul soffitto della stanza compaiono degli scritti vergati con i più antichi caratteri dei sacerdoti pagani». È logico immaginare che si trattasse di qualche tipo di graffito, considerata la totale assenza all’interno di questa come di tutte le altre grandi Piramidi di Giza di qualsivoglia originale iscrizione votiva. E c’è anche da dire che non doveva trattarsi né di arabo o latino, altrimenti Edrisi li avrebbe certamente decifrati. Non resta che pensare ad una scrittura geroglifica risalente all’antichità pre classica. Se il lettore ricorda, Mamun riferisce di aver notato degli sbaffi di fumo delle torce sul soffitto della Camera Sotterranea. Ma se questa nuova analisi è giusta, contribuisce ulteriormente a rafforzare l’ipotesi che fu la parte alta dell’edifico ad essere violata per prima, probabilmente in una remota antichità.

    Non è da escludere, ovviamente, che le nostre interpretazioni siano errate o che Edrisi riporti informazioni sbagliate; ma quando il suo racconto viene confrontato con quello di altri autori, arabi e europei che siano, venuti sia prima che dopo di lui, ci accorgiamo che la sua descrizione possiede tutti i crismi della credibilità, essendo dettagliata, coerente e del tutto priva di esagerazioni fantasiose. Sbarazzarsene con leggerezza sarebbe pertanto un atto improvvido.

    Passiamo ora ad un altro storico arabo di questo periodo, assai più citato di Edrisi. Scrivendo nel 1220 d.C. a proposito di una visita alla Piana di Giza, Abd al Latif descrive con queste parole l’interno della Grande Piramide⁸:

    Mi è stato detto da coloro che hanno avuto il coraggio di ispezionarle che le varie aperture all’interno conducono lungo stretti passaggi, verso pozzi profondi, canali e precipizi. Non è stata scoperta una via che attraversi la costruzione; il passaggio più usato è quello che porta a una stanza posta nella parte alta della Piramide contenente un sarcofago di pietra. L’ingresso tramite il quale si penetra oggi dentro la Piramide non è quello originale, bensì un passaggio forzato realizzato dal califfo Mamun. Molti dei miei compagni sono entrati ed hanno raggiunto la stanza costruita verso la cima della Piramide. Una volta tornati, hanno riferito delle straordinarie cose vedute; hanno raccontato che il passaggio era quasi completamente ostruito da pipistrelli e polvere, che i pipistrelli sono grandi come piccioni, che nella parte elevata ci sono aperture e finestre, che sembrano essere state realizzate per fare entrare luce ed aria. Quando feci nuovamente visita alla Piramide, entrai anch’io con molte altre persone; ma dopo aver compiuto circa due terzi del percorso e temendo di perdere completamente i sensi, me ne tornai indietro mezzo morto.

    Ci sono alcune osservazioni da fare in merito a questo racconto. Primo, la descrizione fatta da Latif non è di prima mano. Secondo, egli ribadisce il comune convincimento che fu proprio Mamun a penetrare forzatamente nella Piramide. Terzo, i suoi compagni riferiscono che i passaggi erano quasi del tutto ingombrati da colonie di pipistrelli e polvere, cosa mai menzionata né prima dal califfo, né dopo da Edrisi, il quale visitò l’interno della Piramide solo qualche decennio dopo. Tuttavia, questo, che è un particolare quasi sempre ricordato dagli esploratori a partire dal XVI secolo in avanti, è un dato che riveste una certa importanza: i pipistrelli, infatti, poterono cominciare a abitare e prolificare all’interno della Piramide solo dopo la sua apertura e solo se fosse rimasta aperta. Come vedremo, essendo questo un argomento su cui torneremo a discutere, la loro presenza o assenza in determinati periodi costituisce un buon indicatore per scoprire quando e come l’edificio venne violato. Quarto, i compagni di Latif riferiscono che nella parte alta esistono aperture e finestre che sembrano essere state realizzate per fare entrare aria e luce. Se, per quelle che sono oggi le nostre conoscenze in merito, il concetto di finestra è fantasioso, c’è però da ricordare, come si vedrà più avanti, l’esistenza dei due canali di ventilazione che uniscono la Camera del Re con l’esterno dell’edificio, che quasi di sicuro all’epoca dovevano risultare completamente ostruiti. Se i compagni di Latif descrissero proprio questi canali di aerazione, dobbiamo allora pensare che fossero aperti per consentire ad aria e luce di penetrare?

    Latif è anche il primo storico che parla della Sfinge in modo diretto. Sebbene quando ebbe modo di osservarla, fosse sepolta fino al collo dalla sabbia del deserto, il nostro cronista riferisce che il suo volto «era coperto da una tinta rossastra, con una vernice così brillante che pareva appena dipinto»⁹. (Infatti già nel i secolo d.C. lo storico latino Plinio aveva scritto che «La faccia del mostro è dipinta di rosso»¹⁰, per quanto sussistano forti dubbi ch’egli l’avesse vista personalmente).

    Tornando a Latif, egli fa specifico riferimento al naso sottile della Sfinge, poi appositamente scalpellato, tra il XIII ed il XIV secolo, nel corso di una celebrazione religiosa di dissacrazione – e non invece danneggiato molto dopo dall’esercito di Napoleone come tutti credono. È interessante osservare che al tempo di Latif la Sfinge veniva già chiamata col suo moderno nome in arabo Abu Hol o Padre del Terrore – mentre quello originario egizio era Hore-makhet che tradotto significa Horus nell’Orizzonte.

    In merito alla parola Sfinge, così come il monumento è conosciuto in Occidente, si tratta di un vocabolo greco, attorno alla cui etimologia sono sorte tante confusioni.

    PROFANAZIONE E DISASTRO

    In una parte del racconto di Latif, che è poi quella più comunemente citata, lo storico arabo dice di aver visto con i proprio occhi al suo posto la copertura di lastre calcaree, incise con geroglifici, che rivestiva la Grande Piramide. Non per nulla, riporta la stessa annotazione a proposto della Seconda Piramide¹¹: «Le pietre erano incise con antichi caratteri di scrittura, ora incomprensibili. Non ho incontrato persona in tutto l’Egitto che abbia anche solo sentito parlare di qualcuno che li sapesse interpretare. Le iscrizioni sono così numerose, che se si dovessero copiare anche soltanto quelle che abbelliscono la superficie delle due Piramidi, occorrerebbe riempire un libro di almeno diecimila pagine».

    Da quello che viene detto prima, risulta chiaro che Latif fa riferimento alle due più maestose Piramidi della Piana di Giza. Purtroppo però, sul principio del XIV secolo, una serie di forti scosse di terremoto piagò l’Egitto settentrionale, distruggendo moltissime costruzioni. Come risultato, gli abitanti delle località vicine incominciarono a prelevare i blocchi di copertura delle Piramidi staccatisi e precipitati al suolo utilizzandoli come materiale per la ricostruzione di El Kaherah, vale a dire quella che sarebbe poi diventata la nuova capitale dell’Egitto, la moderna città del Cairo. In tanta devastazione, l’accumulo dei detriti arrivò fino all’altezza del passaggio d’ingresso forzato da Mamun rendendolo inaccessibile. L’unica consolazione fu la messa in luce dell’accesso originale al Passaggio Discendente sormontato da un grande timpano (tav. 1).

    Pur non potendone essere sicuri, sembra che la Grande Piramide fu la prima fra quelle della Piana di Giza ad essere spogliata del rivestimento. E sebbene questo scempio si sia di certo protratto per un lungo periodo di tempo, ancora in resoconti relativamente a noi vicini, come alcuni del XVII secolo, parrebbe di intendere che il grosso del rivestimento della Seconda e della Terza Piramide fosse all’epoca ancora quasi tutto al suo posto.

    In effetti, questi lavorati e levigati grandi blocchi di completamento ricoprivano tutte le piramidi più importanti, così come molte fra quelle più piccole e le mastabe. Ma un po’ tutte nel tempo subirono depredamenti, non solo i grandi edifici della Piana. L’unica piramide che mostra di essersi quasi come miracolosamente salvata sembra essere la cosiddetta Piramide Romboidale nei pressi di Dashur, la cui costruzione viene attribuita a Snefru, padre di Cheope. Girando attorno a questa mirabolante struttura – che raggiunge dimensioni dell’ordine dell’80% di quelle della Grande Piramide – ci si accorge di come dovevano essere maestose e imponenti le Piramidi di Giza rivestite con i loro blocchi di finitura. Se poi ci si avvicina, l’impressione di grandezza viene ulteriormente amplificata e le facce della costruzione sembrano espandersi in lungo e in largo verso l’infinito (tav. 21). A pensare a come doveva essere la Piana di Giza al momento del suo massimo splendore, la mente non può che trasalire.

    Ma l’immaginazione non cambia la realtà e purtroppo la spoliazione che ha riguardato anche le Grandi Piramidi ci ha impedito di prendere visione di che cosa stava scritto sui grandi blocchi calcarei dei loro rivestimenti – informazioni che forse ci avrebbero aiutato a risolvere un po’ di misteri. Ad ogni buon conto, questa affermazione di Latif è sempre stata considerata come una fantasia e non c’è autore moderno, di qualunque corrente di pensiero, che l’abbia tenuta in conto. Da parte nostra, dobbiamo segnalare, al contrario, che non si tratta affatto di una testimonianza priva di corroborazioni (Appendice I).

    NASCE LA DECODIFICA

    Dopo aver esaminato i lavori privi di una certa attendibilità degli autori ed esploratori finora incontrati – resoconti che hanno sollevato non pochi problemi di interpretazione – è senz’altro confortante incominciare ora a prendere in considerazione l’operato dei pionieri dei tempi moderni, i primi ad applicare un’indubbia metodologia scientifica sia nelle loro esplorazioni che nel modo in cui documentarle. Nel 1638, un inglese di nome John Greaves, professore di Astronomia all’Università di Oxford, visitò la Piana di Giza. Al pari di tanti altri liberi pensatori prima di lui, anche Greaves credeva in ciò che autori come Tolomeo, Pitagora ed altri della scuola classica avevano a più riprese testimoniato, con un grado più o meno elevato di onestà, vale a dire che gran parte del loro sapere si basava su conoscenze più antiche, derivate dall’Egitto e dalla Mesopotamia.

    Stando a Tompkins, Greaves era particolarmente affascinato dagli antichi metodi di misurazione e stava febbrilmente cercando di scoprire con quale sistema nell’antichità erano state valutate le dimensioni della Terra. Qui forse Tompkins dà troppo risalto alla questione. In effetti, nel suo libro Pyramidographia edito nel 1646, Greaves non menziona il problema della determinazione della circonferenza terrestre, ammette però che non è da escludere che gli Egizi abbiano come incapsulato il loro sistema di misura criptandolo nelle dimensioni della Camera del Re e del suo sarcofago, per fissare e trasmettere ai posteri una conoscenza sublime, utilizzata per millenni e che avrebbe dovuto durare per chissà quanti altri¹².

    Tuttavia, Greaves dice chiaramente che, pur convinto che gli antichi Egizi vantassero conoscenze matematiche ed astronomiche straordinarie, non le abbiano riflesse nelle dimensioni esterne della Grande Piramide, aggiungendo che immaginare che la forma costruttiva delle Piramidi sia stato il mezzo «per esprimere i concetti primari della Matematica» o «per rappresentare i misteri dei numeri piramidali», è un po’ come «giocare con la verità, e indulgere un po’ troppo con la fantasia»¹³. A questo punto viene da immaginare che potrebbe non essere del tutto soddisfatto di come invece Tompkins ha frainteso le sue osservazioni.

    Entrando nella Grande Piramide, anche Greaves venne investito dai grandi sciami di pipistrelli già menzionati dai compagni di Latif. Impossibilitato a raggiungere il termine del Passaggio Discendente, totalmente ostruito dai detriti provocati dagli scavi di Mamun, Greaves puntò verso il Passaggio Ascendente per raggiungere la Camera della Regina, dove vide la nicchia ed il tunnel scavato nel suo fondo, ma fu costretto a ritrarsi quasi subito per l’insopportabile fetore che impregnava la stanza. Tornato sui suoi passi, si era diretto alla Camera del Re. Qui, dopo essersi meravigliato per la maestria con cui stanza e sarcofago erano stati realizzati, aveva incominciato a misurare e ad annotare ogni cosa.

    Scoprì che il sarcofago, se battuto, risuonava come una campana e vide il piccolo scavo nel pavimento nei suoi pressi. Notò anche l’esistenza di due piccole aperture di forma quadrata collocate l’una di rimpetto all’altra, ad un’altezza di circa 90 cm dal pavimento, nelle pareti nord e sud della camera, che si addentravano nel corpo dei blocchi calcarei per un paio di metri o forse più – siccome l’apertura posta a sud presentava evidenti tracce nerastre di fuliggine, Greaves dedusse trattarsi di nicchie per depositare delle lampade, senza domandarsi perché fossero davvero servite a questo scopo, ci fosse stato bisogno di prolungarle nel corpo pieno della Piramide. Da alcune sue osservazioni risulta poi evidente che prima di lui la Camera era già stata visitata chissà da quanti, anche se non si chiarisce se prima o dopo Mamun¹⁴: «[...] se queste [le pareti della Camera del Re] non fossero come velate ed oscurate dalla patina di fumo delle torce e delle lampade, apparirebbero splendenti e radiose».

    Tornando nella Grande Galleria, Greaves osservò che alla base della rampa posta sul lato occidentale era stato rimosso un blocco di pietra e intuì doversi trattare dell’apertura che si affacciava sul Pozzo, quella struttura che, come si è visto, era stata citata sia da Edrisi 400 anni prima e forse persino da Plinio, assai prima di lui, quando aveva scritto: «Si dice che all’interno della più grande delle Piramidi esiste un pozzo, profondo 86 cubiti, che mette in comunicazione con il fiume Nilo»¹⁵.

    In aggiunta, per segnalare che egli stesso non si illudeva certo di essere la prima persona a scoprire l’accesso di questo Pozzo – come, al contrario, si tende oggi a far credere – Greaves scrive: «Al termine di esso [il Passaggio Ascendente], sulla destra, ecco il Pozzo menzionato da Plinio: l’imboccatura è circolare e non quadrata come invece la descrivono gli autori arabi»¹⁶. È pero Greaves a darci la prima descrizione del Pozzo. Egli, infatti, riuscì ad infilarsi nell’imboccatura, di poco più di 70 cm di diametro, venendosi a trovare dapprima in uno stretto pozzo, poi in un canale verticale, il quale, dopo alcune morbide curvature, gli consentì di uscire all’interno di una piccola grotta 18 m più in basso. Questa piccola struttura risultava ricavata direttamente nel vivo dello zoccolo costituente la Piana, piattaforma rocciosa che in questo punto presenta come un rialzo di oltre 6 m rispetto al livello esterno, quello su cui si appoggia il perimetro della Piramide. Grazie alla luce di una torcia, Greaves scoprì che il cunicolo continuava ancora verso il basso per una certa lunghezza, ma fu costretto a ritornare indietro a causa dei molti pipistrelli e per l’intollerabile puzzo del loro sterco.

    All’epoca, anche Sir Isaac Newton si stava vivamente interessando alla decodificazione delle unità di misura utilizzate dagli antichi. Sulla scorta delle misurazioni eseguite da Greaves nella Camera del Re, Newton derivò quello che venne detto cubito profano o di Menfi, una misura pari a 51,5 cm, dalla quale, appunto, discendevano le misure della Camera (20 x 10 cubiti). Ritenne, inoltre, che esistesse anche una seconda unità, il cubito reale, da lui valutato pari a 62,5 cm. Contrariamente a ciò che pensava Greaves, ma in accordo con ciò che dice Tompkins, Newton era convinto che le misure esterne della Grande Piramide segnalassero il valore preciso della circonferenza terrestre, un valore a lui utilissimo per completare la sua Teoria della Gravitazione.

    Tra le altre operazioni, Greaves tentò pure di misurare con precisione le dimensioni esterne della Grande Piramide, ma il risultato fu del tutto inaffidabile a causa delle immense montagne di polvere e detriti derivate dalla precipitazione e dallo smantellamento dei blocchi di rivestimento – un problema, questo, che impedì per molto tempo misurazioni accurate – e così Newton non se ne potè servire. Sta di fatto però che proprio in quegli anni furono in molti a calcolare, tramite osservazioni e misurazioni astronomiche, il valore di un grado della circonferenza terrestre, riuscendo a proporre un modello dimensionale abbastanza corretto, tanto da consentire a Newton di trovare piena conferma alla sua Teoria Gravitazionale senza ricorrere alle dimensioni della Piramide (fatto, questo, sovente mal interpretato).

    Le osservazioni di Greaves riguardano anche l’aspetto esteriore della Seconda Piramide: «[...] le pareti [...] sono lisce ed uniformi, l’intero edificio (fatta eccezione per la parte esposta a sud) sembra intatto, privo di fratture o brecce». Inoltre, un attento esame dei disegni ch’egli dedicò alle tre Piramidi, rivela che mentre si nota chiaramente che la Grande Piramide presenta le pareti a gradoni le altre due, la Seconda e la Terza, hanno facciate lisce. Anche se su certi aspetti le indicazioni di Greaves non risultano perfette, riteniamo molto alta la probabilità che nell’epoca in cui egli visse il rivestimento esteriore della Seconda e della Terza Piramide fosse ancora presente, saldamente ancorato alle strutture.

    GLI SCAVI DI DAVISON

    Sebbene nel corso dei successivi 130 anni non venisse attuata alcuna altra importante spedizione o fatta alcuna altra scoperta, il progressivo, costante procedere del metodo scientifico ravvivò l’interesse per i sopralluoghi conoscitivi finalizzati alla mappatura della Piana di Giza. Benoit de Maillet, Claude Sicard, Richard Pococke e Friderik Norden contribuirono tutti, chi più chi meno, a queste imprese – in modo particolare l’ultimo citato, che, nel libro Travels pubblicato nel 1755, fu il primo a mappare i templi funerari e le strade sopraelevate di collegamento rivenuti nella Piana.

    Nel 1765 Nathaniel Davison – che sarebbe poi diventato console generale britannico in Algeria – mentre si trovava in vacanza in Egitto, decise di vistare la Grande Piramide. Contrariamente ai ricercatori che l’avevano preceduto, non ha lasciato precise annotazioni, tuttavia fu il protagonista di alcune importanti scoperte. Superato l’ostacolo dei pipistrelli, Davison, assistito dai suoi aiutanti, decise di proseguire il cunicolo che aveva condotto Greaves alla piccola grotta. Dopo un percorso di circa 30 m dovette però fermarsi, impossibilitato a procedere per l’ostruzione del condotto.

    Seccato, decise allora di scoprire altre strutture ancora inesplorate. Secondo il racconto di Tompkins, sarebbe accaduto che, mentre si trovava all’interno della Grande Galleria, Davison si sarebbe reso conto dell’eco della sua voce proveniente dall’alto. Utilizzando batterie di grosse candele legate ad alti pali, gli fu possibile scorgere sulla parete orientale una piccola apertura larga non più di 60 cm, appena sotto i blocchi che costituivano il soffitto. Grazie ad una serie di scale ad incastro Davison riuscì ad arrampicarsi fin là in cima, sopra l’abisso della Grande Galleria. Qui, quasi penzoloni, si avvide che l’ignota imboccatura era ostruita per almeno metà della sua altezza dal guano dei pipistrelli. Indifferente, decise di forzare il passaggio e si infilò nel cunicolo, lungo il quale ebbe il coraggio di inoltrarsi per oltre 7 m, munito solo di un fazzoletto premuto contro il naso per sopportare il lezzo irresistibile. Il premio al suo ardimento fu sfociare nella parete nord-est di una stanza, troppo bassa per poterci stare in piedi. A causa di un pavimento grezzo e irregolare, l’altezza della camera variava da 60 cm a 1,20 m, mentre per il resto sembrava proporzionata alle dimensioni della Camera del Re che stava subito sotto.

    Malgrado l’abbondante sterco, Davison fu lo stesso in grado di verificare che il pavimento era composto da nove grandi lastroni di granito lavorato, oggi valutati pesanti dalle 25 alle 45 tonnellate l’uno, e si rese conto di stare seduto sull’estradosso del soffitto della sottostante Camera del Re. Cosa ancora più eccitante, osservò che mentre le pareti nord e sud della stanza erano costituite in blocchi di granito, il soffitto della stanza, poi detta Camera di Scarico, consisteva di 8 monoliti ancora più maestosi, pesanti almeno 70 tonnellate l’uno – ciò fatto, viste anche le terribili condizioni, lasciò la stanza non proseguendo oltre nell’esplorazione.

    Questo è quanto per ciò che riguarda Davison, ma ulteriori chiarimenti in merito ci giungono da Lehner quando segnala che almeno altri due esploratori avevano pure tentato di rintracciare questa camera, che descrivono collocata immediatamente sopra la Camera del Re, ma di altezza minore. Si trattava dell’orientalista tedesco Karsten Niebuhr e di un mercante francese chiamato Maynard. Questo suggerirebbe l’idea che quasi certamente circolavano voci che qualche sconosciuto già ce l’aveva fatta a scoprire queste altre strutture, anche se non siamo in grado di sapere quando. Ecco un’altra dimostrazione di come i resoconti delle esplorazioni possano facilmente essere distorti e semplificati. Sta di fatto, comunque, che fu certamente il coraggioso Davison a collocare le scale per arrivare al cunicolo e a lasciare incise le sue iniziali nella camera appena scoperta, che venne appunto battezzata col suo nome.

    Ma c’è un altro aspetto legato a questa stanza che è importante considerare. Anche se il passaggio che la collega è meglio rifinito, per esempio, del Pozzo, risulta comunque evidente che venne ricavato solo dopo la messa in opera dei blocchi. Ed allora: chi lo ha scavato, quando e perché? Ecco una serie di interrogativi sui quali torneremo.

    GLI IMBROGLI DI JOMARD

    C’è ben poco di importante d’aggiungere sull’argomento che stiamo discutendo per quanto accadde nell’ultima parte del XVIII secolo, fatta eccezione per la battaglia che Napoleone combattè contro i Mamelucchi proprio nei pressi della Piana di Giza nel 1798. Come corollario alle sue attività militari, il grande corso raggruppò anche una nutrita squadra di luminari, ciascuno esperto in una diversa disciplina, a cui venne affidato il compito di documentare lo straordinario rigoglio della monumentalità egizia, rivalutata all’onore del mondo grazie all’interessamento francese nei confronti di questo antichissimo luogo di conoscenza. Sebbene il dominio francese venisse velocemente scalzato dagli inglesi, nei soli tre anni di permanenza sul posto, i saggi napoleonici si diedero molto fare e fondarono l’Istituto di Egittologia.

    A proposito della Grande Piramide – per quanto anche i nuovi arrivati dedicassero non poche energie al rilievo geometrico di tutte le sue dimensioni interne – non si ha notizia di alcun ritrovamento importante, se non la conferma che le colonie di pipistrelli si erano ulteriormente accresciute e con essi la quantità dei poco simpatici prodotti delle loro evacuazioni. C’era però fra questi uomini di sapere un certo Edme-François Jomard, il quale, al corrente della teoria che aveva eccitato persino il grande Newton, secondo la quale il valore della circonferenza terrestre sarebbe stato desumibile dalle dimensioni della Grande Piramide, decise di misurare nel modo più accurato e preciso possibile le proporzioni esterne del meraviglioso edificio.

    Consapevole che non gli sarebbe stato possibile valutare con esattezza le giuste proporzioni a causa della massiccia presenza di sabbia e detriti accumulatisi tutto attorno alla base, decise di assoldare una squadra di spalatori turchi per risolvere il problema. Questa iniziativa portò ad un’importante risultato: per la prima volta un bel pezzo della pavimentazione sulla quale era stata innalzata la Grande Piramide venne portato allo scoperto; non da ultimo emersero gli alloggiamenti delle pietre d’angolo del lato settentrionale, sebbene delle stesse pietre si fosse perduta traccia. Ciascun alloggiamento misurava 3 per 3,5 m ed era incavato nella roccia della piattaforma basale per mezzo metro, ciascuno per proprio conto e reciprocamente rispetto all’altro ben livellato. Ma la mole di materiale da rimuovere continuava ad essere un lavoro, oltre che infruttuoso, inutile, rendendo assolutamente poco affidabili le misurazioni. Come conseguenza, i valori rilevati da Jomard si rivelarono di gran lunga insufficienti per contribuire a provare la sua ipotesi delle dimensioni goedetiche della Grande Piramide. Ciò malgrado, il suo lavoro trovò collocazione nella monumentale opera a più volumi che, per ordine di Napoleone, il gruppo di esperti mise a punto al rientro dall’Egitto – ci vollero 25 anni per ultimare la Description de l’Egypte. L’opera di Jomard venne assai contestata dagli studiosi contemporanei, soprattutto da quelli così legati alla classicità da non riuscire ad accettare anche solo l’idea che quei meravigliosi monumenti non fossero stati eretti dai loro amatissimi Greci.

    Ma la fine del XVIII secolo segna una svolta epocale in seno all’Egittologia, quando un archeologo francese portò alla luce una pietra con scrittura trilingue, detta poi Stele di Rosetta, rinvenuta presso il delta del Nilo. Prelevata dagli inglesi come bottino di guerra e collocata nel British Museum, dovettero ancora trascorrere alcuni decenni prima che un giovane studioso francese, Jean François Champollion, considerato da molti il Padre fondatore dell’Egittologia, riuscisse non solo a produrre la prima traduzione dall’antico egizio geroglifico, ma anche a stilare una grammatica di base, avvalendosi dei preziosi riferimenti al greco e al demotico che comparivano sulla stele. Essere riusciti per la prima volta, dopo più di due millenni, a scardinare i segreti degli antichi testi, contribuì in modo assolutamente decisivo ad avvicinare nella comprensione la formidabile cultura superiore dell’antico Egitto.

    L’UOMO CANNONE

    All’inizio del XIX secolo furono invece due italiani a porre il loro marchio nella storia delle ricerche sulla Piana. Il primo si chiamava Giovanni Battista Belzoni, un uomo dalla corporatura prodigiosa, già per questo attrazione al circo di Londra, il quale – per quanto possa sembrare singolare – si dice avvertisse la vocazione di esplorare la Piana di Giza, dopo aver visto miseramente fallire la vendita di una macchina idraulica da lui inventata. Nel 1818 Belzoni fu il primo ricercatore dell’era moderna a penetrare nella Seconda Piramide e tutto ciò che segue è tratto sinteticamente dalla sua opera Narrative in the Operations and Recent Discoveries within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia, pubblicata nel 1822. La sua esplorazione iniziò scavando un passaggio nel punto centrale della facciata nord, laddove era convinto che si trovasse il primitivo accesso all’edificio. È chiaro che a quest’epoca lo strato di blocchi calcarei del rivestimento piramidale era già stato rimosso e la cosa aveva provocato tutto attorno alla base un consistente strato di detriti, superiore in altezza al punto in cui Belzoni aveva stabilito di operare. Dopo aver lavorato per 16 giorni, rimovendo soprattutto pietrisco e macerie, gli operai si imbatterono in un tunnel pressoché orizzontale – anch’esso ostruito da sabbia e pietrisco tanto da non poter procedere se non asportando il materiale. Trascorsi altri quattro giorni di intesa attività, venne finalmente raggiunta un’apertura, al di sopra della loro postazione, che conduceva quasi verticalmente sulla facciata esterna. Belzoni intuì subito che, al di là del fatto che quello raggiunto era il primitivo, originale ingresso della Piramide, i suoi uomini altro non avevano fatto che percorrere un tunnel forzato scavato dopo la costruzione del monumento.

    Incuriosito lo stesso dal verificare dove il passaggio conduceva, ordinò di continuare a rimuovere i detriti che lo intasavano, finché non sfociarono in un altro passaggio ben lavorato, che procedeva per oltre 30 m in orizzontale in direzione del centro dell’edificio. Ma le condizioni di equilibrio precario dei blocchi che costituivano il soffitto, messi di traverso e traballanti, rendevano pericoloso andare avanti. Giunti lo stesso alla fine del camminamento e constatato un parziale crollo della volta, nell’imminente pericolo di essere travolti, gli uomini avevano deciso di non procedere oltre. Aprirono allora un altro passaggio, puntando verso il basso e il cuore della Piramide; ma anche in questo caso, dopo una dozzina di metri l’iniziativa era dovuta rientrare per l’instabilità dei massi e perché sembrava ormai di essere giunti in un punto morto. La bocca di questo accesso forzato è tuttora visibile sulla facciata della Piramide, a destra dell’ingresso originale superiore, mentre poco sopra si può notare l’imboccatura del canale verticale.

    Dopo una giornata di riflessione, Belzoni si rese conto che procedere alla cieca sarebbe stato uno sforzo assurdo. Considerò allora con cura la collocazione dell’ingresso della Prima Grande Piramide, notando come fosse fuori asse verso oriente rispetto al baricentro della facciata. Che si nascondesse proprio lì la risoluzione al suo problema? Tornato alla Seconda Piramide, diede ordine ai suoi lavoranti di riprendere lo scavo, ma questa volta partendo spostati di 12 m rispetto alla linea centrale. Dopo tre giorni eccoli imbattersi in tre grandi lastroni di granito rosso, formanti la cornice dell’apertura originaria superiore d’ingresso, tutti perfettamente disposti secondo il piano d’inclinazione della facciata. Rimossi gli ultimi detriti, comparve un passaggio rivestito di granito che, discendendo con un angolo di 26 gradi, si prolungava per più di 30 m.

    Come abbiamo visto, Belzoni riferisce che questo accesso superiore era ostruito da una gran massa di detriti, che richiesero almeno due giorni di lavoro aggiuntivo per essere rimossi. È evidente che se fosse stato anche bloccato con tappi di roccia calcarea, di certo il lavoro di rimozione si sarebbe protratto per molto più tempo. Possiamo dunque solo concludere che i tappi erano già stati scalpellati nell’antichità o non c’erano mai stati e che la massa di detriti cui fa menzione Belzoni fosse esclusivamente composta dai frammenti dei blocchi della copertura superficiale e da altri residui rocciosi depositatisi nel corso del tempo dentro il passaggio. Anche se, dobbiamo dirlo, l’ipotesi della mancanza delle paratie suona anomala, perché, come vedremo più avanti, il secondo ingresso alla Piramide, quello inferiore originale, quando venne scoperto da Vyse era ancora ben sigillato.

    illustrazione

    Fig.3. Sezione della Seconda Piramide, vista ovest.

    Una volta sbarazzata la via, il nuovo passaggio aveva condotto gli esploratori ad un punto che sembrava morto. Ad un più attento esame della situazione, avevano notato invece che la parete finale era costituita da una pesante paratia di granito, alta 1,80 m, larga 1,50 e spessa più di 40 cm. Era perfettamente infilata in apposite scanalature ricavate nel granito delle pareti e del soffitto, mentre in basso era conficcata per 12 cm nel pavimento.

    Dopo una lotta durissima, con l’aiuto di leve e con grandi sforzi, gli uomini di Belzoni riuscirono a sollevarla di quel tanto sufficiente a farlo

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