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E-book339 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Il sogno di Jason Wilder, di alzare la Coppa Stanley per la seconda occasione, si è infranto in una notte. Un errore ha fatto crollare tutto ciò di cui gli importava, come se si trattasse di tessere del domino. Con un futuro incerto nelle leghe professionistiche di hockey, Jason si è trasformato nell'ombra dell'uomo esuberante che non ha mai conseguito alcun titolo sportivo. Stanco di rivivere la sua tragedia personale, si è rifugiato a Lake Placid, New York, in cerca di tranquillità. Ma la "tranquillità" è l'ultima cosa che troverà, nell'imbattersi faccia a faccia con una persona che lo disprezzerà senza nasconderlo: Ava. Infatti, lei, è l'unica donna che Jason ha provato, senza riuscirci, a dimenticare. 

Nel leggere l'allettante offerta di un annuncio di lavoro, Ava Carpelli non esita a fare domanda di impiego. Ha bisogno di denaro per mantenere suo figlio piccolo, Ben. Quando si presenta al colloquio di lavoro, crede che si tratti di uno scherzo crudele del destino. Il suo primo impulso, quando incontra Jason Wilder, al di là della sontuosa scrivania, è quello di girarsi e andarsene, soltanto il suo buon senso economico le impedisce di farlo. Vedere Jason riaccende vecchi risentimenti che credeva dimenticati, ma Ava ha ben chiaro che la sua priorità è il benessere di Ben. Inoltre, è convinta che non ci sarà nessun ostacolo nel continuare ad odiare Jason con la stessa forza con cui un tempo lo amava. 

In questa partita in cui i giocatori hanno come obiettivo di vincere e abbattere le resistenze dell'altro; chi segnerà il punto sul tabellone? Il gioco è iniziato.

LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2019
ISBN9781393320418
Indomito

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    Anteprima del libro

    Indomito - Kristel Ralston

    KRISTEL RALSTON

    ©Kristel Ralston 2018

    Indomito.

    Tutti i diritti riservati.

    Titolo originale: Reckless (2017).

    I lavori dell’autrice sono protetti dai diritti d’autore, e registrati sulla piattaforma SafeCreative. La pirateria è un reato ed è punibile per legge.

    Traduttore: Elisabetta Savino.

    Editore: Cinzia Novi.

    Immagine di copertina: Karolina García ©Shutterstock.

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, archiviata in un sistema o trasmessa in qualsiasi forma o in qualsiasi mezzo elettronico, meccanico, fotocopia, video o altri mezzi, senza previo ed espresso consenso della proprietaria del copyright.

    Tutti i personaggi e le circostanze di questo romanzo sono fittizi, qualsiasi somiglianza con la realtà è puramente casuale.

    Indice

    ––––––––

    Indice

    PREFAZIONE

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    EPILOGO

    A PROPOSITO DELL’AUTRICE

    PREFAZIONE

    ––––––––

    New York, Stati Uniti.

    Anni prima.

    I bagni in piscina cessarono improvvisamente. La cosa non fece che aumentare il suo imbarazzo. Avrebbe potuto correre, ma Ava non fuggiva mai. Era coraggiosa... O almeno così doveva apparire quando Kelly, il suo incubo personale al liceo, esclamò con una risata: ―Ava ha del sangue che le esce dall’inguine! Che schifo!

    A quel punto, tutti gli sguardi si fissarono su di lei, scrutandola.

    «Dio, che orrore».

    Nonostante i mormorii maliziosi e le risate sprezzanti alle sue spalle, trattenne il desiderio di correre. Era imbarazzata. In effetti, era tale la sua disperazione che desiderava che la terra si aprisse in modo da potersi lanciare nella voragine senza pensarci due volte, pur di nascondersi da una simile umiliazione pubblica.

    Solo a lei poteva arrivare il ciclo, per la prima volta, al termine della lezione di nuoto davanti alle sue compagne di classe. Il piccolo flusso di sangue che aveva iniziato a scorrerle tra le gambe, quando aspettava sul bordo piscina il suo turno per subentrare e gareggiare, lo aveva a malapena sentito. Era tutta bagnata, chi avrebbe potuto accorgersene in tali circostanze? Intanto, se n’era accorta quella strega di Kelly Taylor.

    ―Signorina Carpelli, venga qui!― gridò il professore di educazione fisica.

    Il signor Giles era un incubo con la convinzione di stare allenando la prossima squadra delle olimpiadi. Non gli interessavano malattie, fatica o riluttanza tra gli allievi. Era brutale, e, per questo, Ava detestava fervidamente ciascuna delle sue lezioni. In quel momento, non solo odiava il signor Giles e tutte le sue compagne di classe, ma detestava ancora di più il suo maledetto sistema riproduttivo femminile che annunciava ai quattro venti che era pronta per procreare.

    ―Torni alla lezione!― gridò di nuovo il signor Giles nel vederla allontanarsi. Non poteva accettare che qualcuno abbandonasse una sua lezione. Era pazzo da legare. Ma, ad ogni modo, chi poteva contraddire un veterano di guerra pluridecorato che considerava i suoi allievi alla stregue di soldati dell’esercito americano?

    «Per niente al mondo tornerò in questo circo», disse lei tra sé. Non rispose al professore. Continuò a camminare. L’odore del cloro e i rumori nell’acqua si attenuavano man mano che Ava si allontanava dal cortile coperto.

    «Come potrebbe peggiorare questa giornata?»

    Entrò nello spogliatoio delle ragazze, sbloccò la combinazione del suo armadietto e prese un asciugamano per pulirsi. Poteva rimuovere le tracce di sangue, ma l’immagine di tutta la classe che la osservava con disgusto e scherno non se ne sarebbe mai andata dalla sua mente, per quanto si strofinasse la pelle e utilizzasse mille strati di biancheria.

    Riuscì a trattenere le lacrime di umiliazione che minacciavano di sgorgare dai suoi occhi azzurri. Raccolse le sue cose. Non voleva vedere l’asciugamano macchiato di sangue, ma fu impossibile evitarlo quando dovette piegarlo per riporlo nel borsone.

    Udì l’eco di passi che si avvicinavano. Di fretta, uscì dallo spogliatoio e si incamminò verso la sala della direzione. Aveva bisogno che sua madre venisse a prenderla o altrimenti sarebbe andata via a piedi. L’ultima cosa che le importava era che casa sua si trovasse a un’ora di cammino dalla scuola.

    Tanto per cambiare, qual giorno, aveva dimenticato la borsa in cui di solito conservava i soldi per pagare il trasporto pubblico, ma non voleva passare un minuto di più a scuola, né aspettare lo scuolabus. Le sue scarpe avrebbero potuto resistere al cammino. Camminare per un’ora sarebbe stato meglio che sopportare altro imbarazzo.

    Il sole bruciava sulla pelle. Aveva lasciato a casa la crema solare. La sua pelle bianca e lentigginosa ne avrebbe subito le conseguenze. «Se questo fosse un giorno fortunato», pensò con sarcasmo senza arrestare il passo, nell’intento di ridurre i sessanta minuti di cammino fino a casa a quarantacinque.

    ―Ava! Aspetta, che succede?

    «No, non può essere», disse tra sé, riconoscendo l’inconfondibile voce del ragazzo che riusciva a far perdere ad Ava il filo del discorso e che lei sognava ad occhi aperti in classe. Finse di non sentire. Solo lui ci mancava, per coronare questa giornata. Che il ragazzo che le piaceva, e che era il suo migliore amico, sapesse quello che le era successo.

    Accelerò il passo.

    Jason Wilder era nato con i pattini ai piedi a Toronto, Canada. Il suo paese natio gli aveva fornito piste naturali di ghiaccio, e anche innumerevoli altre opzioni per un bambino curioso e desideroso di sviluppare le abilità nel gioco dell’hockey. Dopo varie visite, i genitori di Jason si erano innamorati degli Stati Uniti. Fu New York la città che divenne casa dei Wilder.

    Ora, a tredici anni, si allenava senza sosta per entrare nella NHL , National Hockey League, prima o poi, e, nel frattempo, il suo obiettivo era di qualificarsi per le leghe minori. Aveva talento, e già diversi agenti lo stavano tenevano d’occhio. Ava, che era un di anno più giovane di lui, non dubitava che Jason fosse in grado di ottenere qualsiasi cosa si proponesse.

    I genitori di lei avevano una caffetteria, in cui Jason lavorava come cameriere per pagarsi la sua attrezzatura da hockey. Da due anni erano diventati amici.

    Due isolati più avanti, lei dovette fermarsi perché il semaforo per i pedoni passò da verde a rosso. Nel frattempo, lui la raggiunse.

    ―Ehi, Ava!― esclamò con un sorriso genuino.

    ―Ciao, Jason...― disse con rassegnazione.

    Lui scoppiò in una risata.

    ―Cammini come se avessi i pattini ai piedi, perché scappi?― Lei cercava di non guardarlo, e, come se lo avesse intuito, Jason le toccò la spalla, per cui ad Ava non restò altro che girarsi. ―Stavi piangendo― disse vedendo gli occhi lucidi.

    ―Non è niente... Una stupidaggine.

    Jason strinse i pugni sui fianchi. Era la sua migliore amica. Poteva raccontarle i suoi sogni senza sentirsi prendere in giro. Parlavano per ore, dopo che lui finiva il turno alla caffetteria dei Carpelli, Taste of Heaven.

    ―Chi ti ha fatto del male?

    Ava sospirò.

    ―Me stessa―. Lui si accigliò, e lei aggiunse: ―Ho avuto un momento di imbarazzo che Kelly Taylor ha messo in risalto con molto successo.

    ―Questo non è un motivo per...

    ―Se fossi una ragazza e ti trovassi in una lezione di nuoto, e all’improvviso avessi il tuo ciclo per la prima volta davanti a tutta la classe, che faresti?― chiese con rabbia, non contro di lui, ma per la situazione in generale. Sapeva che Jason non aveva colpa di quanto era successo. Nessuno ce l’aveva, ma aveva bisogno di sfogarsi.

    Lui si grattò la testa, senza sapere cosa dire. Aveva i capelli leggermente lunghi e ondulati. Era molto alto e i suoi occhi verdi erano sempre gentili. Ava fece cenno di no con la testa e i suoi capelli biondi si scompigliarono un po’. Non era il tipo di persona che si conteneva nel dire ciò che pensava, tranne se – come in questa occasione – la situazione trascendeva completamente il suo controllo, in un modo impensabile.

    ―Mi dispiace...― mormorò lei ―non è colpa tua. Devo tornare a casa. Non posso rimanere a scuola oggi. Cosa ci fai tu qui, ad ogni modo?

    Jason sorrise.

    ―Stavo andando alla biblioteca dell’altro edificio quando ti ho vista volare sul pavimento.― A queste parole, Ava abbozzò un mezzo sorriso. ―Ho deciso di vedere cosa era successo.

    ―Ora lo sai― borbottò.

    Sarebbe dovuta stare zitta e inventarsi qualche altra scusa per il suo amico, quando l’aveva raggiunta per strada. Non è che avesse commesso qualche crimine. Regolò la fibbia dello zaino. Perché ci metteva tanto, la maledetta luce del semaforo per i pedoni? Si domandò imbarazzata.

    ―Non so che dirti― replicò lui guardandola dall’alto in basso, come a cercare in lei qualche improvviso cambiamento profondo. ―Non vedo niente che...

    ―Che?― lo interruppe e incrociò le braccia. ―Non sperare che automaticamente mi cresca il petto come quello delle ragazze che vengono a cercarti in caffetteria.

    Imbarazzato per la brusca risposta, Jason si limitò ad alzare le spalle.

    ―Non volevo... Spero tu stia bene... Suppongo che... Queste sono cose da ragazze e non le capisco... Ti fa male qualcosa?

    La luce del semaforo cambiò, autorizzando il passaggio ai pedoni. In questo caso c’erano soltanto loro. Dopotutto, era solo mezzogiorno.

    ―Ci vediamo in caffetteria a fine giornata― mormorò lei, felice di poter finalmente scappare.

    ―Oggi sono libero― disse, grattandosi la punta del naso. Quello era il solito gesto nervoso di Jason. Il suo amico era molto discreto e lei non voleva oltrepassare i limiti ―perché mio padre ha bisogno del mio aiuto per un paio di cose in tipografia...

    Lei si accigliò.

    ―D’accordo...

    L’espressione spenta di Jason improvvisamente sparì, e immediatamente tornò all’abituale giovialità. Lei non disse niente, perché la sua testa era impegnata a pensare a come diavolo si usava un assorbente per la prima volta. Quale misura doveva comprare? Quanti ne doveva comprare? Le sarebbe piaciuto chiederlo a Jenny, la sua migliore amica, che però, dall’anno prima, frequentava un altro liceo. Non sapeva come contattarla.

    ―Che ne dici di andare al lago e vedere chi riesce a lanciare un sasso più lontano sul pelo dell’acqua?― propose lui, vedendola imbronciata. Non era solito saltare le lezioni, per quanto fossero noiose, perché riteneva la sua pagella molto importante, se voleva far parte dei talenti qualificati per la lega minore di hockey su ghiaccio negli Stati Uniti. Forse, alcune persone credevano che tutti gli atleti avessero il cervello di una moscerino, e lui non voleva essere uno di quelli. ―L’ultima volta ho vinto io.

    Ava si morse il labbro inferiore.

    ―Devo andare in farmacia...― sussurrò, con le guance arrossate.

    Al che, Jason capì.

    ―Oh... Ohhh! Credo sia meglio... ehm, che vada, prima che scoprano che ho abbandonato la scuola...

    Lei sorrise. Ovviamente, Jason non poteva accompagnarla a comprare gli assorbenti. Erano poche le occasioni in cui vedeva il suo amico perdere lo spirito burlone e audace. L’espressione maschile le sembrò divertente, e, inoltre, fu un sollievo per i suoi nervi, che placava quel brutto momento passato poco prima in piscina.

    ―È un problema da donne.

    Lui si limitò a fare spallucce.

    ―Suppongo che ti vedrò in caffetteria, mi aiuterai con i compiti di fisica?

    ―Ho scelta?

    Jason le sorrise, in quel modo che portava le ragazze del liceo a guardarlo estasiate, ma con Ava non funzionava. Almeno non ne era cosciente...o fingeva di non curarsene.

    ―La verità è che non ne hai―. Le fece l’occhiolino. ―Buona fortuna con la tua... ehm― gesticolò con le mani in cerca della parola giusta ―la tua impresa.

    Lei sorrise, prima di riprendere il suo percorso.

    Ava iniziò ad attraversare la strada, ben consapevole che Jason la stava osservando, intento a decifrare in che modo potesse essere cambiata per il solo fatto di avere il ciclo. «Gli uomini, che stupidi!», pensò, mentre considerava seriamente l’idea di sollecitare i grandi scienziati perché si impegnassero a inventare una macchina in grado di accelerare o riavvolgere il tempo.

    ***

    ―Dove sei stato, ragazzo?― domandò Guy Wilder a suo figlio. Erano già le nove di sera. ―Dovevi finire di tagliare lo stampo della matrice per i biglietti da visita del nuovo cliente. Contavo su di te.

    Jason strinse gli occhi per un momento. Aveva appena chiuso la porta di metallo che dava accesso alla casa. Il turno al Taste of Heaven, la caffetteria dei Carpelli, si era prolungato un po’ più del solito, motivo per cui aveva persino dovuto rinviare il suo allenamento di hockey.

    Non gli piaceva mancare alla caffetteria, non solo per il guadagno delle mance, ma anche perché Moira ̶ la madre di Ava ̶ lo faceva sentire parte di una famiglia, anche se questa famiglia era solo un gruppo di lavoro. E anche Dante Carpelli, che era molto severo, non lo aveva mai sminuito o trattato con disprezzo quando gli stava insegnando a servire ai tavoli e Jason si confondeva con gli ordini. A volte era invidioso di Ava.

    ―Papà...

    Guy lo guardò con rabbia e disappunto.

    ―Un solo favore ti ho chiesto, e ha a che fare con la collaborazione per mantenersi in questa casa, eppure non sei stato capace di svolgere un compito così semplice. Sempre così egoista. Credi davvero che la gente un giorno saprà chi sei?― domandò con un tono acido della voce. ―Questa città è talmente grande e con milioni di persone disposte a divorarti per un misero lavoro. E il tuo sogno è la NHL?― scoppiò a ridere. ―Pensavo che le favole delle fate fossero più adatte a tua sorella.

    Non voleva rispondere con insolenza a suo padre. Sapeva bene dove era stato, cosa faceva per aiutare in casa, e sì, aveva dimenticato di andare in tipografia quella sera. Una sola misera volta, e doveva prendersi i rimproveri di suo padre.

    La tensione si respirava nell’aria.

    Più che rimprovero nella voce di Guy, quello che Jason percepiva era delusione. Quell’emozione non riusciva a gestirla molto bene. Detestava il pensiero di deludere suo padre. Sbagliare non era un’opzione, e, a quanto pareva, agli occhi di Guy lui lo faceva continuamente. Niente gli sembrava abbastanza. Nemmeno quando la tipografia era stata sul punto di incendiarsi, ed era stato lui a dare l’allarme, perché suo padre stava facendo una pausa per i suoi eccessi alcolici, nemmeno allora Guy gli aveva riconosciuto quella sua reazione tempestiva.

    ―Mi dispiace, papà. L’ho dimenticato. Non accadrà più.

    Sua madre, Maggie Wilder, era morta di polmonite tre anni prima, e Guy era cambiato dalla sera alla mattina, trasformandosi nell’ombra dell’uomo che Jason un tempo prendeva come esempio. Guy si ubriacava, e una signora distinta lo accompagnava di tanto in tanto durante quelle serate che, meno male, non erano più di una alla settimana. Tuttavia, in queste poche occasioni, Jason si sentiva furioso per come lui offendeva la memoria di sua madre. L’impotenza di fare qualcosa, vedendo la sua vita familiare andare a pezzi, lo consumava giorno dopo giorno.

    Sua sorella maggiore, Indhira, più grande di lui di dieci anni, viveva in California con il suo compagno. Non sopportava di vedere andare in giro una donna diversa a braccetto con suo padre, né tanto meno sopportava come ogni conversazione con Guy si trasformasse in una lista di lamentele. Molte volte, Jason pensava di prendere un treno e di attraversare il paese fino alla California, ma il suo sogno stava a New York, e non aveva intenzione di abbandonarlo.

    Era canadese di nascita, ma considerava gli Stati Uniti il suo paese. Tutti i suoi ricordi appartenevano alla patria di Abramo Lincoln. Sapeva che il Canada era la mecca dell’hockey su ghiaccio, ma lui, che era capace di farsi strada, poteva farcela in qualsiasi posto in cui si praticava quello sport. New York era perfetta per lui, perché comunque distava ―nel caso il suo piano iniziale non avesse dato risultati― meno di due ore di aereo da Toronto.

    ―Lo spero, non posso permettermi il lusso di perdere denaro.

    ―Oggi era un allenamento diverso, papà― rispose con calma, ―esiste la possibilità che al prossimo venga un agente importante con contatti nelle leghe minori e nella NHL. È un amico dell’allenatore locale. E se faccio...

    E se... E se... È quello che dici sempre!― sbottò Guy dando un pugno sul tavolo.

    Jason non batté ciglio. Aveva imparato a non lasciarsi sorprendere.

    ―Mamma mi ha insegnato a non darmi mai per vinto― sussurrò

    In un’occasione, mesi prima, Guy aveva sorpreso Jason con una bastonata. Gli aveva chiesto scusa il giorno seguente, una volta tornato sobrio, ma il rapporto tra i due si era deteriorato. Jason voleva credere che suo padre stesse solo attraversando una fase... Sfortunatamente, questa fase durava già da tre anni, e lui non sapeva cosa fare.

    Jason non solo lavorava alla caffetteria e andava agli allenamenti di hockey, ma aveva anche iniziato a occuparsi dei conti da pagare della tipografia e a coordinare gli ordini nel fine settimana. Addirittura ricorreva al suo discreto introito economico, rinunciando a comprare accessori per giocare meglio, quando suo padre non riusciva a guadagnare in un mese quanto gli serviva per pagare l’ipoteca.

    Avrebbe preferito continuare a giocare all’aperto con i suoi amici. Saziare la sua curiosità in merito al sesso, di cui aveva sentito parlare, e comprenderne il fascino. Niente di questo stava accadendo. Aveva altre priorità, ma iniziava a stancarsi. Frustrarsi. Sentiva di dover fare troppo per i suoi giovani tredici anni.

    Gli era toccato maturare di colpo, alla morte di sua madre, e accettare la partenza di Indhira quasi nello stesso momento. Non contento di questo, il destino si era impegnato a togliere la forza di volontà a Guy, trasformandolo in un uomo che lavorava solo per mantenersi un tetto sopra la testa, e, ogni volta che la malinconia lo invadeva, iniziare ad ascoltare vecchie canzoni, guardare l’album del suo matrimonio, e, nelle notti più difficili, bere per cancellare ogni traccia di coscienza che gli ricordasse la perdita della moglie.

    ―Devi essere realista, Jason― disse Guy facendosi un sorso di whisky. Nel suo tono di voce c’era rassegnazione.

    Jason cercò un indizio della presenza di qualche donna nei dintorni. Non c’era nessun profumo dolciastro ed economico che invadesse la sua casa a due piani. Non quella notte, almeno. Suo padre era solo.

    Questa volta poteva dormire in pace, con la piena consapevolezza di non doversi alzare un’ora prima del solito per pulire il vomito o togliere le bottiglie rotte.

    ―Studio, allenamento, lavoro... Voglio far parte della NHL.

    ―In questo riescono in pochi, ma non ascolti niente di quello che ti dico?― tornò a riempire il bicchiere, una volta bevuto quello che c’era dentro ―Pochi– ripeté, prima di prendere un sorso, perché aveva riempito troppo il bicchiere.

    ―Immagino― mormorò un po’ insicuro, grattandosi la testa.

    ―Fino a quando lavorerai in quella caffetteria? Come si chiama...?

    ―Taste of Heaven― replicò a malincuore.

    Guy scoppiò in una risata al ricordo di quel nome. Lo aveva catalogato tra ridicolo e banale. Jason non era d’accordo. Le ricette di Moira erano squisite, e il signor Carpelli era di origini italiane e molto rispettoso della cucina di sua moglie. La torta di mele era il piatto più richiesto. Il caffè, importato da Verona, andava a ruba. Jason aveva provato tutti i dolci della caffetteria, e poteva affermare che il nome del locale era più che adeguato, non aveva niente di banale né di ridicolo.

    ―Dovresti dedicare più tempo alla tipografia. È il negozio dei Wilder.

    Trattenne una risposta tagliente. I Carpelli lo trattavano con affetto e lo incoraggiavano a non lasciare l’allenamento di hockey, se era quello il suo sogno. Ava era davvero la sua unica amica, perché non lo giudicava mai e sapeva lanciare una pietra sull’acqua, non le importava di sporcarsi né si preoccupava troppo di vestire all’ultima moda.

    ―Questo paga dei conti...― sussurrò Jason ―e anche la mia attrezzatura per l’allenamento. Non ho nessun finanziatore, finché non entro nella lega minore o posso pagare grazie a un buon contratto.

    Guy si alzò. Si avvicinò al ragazzino esile, i cui occhi ed espressione gli ricordavano troppo la sua defunta sposa, Maggie. Posò una mano callosa sulla spalla di suo figlio.

    ―Senti un po’, Jason. Se mai ti capiterà di innamorarti di una ragazza, prendi una decisione intelligente.

    ―Proporle il matrimonio?― domandò.

    ―Lasciarla, se non sei sicuro di farla felice―. Jason lo fulminò con lo sguardo. Guy fece una smorfia. ―L’amore finisce solo per distruggerti. Non illuderti.

    ―Lo dici per la morte di mamma?― domandò con delicatezza.

    ―Lei non è mai stata l’amore della mia vita.

    Si sentì come se lo avessero schiaffeggiato. Suo padre era troppo ubriaco. Stava delirando. Non poteva essere sincero.

    ―Papà, capisco che il giorno in cui mamma è morta... Ma tu non bevi perché vuoi dimenticare il dolore di averla persa?

    Guy scosse la spalla di suo figlio e chiuse la bocca.

    ―No, Jason, bevo perché mi fa dimenticare la colpa di non essere riuscito a salvarla.

    ―Ma non fu colpa tua...

    Che ne sapeva della vita un ragazzino di tredici anni? Eppure, aveva dovuto maturare alla velocità della luce, e ora si scontrava con queste dichiarazioni così crudeli.

    ―Mi sposai con lei perché era incinta di tua sorella, Indhira― lo interruppe. ―Io ero innamorato di un’altra donna, e quando questa seppe che Maggie aspettava un bimbo, mi lasciò... Io non la seguii. Mi sposai perché ritenni che fosse mio dovere.

    ―Mi hai sempre detto che l’onore è la cosa più importante― mormorò con un tono di domanda che gli danzava in testa, ma anche con la sensazione che suo padre stesse tradendo sua madre, con questa confessione.

    ―Ora non ho nessuno― disse Guy, senza far caso al commento.

    ―Ma hai me e Indhira, papà― ferito da quella frase. ―Non siamo sufficienti?

    Guy non rispose e Jason provò impotenza. Si sforzava. Lo faceva ogni giorno, ma a quanto pare non era sufficiente. Suo padre credeva che lui non fosse sufficiente.

    ―Non lo so― disse trascinando le parole, proprio come faceva da tutta la conversazione.

    Si allontanò da suo figlio.

    ―Per questo porti altre donne qui? Per dimenticare mamma?― indagò, stordito e confuso.

    Cercava di comprendere il comportamento di suo padre. Tentava di aiutarlo in tutto ciò che poteva. Sapeva che non avrebbe mai potuto avere indietro le risate, né rivivere i ricordi, che insieme avevano creato prima della morte di sua madre, ma poteva cercare di comprendere suo padre. Cercare di fare qualcosa di buono perché smettesse di lamentarsi. Perché tornasse a sorridere...

    ―No, Jason. Lo faccio per conservare la ragione. Non ho avuto il coraggio di divorziare da lei. Maggie non è stata felice con me, perché ho sempre amato un’altra persona... e lei lo aveva intuito―. Sorrise con rammarico ―e quando dovevo salvarla, non sono riuscito a farlo.

    ―La polmonite non si cura con il denaro, papà.

    Guy chiuse gli occhi per un breve momento. Quando tornò a riaprirli erano pieni di rammarico e cinismo.

    ―L’amore è una menzogna, figlio. Ricordalo anche tu.

    Che esperienza poteva avere Jason dell’amore? Aveva solo molti sogni e molti ormoni che bollivano di curiosità.

    In silenzio, Guy fece cenno di no con la testa. Aveva delle occhiaie molto marcate. Iniziò ̶ vacillando ̶ a salire le scale davanti all’espressione attonita di Jason. Che aveva udito un discorso troppo strano. Troppo oscuro per assimilarlo.

    ―Papà...― chiamò, schiarendosi la gola.

    Guy si girò all’ultimo scalino e guardò indietro, sopra le spalle.

    ―Tutto andrà meglio. Andremo avanti, presterò più attenzione alla tipografia― disse Jason con il suo sorriso migliore. ―Lo prometto. Siamo una squadra, ricordi?

    Non ci fu risposta.

    Il ragazzo rimase a lungo in piedi nella sala. Era deciso a continuare a lottare perché tutto tornasse alla normalità. Suo padre era ubriaco. Tutto qui. Niente di quanto gli aveva detto su sua madre, l’amore o qualsiasi altra cosa quella sera, era vero. Era solo confuso a causa dell’alcol. Tutto qui.

    Tre settimane dopo, ubriacatosi per il senso di colpa, Guy Wilder si suicidò.

    ***

    Quando Ava seppe cosa era successo in casa dei Wilder, senza preoccuparsi del fatto che si sentiva come un gremlin in piena trasformazione, quando gli cadevano gocce d’acqua addosso, corse subito a casa di Jason. Tutta la proprietà era circondata da auto della polizia, un camion dei pompieri, un’ambulanza... Era un caos completo. In totale agitazione, perché aveva preso un taxi e speso tutto quello che aveva risparmiato dalla paga settimanale che le davano i suoi genitori, chiuse la porta dell’automobile e corse a cercare il suo amico.

    Lo trovò, depresso, che parlava con le autorità. Non le permisero di avvicinarsi, se non dopo lungo

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