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Aquile nella tempesta
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E-book461 pagine6 ore

Aquile nella tempesta

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Info su questo ebook

«Ben Kane è l’astro nascente del romanzo storico.»
Wilbur Smith

Un grande romanzo storico
Dall'autore del bestseller Nel nome dell'impero

15 d.C. Arminio, il comandante dei Germani, è stato sconfitto e una delle aquile perdute di Roma è stata finalmente ritrovata. Migliaia di barbari sono stati uccisi. Nonostante questi successi, il centurione Lucio Tullo è tutt’altro che soddisfatto. Non ha nessuna intenzione di fermarsi fino a che anche Arminio non sarà morto, l’antica aquila della sua legione ritrovata e le tribù nemiche completamente annientate. Ma anche Arminio – impetuoso e senza paura – vuole vendetta. Grazie al suo carisma, infatti, sta già radunando un enorme esercito, riunendo le tribù superstiti per dare la caccia in lungo e in largo ai romani che si trovano nelle sue terre. Tullo si troverà presto in un vortice di sangue, tradimenti e pericolo. La sua missione sarà la sfida più pericolosa che abbia mai affrontato.

Bestseller del Sunday Times

L’ultimo capitolo della trilogia delle Aquile di Roma

Combatterà fino alla fine per l’onore di Roma

«Ben Kane è un maestro della storia militare romana. Questo libro è la degna fine di una trilogia potente.»
The Times

«Avvincente e accurato nei dettagli storici e militari, è la conclusione della superba trilogia delle Aquile, che è stata un trionfo dall’inizio alla fine.»
Sunday Express
Ben Kane
È nato in Kenya e si è poi trasferito con la famiglia in Irlanda. Laureato in Veterinaria, è un grande appassionato di storia. È considerato uno dei massimi autori di romanzi storici contemporanei. Tra i suoi più grandi successi La legione dimenticata, I figli di Roma e la serie dedicata al gladiatore Spartacus. La Newton Compton ha già pubblicato Le aquile della guerra e Nel nome dell’impero, i primi libri della trilogia che si conclude con Aquile nella tempesta.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2017
ISBN9788822716026
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    Anteprima del libro

    Aquile nella tempesta - Ben Kane

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Elenco dei Personaggi

    Prologo

    Parte prima

    i

    ii

    iii

    iv

    v

    vi

    vii

    viii

    ix

    x

    xi

    xii

    xiii

    Parte seconda

    xiv

    xv

    xvi

    xvii

    xviii

    xix

    xx

    xxi

    xxii

    xxiii

    xxiv

    xxv

    xxvi

    xxvii

    xxviii

    xxix

    xxx

    xxxi

    Parte terza

    xxxii

    xxxiii

    xxxiv

    xxxv

    xxxvi

    xxxvii

    xxxviii

    xxxix

    xl

    xli

    xlii

    xliii

    Epilogo

    Nota dell’autore

    Glossario

    en

    1798

    Titolo originale: Eagle in the Storm

    Copyright © Ben Kane 2017

    Ben Kane has asserted his right to be identified as the author of this Work in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    First published as Eagles at War in 2017 by Preface Publishing, an imprint of Cornerstone Publishing. Cornerstone Publishing is a part of the Penguin Random House group of companies.

    Traduzione dall'inglese di Francesca Noto

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1602-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Ben Kane

    Aquile nella tempesta

    omino

    Newton Compton editori

    A tutti i giocatori di rugby irlandesi, passati e presenti. Avete dato e continuate a dare tutto per le quattro orgogliose province, e vi amiamo per questo. Il 2016 passerà alla storia come un anno incredibile per il rugby irlandese, grazie alle vittorie sulla Nuova Zelanda, l’Australia e il Sudafrica.

    Questa gloria si tinge anche di tristezza, del resto, per la morte prematura, a quarantadue anni, di Anthony Foley, giocatore dello Shannon, del Munster e dell’Irlanda. Questo romanzo è dedicato anche ad Anthony, un gigante di questo sport che ci è stato portato via troppo presto.

    Elenco dei Personaggi

    (Quelli contrassegnati con * sono storicamente documentati)

    Romani/Alleati

    Lucio Cominio Tullo: centurione veterano, un tempo appartenente alla Diciottesima Legione, ora alla Quinta.

    Marco Crasso Fenestella: optio di Tullo, nonché suo vice. *

    Germanico Giulio Cesare: nipote adottivo di Augusto, nipote di Tiberio e governatore imperiale della Germania e delle Tre Gallie. *

    Lucio Seio Tuberone: nobile romano, ora legato legionario e nemico di Tullo. *

    Marco Pisone: uno dei soldati di Tullo.

    Metilio: un altro dei soldati di Tullo, e amico di Pisone.

    Calvo: un altro dei soldati di Tullo.

    Dulcio e Rufo: altri soldati di Tullo.

    Bassio: primus pilus della Quinta Legione.

    Tiberio Claudio Nerone: imperatore e successore di Augusto. *

    Aulo Cecina Severo: governatore militare della Germania Inferiore. *

    Caio Silio: governatore militare della Germania Superiore. *

    Lucio Apronio: uno dei legati di Germanico. *

    Potizio: uno dei centurioni di Tullo.

    Flavo: fratello di Arminio. *

    Emilio: primus pilus della Prima Legione. *

    Cariovaldo: capotribù dei Batavi e alleato di Roma. *

    Cedicio: prefetto di campo e amico di Tullo. *

    Publio Quintilio Varo: defunto governatore della Germania, indotto con l’inganno a guidare il suo esercito in una terribile imboscata nel 9 d.C. *

    Nerone Claudio Druso: padre di Germanico e generale che gestì lunghe campagne militari in Germania. *

    Gaio: soldato che deve del denaro a Pisone.

    Gneo Elio Gallo: soldato preso prigioniero dai Marsi.

    Arimnesto: chirurgo militare greco.

    Germani/Altri

    Arminio: capo della tribù germanica dei Cherusci, mente dell’imboscata alle legioni di Varo e nemico giurato di Roma. *

    Maelo: fidato vice di Arminio.

    Degmar: appartenente alla tribù dei Marsi ed ex servitore di Tullo.

    Thusnelda: moglie di Arminio. *

    Mallovendo: capotribù dei Marsi. *

    Horsa: capotribù degli Angrivari.

    Inguiomero: zio e alleato di Arminio, nonché capotribù di un’ampia fazione di Cherusci. *

    Gerulf: capotribù degli Usipeti.

    Osbert: uno dei guerrieri di Arminio.

    Gervas: guerriero degli Usipeti che si allea con Arminio.

    Tudro: guerriero dei Dolgubni.

    Segeste: padre di Thusnelda, alleato di Roma e capo di una fazione di Cherusci. *

    Adgandestrio: capotribù dei Catti. *

    Artio: ragazza orfana salvata da Tullo in Le aquile della guerra.

    Sirona: donna gallica che si occupa di Artio.

    Scylax: cane di Artio.

    Prologo

    Autunno, 15 d.C. Vicino al forte romano di Vetera, sulla frontiera germanica

    Un raggio di sole autunnale sbucò da una fessura tra le nuvole ammassate nel cielo, facendo scintillare l’aquila della Quinta Legione. Un segno degli dèi, avrebbero detto in molti. Che lo fosse o meno, quel raggio di luce attirò lo sguardo di tutti sull’aquila dorata e brillante. Il centurione Lucio Cominio Tullo ne fu affascinato. Dimenticò il morso del gelido vento di ponente e restò a fissarla. Appollaiata su due fulmini incrociati, con le ali inghirlandate sollevate dietro di sé e tenuta in alto dall’aquilifer privo di elmo, quell’aquila irradiava potenza. Incarnazione fisica dello spirito della legione e dei sacrifici dei suoi soldati, quel simbolo imponeva rispetto e chiedeva devozione.

    Sono il tuo servitore, pensò Tullo. Ti seguirò sempre.

    Come sempre, l’aquila non rispose.

    Paziente, Tullo si mise in vigile attesa. La risposta arrivò forse una dozzina di battiti più tardi, quando l’aquilifer cambiò posizione. I raggi del sole si rifletterono di nuovo sull’aquila, questa volta accecando Tullo. Sbattendo le palpebre, sorpreso e compiaciuto, il centurione ripeté il giuramento di servire l’aquila fino alla morte. Prima di concludere quel silenzioso voto, si sentì stringere il cuore in una morsa. Per quanto le fosse fedele, l’aquila della Quinta Legione non era quella che sognava, né quella che lo svegliava di soprassalto ogni notte, madido di sudore e con il cuore a martellargli nelle orecchie.

    L’anima di Tullo sarebbe sempre appartenuta all’aquila della Diciottesima, che era stata la sua legione per quindici anni. Era stata distrutta, insieme ad altre due, sei anni prima da Arminio, un capotribù dei Cherusci che un tempo era alleato di Roma. Sebbene Tullo fosse scampato a quel bagno di sangue, e fosse riuscito a salvare un gruppo dei suoi soldati, le cicatrici mentali gli facevano ancora male. Viveva nell’ossessione di vendicarsi su Arminio, ma ancora più forte era il suo desiderio di recuperare l’aquila della Diciottesima. Uno dei tre stendardi andati perduti era stato appena recuperato, e questo non aveva fatto che alimentare le sue speranze.

    Un uomo si schiarì la gola, dietro di lui, riportandolo al presente e alla parata. Alle sue spalle, coorte dopo coorte a destra e a sinistra, c’erano i soldati della Quinta Legione. Ad angolo retto rispetto alla Quinta, a formare il secondo lato del quadrato, c’erano gli uomini della Ventunesima, l’altra legione di Vetera. Il terzo lato del quadrato era composto dagli ausiliari del forte, un misto di esploratori, fanti e cavalieri. Solo le sentinelle, chi era lontano dal forte per delle missioni ufficiali e gli uomini ricoverati nell’ospedale del forte erano stati esclusi dalla parata.

    Tutti erano pronti, in attesa. Non si potevano dire certo entusiasti, considerò Tullo, studiando i volti impassibili dei suoi uomini, ma non sarebbe stato giusto biasimarli per questo. Il freddo, lì fuori, era insopportabile. I mantelli erano stati banditi, perché Germanico voleva che le sue truppe avessero un aspetto impeccabile, con armature e armi scintillanti e bene in vista. Lo scopo di quella parata era celebrare la brutale campagna dell’esercito in Germania, che si era conclusa un mese prima. Oltre a onorare gli ufficiali che si erano distinti per le loro azioni, il governatore Germanico avrebbe riconosciuto l’audacia dei singoli soldati. Tullo non amava molto le cerimonie, ma dopo le pesanti perdite di quell’estate, occasioni del genere erano sempre utili a sollevare il morale degli uomini.

    Un altro gelido soffio di vento gli arrivò addosso, facendogli venire la pelle d’oca su braccia e gambe. L’ultima cosa di cui ho bisogno sono uomini che si ammalano per il freddo, pensò, alzando la voce per dare loro l’ordine di battere i piedi e muoversi sul posto. Fece lo stesso per una buona trentina di battiti, e, dopo essersi guardato intorno alla ricerca di segni dell’arrivo di Germanico – ma non ve n’erano – colse l’opportunità per avanzare lungo le file e parlare un po’ con gli uomini, cercando di capire quale fosse l’umore degli altri cinque centurioni della coorte.

    La vita non era stata facile, per gli uomini che erano sopravvissuti all’agguato di Arminio; la maggior parte di loro era stata divisa dai compagni e trasferita in altre unità. A peggiorare le cose, per Tullo, ci si era messo Tuberone, un malevolo tribuno che non lo sopportava. Dopo aver perso il suo grado di centurione anziano della Seconda Coorte della Diciottesima Legione, era stato ridotto a semplice centurione nella meno importante Settima Coorte della Quinta, la sua nuova legione. Gli ci erano voluti cinque anni, e il riconoscimento di Germanico, per poter essere di nuovo promosso alla sua attuale posizione, al comando della Settima Coorte.

    Dopo il disastro, Tullo era stato privato di quasi tutti i soldati che aveva salvato. Cedicio, uno dei pochi ufficiali che aveva tra i suoi amici, era riuscito almeno a evitare che non tutti fossero trasferiti in altre unità, e lui era grato di quella gentilezza ogni giorno. Il primo e più importante tra i suoi vecchi soldati era il magro e biondastro optio Marco Crasso Fenestella. Altri due erano Pisone e Metilio, legionari coraggiosi e pieni di risorse, a cui Tullo non mancò di rivolgere la parola prima di passare avanti.

    I soldati della sua nuova centuria erano simili a tutti gli altri che aveva guidato, considerò Tullo, studiando i loro volti. Ce n’erano alcuni che si facevano davvero notare per il loro talento, e poi un gruppo centrale di buoni soldati, mentre tutti gli altri erano semplicemente nella media. Come sempre, c’era anche un gruppetto di pessimi soldati: pigri e sempre pronti a lamentarsi. Se governati con il pugno di ferro, comunque, anche loro, alla fine, facevano la loro parte. Come unità nel suo insieme, i suoi uomini erano formidabili. Avevano combattuto con valore e grande coraggio, nella campagna punitiva appena conclusa. Tullo era fiero di loro, ma lo ammetteva in rare occasioni. Le lodi centellinate erano sempre quelle che funzionavano meglio.

    Dai bastioni del forte, a forse un quarto di miglio di distanza, vennero degli squilli di trombe. «Mento in alto, petto in fuori. Scudi dritti e giavellotti ben piantati a terra», abbaiò Tullo. «Germanico sta arrivando!».

    «Ci darà qualcosa, signore?», domandò qualcuno dalle retrovie.

    «Una donazione in denaro?», si affrettò ad aggiungere un altro. «O magari del vino?».

    I centurioni spesso punivano gli uomini che parlavano quando non erano interpellati, ma Tullo era diverso. Faceva freddo, e avevano aspettato lì fuori per più di un’ora. Per lui, quelle erano domande ragionevoli. «Non vi aspettate del denaro, fratelli», rispose, sorridendo al sentire i grugniti di delusione che la replica provocò. «Questa centuria, questa coorte, non ha fatto abbastanza per meritarselo. Ma del vino non è poi così impossibile». Un basso mugugno di approvazione vibrò tra i ranghi, e gli uomini sorrisero come bambini quando Tullo aggiunse che il vino ci sarebbe stato comunque, da parte sua. «Sarà un piccolo gesto di riconoscenza, fratelli», dichiarò, tornando alla sua posizione, all’estremità destra della prima fila. «Avete combattuto bene, quest’estate».

    Gli occhi di tutti erano puntati sul sentiero che conduceva al forte, e sul gruppo di cavalieri in avvicinamento. Subito dietro di loro avanzava una coorte di Pretoriani, un’unità delle guardie del corpo imperiali di Germanico. Quando i primi cavalieri si trovarono a circa duecento passi di distanza, il prefetto di campo fece il gesto prestabilito. Tullo e gli altri centurioni anziani diedero l’ordine ai trombettieri delle rispettive coorti. Una fanfara di benvenuto si levò nell’aria autunnale. Ripetuta più volte, tacque con perfetta precisione quando Germanico raggiunse la bassa pedana posizionata sul quarto lato dell’enorme quadrato che costituiva la parata. I Pretoriani presero posizione ai lati della pedana.

    Un sospiro collettivo si sollevò alla vista del comandante, il cui regale aspetto ispirava rispetto, e perfino un certo timore. Era una figura imponente, Tullo dovette ammetterlo. Alto, robusto e con una presenza severa niente affatto diminuita dalla distanza, indossava un’armatura scintillante al punto da far pensare che fosse stata forgiata dagli dèi in persona. Una fascia rossa intorno alla vita lo identificava come generale. Era anche il governatore delle Tre Gallie e della Germania. I più cinici lo avrebbero definito – in segreto – un nobile belloccio che giocava a fare il soldato, ma Germanico non era nulla di tutto ciò. Sfoggiava ottime capacità di comando, era coraggioso e carismatico, e mostrava una vena spietata larga quanto il Reno: in poche parole, un comandante eccellente.

    In un’occasione meno formale, i legionari avrebbero acclamato Germanico a gran voce, ma quel giorno regnò un rispettoso silenzio, mentre lui saliva i gradini della pedana e veniva accolto dagli ufficiali anziani.

    Tullo sorrise, mentre il prefetto di campo offriva una sedia a Germanico, e il generale la rifiutava. Sta per rivolgersi ai soldati, pensò il centurione, con orgoglio. Quale vero capo se ne sta seduto comodamente, del resto?.

    «Coraggiosi legionari della Quinta e della Ventunesima Legione. Arditi ausiliari di Roma», esordì Germanico, lasciando che il vento conducesse lontano la sua voce. «Ottimi soldati di tutto l’impero, io vi saluto!».

    «ger-ma-ni-cus!», risposero a pieni polmoni dodicimila voci, e Tullo tra loro. «ger-ma-ni-cus!».

    «Abbiamo attraversato il Reno a primavera, noi e altre migliaia di uomini», riprese il governatore. «Quarantamila soldati imperiali, tutti guidati dallo stesso desiderio. Abbiamo marciato sul territorio nemico per vendicare i nostri caduti, il generale Varo e le sue legioni, brutalmente assassinati da Arminio e dai suoi scagnozzi traditori. Abbiamo marciato per schiacciare le tribù che ancora resistono al dominio di Roma, e per uccidere Arminio. Abbiamo marciato per riprenderci le tre aquile che il nemico ci aveva portato via». Germanico fermò l’urlo di acclamazione dei soldati sollevando una mano. «Ci siamo riusciti, anche se solo in parte. Diverse tribù sono state spezzate: i Marsi, i Catti e i Bructeri. Il recupero dell’aquila della Diciannovesima Legione è motivo di grande festa».

    Un’esplosione di grida di giubilo si levò nell’aria. Abile nel gestire le folle, Germanico lasciò ancora che le truppe esprimessero la loro gioia.

    Una vecchia, rabbiosa amarezza fremette nel petto di Tullo, perché il lavoro non era ancora finito. Non avrebbe avuto tregua, finché l’aquila della Diciottesima non fosse tornata a casa. Né sarebbe stato soddisfatto finché Arminio, il responsabile della sua perdita e della morte dei propri uomini, non fosse morto. Sangue chiama sangue, pensò, immaginando Arminio sotto la sua lama. Quel traditore, che un tempo era stato un alleato di Roma, doveva pagare per quello che aveva fatto.

    «Nonostante i nostri successi, e la buona sorte che ha permesso ai nostri soldati di tornare indietro sani e salvi, molto resta ancora da fare», riprese Germanico, quando tornò il silenzio. «La prossima primavera, una nuova campagna ci attende. Vi guiderò di nuovo oltre il fiume, fino alla vittoria. Arminio e il suo disorganizzato gruppo di seguaci saranno sopraffatti e massacrati, e le due aquile restanti ritrovate. Roma tornerà trionfante!». A quel punto, sollevò in alto il pugno destro.

    «ro-ma! vic-trix!», ruggì un centinaio di voci, in mezzo ai ranghi della Quinta Legione.

    Quel grido fu raccolto con gusto. Riecheggiò lungo la parata e si sollevò fino al cielo battuto dal vento, in un clamore che sembrava voler sfidare gli stessi dèi. «ro-ma! vic-trix! ro-ma! vic-trix!».

    Germanico restò a guardare con un’espressione soddisfatta sul volto, e Tullo pensò: È intelligente. Sceglie con cura ogni parola dei suoi discorsi. La devozione dei soldati nei suoi confronti non farà che crescere, quando premierà il loro valore e donerà loro del vino. Riuscirà a tenere alto il morale per mesi.

    Gli ufficiali anziani furono i primi a essere premiati. Cecina, il comandante veterano delle truppe del basso Reno, che aveva condotto quattro legioni fuori da un terribile agguato mentre tornavano indietro, alla fine dell’estate, ebbe l’onore di ricevere i simboli del generale trionfante. La soddisfazione di Cecina era evidente, mentre Germanico gli consegnava la corona d’alloro dorato, il bastone d’avorio, la tunica ricamata e la toga purpurea. Apronio, uno dei legati della legione, ebbe gli stessi onori. Con grande fastidio di Tullo, anche Tuberone, il nuovo legato della Quinta, ottenne una corona dorata.

    Sebbene i soldati avessero acclamato gli ufficiali anziani, la risposta fu molto più entusiastica nei confronti del successivo gruppo che si era distinto in battaglia, i centurioni e gli ufficiali di grado più basso. Tullo osservò con aria di approvazione la dozzina di uomini che venne chiamata da Germanico e premiata con delle falere, ornamenti d’oro o d’argento a forma di disco che venivano indossati sul petto con dei lacci di cuoio, o con dei torque fatti degli stessi metalli preziosi. Dopo che gli ultimi uomini furono premiati, Germanico fece una pausa di silenzio.

    Gli uomini tacquero, in attesa. Era il momento del riconoscimento dei legionari e degli ausiliari più valorosi, pensò Tullo, osservando i volti carichi di aspettativa dei suoi uomini.

    «Prima di menzionare voi coraggiosi soldati di Roma», annunciò il governatore, in mezzo a un coro di grida entusiaste, «ho ancora un ufficiale da chiamare». Si fermò di nuovo. Questa volta, il silenzio che calò sulla parata fu totale. Solo il vento gelido continuò a fischiare.

    Quel premio, separato dai precedenti dati ai centurioni, era qualcosa che si distingueva dal normale protocollo. Incuriosito, Tullo restò in ascolto insieme agli altri.

    «Centurione anziano Lucio Cominio Tullo, della Settima Coorte, Quinta Legione, presentati!». La voce stentorea di Germanico riecheggiò sul campo d’addestramento.

    Stordito, Tullo si domandò se avesse per caso sentito male. Si sentì addosso gli occhi di tutti i suoi soldati, tuttavia, e riuscì ad avvertire i loro borbottii soddisfatti.

    Merda, pensò. Non me lo sto immaginando. Passò una mezza dozzina di battiti. Sulla pedana, a forse duecento passi di distanza, Germanico restò in attesa.

    «Sarà meglio che tu lo raggiunga, signore», sibilò Pisone.

    Tullo tornò di colpo al presente. Imbarazzato e già temendo di aver offeso Germanico con quella breve esitazione, si fece avanti. La schiena rigida, lo stomaco stretto in una morsa, Tullo marciò verso la pedana, con il peso di migliaia di sguardi addosso.

    Alla distanza di dieci passi richiesta dal protocollo, scattò sull’attenti, fissando lo sguardo sul petto di Germanico. «Centurione anziano Tullo, Settima Coorte, Quinta Legione, signore!», esclamò.

    La pedana non faceva che accentuare l’altezza già notevole del generale, che torreggiava su Tullo. «Te la sei presa comoda, centurione», commentò Germanico, accigliandosi.

    «È vero, signore», balbettò Tullo. «Sono stato molto sorpreso di essere stato chiamato. Le mie scuse».

    Le labbra di Germanico ebbero un fremito. «Scuse accettate».

    Gli sembra divertente, capì Tullo, senza sapere se sentirsi sollevato o infastidito da quel fatto.

    L’espressione di Germanico tornò normale. «Soldati di Roma», esclamò. «Il centurione anziano Tullo è un uomo che molti di voi conoscono. Un ufficiale veterano, che ha servito l’impero per più di trent’anni. Fino a sei anni fa, faceva parte della Diciottesima Legione. Quando quell’unità è stata distrutta, insieme ad altre due, nella Selva di Teutoburgo, quasi tutti i soldati di Varo sono stati uccisi o presi prigionieri dal nemico. Ma non Tullo. Come un eroe di altri tempi, ha continuato a combattere per giorni, sebbene sembrasse che gli dèi volessero vedere morto ogni singolo Romano in quel maledetto luogo. Meno di duecento uomini sono sfuggiti a quel massacro, per la maggior parte da soli o in coppia. Tullo è riuscito a salvarne quindici. Quindici! Legionari il cui onore è rimasto intatto, e che hanno continuato a vivere per poter combattere un altro giorno!».

    Nuove grida di esultanza si levarono nell’aria.

    Più imbarazzato di quanto non si fosse mai sentito, Tullo capì che le sue speranze che Germanico avesse finito erano infondate, quando il generale prese fiato per continuare.

    «Il centurione anziano Tullo e i suoi uomini sono rimasti fedeli a Roma in tutto il periodo difficile seguito alla morte del nostro divino padre Augusto. Ha rischiato la vita per salvare la mia persona dal pericolo». Essendo ancora un argomento scomodo, Germanico non insistette oltre sulla sanguinosa ribellione dell’anno prima, ma riprese: «Nella campagna che è appena terminata, Tullo si è distinto in più di un’occasione, in particolare durante la difficile battaglia della strada dei Lunghi Ponti. Queste azioni non sono state le prime in cui Tullo si è distinto come capo, da vero figlio di Roma, e il numero di falere sulla sua corazza non fa che testimoniarlo. I suoi soldati lo adorano, e marcerebbero con lui nell’Ade, se glielo ordinasse. Ha il rispetto degli altri centurioni e l’apprezzamento di tribuni e legati di più di una legione. Non riesco a pensare a nessun ufficiale migliore, a nessuno che incarni maggiormente la virtus, dell’uomo che ho adesso davanti a me». Germanico estese le mani verso Tullo, a palmo in su, in un segno evidente di riconoscimento.

    Ci fu un istante di silenzio, e poi dal campo d’addestramento si levò un grido potente: «tul-lo! tul-lo!».

    Tullo si sentì stringere il cuore. Quelle erano le voci dei suoi soldati, ci avrebbe scommesso la vita. Con sua grande sorpresa, il grido di esultanza fu ripetuto, prima dagli altri legionari della Quinta, poi anche da quelli della Ventunesima. Perfino gli ausiliari si unirono al coro.

    «tul-lo! tul-lo!».

    «Tullo». Il tono di Germanico era potente. Irresistibile.

    Lui sollevò il mento e si ritrovò a fissarlo negli occhi. «Signore?»

    «Se Roma avesse diecimila uomini come te, conquisterebbe il mondo intero».

    «Te ne sono grato, signore», replicò Tullo, lottando per mantenere la voce calma e stabile.

    Le urla si erano placate, e Germanico sollevò una mano per imporre il silenzio più assoluto. «In riconoscimento per il coraggioso servizio che Tullo ha reso all’impero, sarà promosso. Da ora in avanti, sarà il Centurione Tullo della Seconda Centuria, Prima Coorte, Quinta Legione!».

    «tul-lo! tul-lo!».

    Se non fosse stato per il ruggito di approvazione dei soldati, e per il vento che gli gelava la faccia, Tullo avrebbe creduto di trovarsi in un fantastico sogno. Era una promozione enorme. Offrì a Germanico il suo miglior saluto da parata. «Sono onorato, signore!».

    «L’onore è mio, Tullo». Il tono di Germanico era solenne. «Avrò di nuovo bisogno di te, questa primavera. Arminio e i suoi alleati devono essere sconfitti, e l’aquila della tua legione strappata al nemico».

    «Sarò pronto, signore», replicò Tullo, pieno d’orgoglio.

    Parte prima

    aquila

    Inverno, 15 d.C.

    Vicino al forte romano di Vetera, sulla frontiera germanica

    i

    Tullo stava camminando lungo l’insediamento vicino al suo accampamento, il forte di Vetera. A parte il cielo limpido e il sole, era un gelido giorno d’inverno; l’aria fredda gli pungeva i polmoni, quando la inspirava. Un fitto strato di neve decorava i tetti delle case e gli stretti vicoli tra loro; uno di fanghiglia marrone copriva le strade lastricate. Ogni passante, che fosse un civile o un militare, indossava un mantello. Perfino i cani randagi avevano un aspetto rattrappito e triste. Nonostante il gelo, Tullo era di buon umore. Non era in servizio, e stava tornando al forte; tutto andava come doveva andare, con i suoi uomini. Ma doveva esserci qualcosa di più, decise. Da quando era tornato dalla riva orientale del Reno, tre mesi prima, la vita era trascorsa lenta e piacevole, ordinaria e banale.

    La noia era preferibile a un’esistenza fatta di perenni attacchi imminenti, ed era così che avevano vissuto lui e i suoi uomini durante la campagna estiva. Tullo si costrinse a scacciare i ricordi sanguinosi di quel periodo. Quel giorno voleva rilassarsi, prima di tutto con un bagno e un massaggio nelle nuove terme dell’insediamento. E poi avrebbe assaporato le delizie della sua taverna locale preferita, Il bue e l’aratro.

    Il pensiero della sua proprietaria Sirona bastò a formare un sorriso sui suoi lineamenti marcati. Donna gallica grintosa ed espansiva, aveva una bellezza formosa e un temperamento capace di tenere testa a qualsiasi centurione. Tullo le stava dietro da anni, ma lei lo aveva sempre respinto. Alla fine, aveva deciso che un uomo non poteva calpestare troppo il proprio orgoglio. Sirona era una causa persa, nonostante gli avesse concesso di avvicinarla molto più di quanto facesse con gli altri, visto che si prendeva cura di Artio, la sua figlioletta adottiva. Sebbene Tullo avesse smesso di corteggiarla, il passare del tempo non era riuscito a spegnere le braci del desiderio che provava per lei.

    E quando, tre mesi prima, aveva superato il ponte, proveniente dalla Germania a passo di marcia, il Fato lo aveva finalmente accontentato. Il sorriso che Sirona gli aveva rivolto sarebbe stato capace di illuminare una stanza buia. Incoraggiato da quell’accoglienza, Tullo non aveva perso tempo a rinnovare i corteggiamenti. Il primo errore era stato quello di cominciare dopo aver consumato una quantità notevole di vino capace di moltiplicargli il coraggio, il secondo il suo tentativo di baciare Sirona allo stesso tempo. Ancora riusciva a sentire il bruciore dello schiaffo che gli aveva fatto piovere sulla guancia. Erano passati dieci giorni, prima che a un umiliato Tullo fosse concesso di rimettere piede nella taverna, e altri venti prima che lei tornasse a trattarlo con un minimo della precedente cordialità.

    «La gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi». Dando un calcio a un mucchio di neve intatta e candida, Tullo decise che andare in guerra era più facile di tentare di comprendere le donne.

    «Centurione», esclamò un legionario di passaggio, rivolgendogli il saluto, e Tullo dimenticò all’istante Sirona. Le immagini della cerimonia dei riconoscimenti di un mese prima gli riempirono la mente. Continuava a sembrargli strano che Germanico avesse deciso di promuoverlo a centurione secondo in comando della Prima Coorte, eppure era così. Era successo davvero. Anni prima, quando Tullo guidava la Seconda Coorte della Diciottesima, una promozione del genere gli era sembrata possibile, ma l’ignominia di essere sopravvissuto all’agguato di Arminio gli aveva spezzato ogni possibilità di carriera. Germanico aveva visto qualcosa in lui, tuttavia, e quel recente riconoscimento l’aveva reso più elevato in grado di qualsiasi altro centurione della legione, a parte il primus pilus.

    Le acclamazioni potenti dei legionari in parata, quando Germanico aveva finito di parlare, lo avevano profondamente commosso. Sentendosi in imbarazzo perfino al semplice ricordo, si guardò intorno. Nessuno lo stava guardando, e lui ridacchiò tra sé e sé. Il fabbro laggiù era troppo preso a martellare sull’incudine, e il suo apprendista a osservarlo, per prestare attenzione a un soldato di passaggio. E lo stesso si poteva dire del bottaio che stava sistemando degli anelli di ferro intorno a un nuovo barile, e del carpentiere che imprecava per aver perso la presa sulla sega ed essersi sbucciato le nocche. Neanche i passanti, avvolti nei loro mantelli e incappucciati, gli prestarono attenzione, concentrati com’erano sul raggiungere la loro destinazione.

    Perfino il ragazzino di strada, scalzo e smilzo, che gli si faceva incontro, aveva altri pensieri per la testa. «Hai un soldo da darmi, signore?», lo pregò.

    La risposta normale di Tullo sarebbe stata quella di allontanarsi con un’imprecazione, ma le guance scavate del bambino e le sue membra sottili come rami secchi lo mossero a compassione. Sto diventando vecchio e sentimentale, pensò, mentre cercava nella borsa e tirava fuori non solo un semplice asse di rame, ma anche un denarius d’argento. «Procurati un po’ di cibo caldo», gli ordinò. La luce del sole scintillò sulle monete, mentre danzavano nell’aria. «Comprati anche un mantello o un paio di stivali».

    Mentre il viso del ragazzino mostrava un’espressione deliziata – «Mille grazie a te, signore!» – i suoi occhi sbirciarono per un attimo a sinistra.

    Tullo seguì il suo sguardo e imprecò sottovoce. Appoggiato all’entrata di un negozio c’era un secondo ragazzino. Era ben pasciuto, e tre volte più grosso dello smilzo affamato che aveva di fronte. La sua espressione diceva che aveva visto tutto. E non appena Tullo se ne fosse andato, era ovvio che si sarebbe preso quel denaro. Lo Smilzo non avrebbe avuto alcuna possibilità di opporsi.

    Tullo si sentì fremere dalla rabbia, e avanzò, bloccando il ragazzino più grosso contro la parete del negozio con l’estremità del suo vitis, il bastone di legno che portava con sé.

    Il ragazzo emise uno strillo acuto. «Non ho fatto niente, signore!».

    «Ma lo avresti fatto, verme. Stavi per rubargli le mie monete, non è così?», indagò Tullo, accennando con il mento allo Smilzo, che stava fissando la scena con occhi grandi come piatti.

    «No! Neanche per sogno, signore! Io…». La protesta del ragazzo di strada morì in un uuunf di dolore, quando Tullo lo colpì con il vitis alla bocca dello stomaco.

    «Non mentirmi». Lo sguardo di Tullo, duro come la selce e capace di mettere in riga soldati veterani, si piantò sul ragazzino. Lui abbassò rapido gli occhi, e il centurione gli sibilò all’orecchio: «Se qualcuno alza un dito su quel ragazzo o gli ruba i soldi – e sto parlando di te e dei tuoi scagnozzi – io vi cercherò, e, per tutti gli dèi, vi farò pentire del giorno in cui quella cagna di vostra madre vi ha messo al mondo. Mi hai capito?»

    «Sì, signore». Il tono del ragazzino era due volte più acuto di prima. «Non mi avvicinerò a lui, signore, lo giuro sulla vita di mia madre».

    Tullo abbassò il vitis, lasciando che la vittima fuggisse in tutta fretta. Il ragazzo di strada non osò guardarsi indietro.

    Il centurione attese che sparisse, e non fu sorpreso del fatto che lo Smilzo fosse ancora lì, con gli occhi colmi di adorazione. «Te ne sono grato, signore. Quel ragazzo è cattivo. Lui…».

    Desideroso di mantenere le distanze, Tullo lo interruppe. «Non dividere quelle monete con nessuno».

    «No, signore, e se potrò mai aiutarti…». La voce dello Smilzo si perse, insieme alla sua sicurezza. Afflosciò le spalle.

    Rendendosi conto delle buone intenzioni del ragazzino, Tullo gli batté una pacca sulla spalla e si allontanò. Ragazzini come quello erano numerosi come le stelle nel cielo. Non poteva aiutarli tutti, né voleva farlo, e non aveva senso permettere a uno di loro di fargli compassione, o non avrebbe più avuto pace. Con tutta probabilità, già quel suo gesto lo avrebbe fatto assalire dai piccoli mendicanti ogni volta che si fosse avvicinato all’insediamento, da ora in avanti, perché di certo lo Smilzo avrebbe chiacchierato dell’inaspettata fortuna con i suoi amici. O forse no, decise Tullo. Meno persone lo avessero saputo, più quel ragazzino sarebbe riuscito a tenersi ben stretti i suoi soldi.

    Il pensiero dei ragazzi di strada portò Tullo a controllare la scarsella, per assicurarsi che non fosse stata tagliata. All’interno c’era una quantità soddisfacente di monete: il riconoscimento di Germanico aveva compreso anche un notevole donativo in denaro. Spronato dalle sue recenti esperienze a stretto contatto con la morte, Tullo era dell’umore giusto per cominciare a spendere quel denaro, anche se non sapeva ancora su cosa. Armatura ed equipaggiamento erano già di ottima qualità, e non avevano bisogno di essere sostituiti. Gli stivali alti al polpaccio avevano appena due anni, e per quanto la sua cintura borchiata fosse consunta, ci era affezionato. Il vitis lucido era come un’estensione del suo braccio destro, e lo avrebbe tenuto con sé fino a quando sarebbe diventato un vecchio canuto.

    D’impulso, si fermò davanti al negozio di un gioielliere, cosa che non aveva mai fatto, e osservò ciò che metteva in mostra. Perlopiù, si trattava di monili semplici, poco costosi: braccialetti di bronzo a testa d’ariete, amuleti a forma di fallo o di piccolo gladio apprezzati dai legionari e ciondoli di pietre dure indossati dalle loro donne. Dei ninnoli più preziosi erano stati sistemati più indietro, e più vicini agli occhi attenti del gioielliere; altri erano in mostra dentro al negozio. Non molto propenso a entrare – in fondo, cosa ne sapeva lui di gioielli? –, Tullo si piegò in avanti a studiare un paio di orecchini di perle, un bracciale carneliano e alcune collane d’argento. Frustrato, non sapendo cosa potesse piacere a Sirona, e troppo orgoglioso per chiedere, si allontanò.

    «Signore?», lo richiamò il proprietario, un vecchio Gallo dalle spalle cadenti e dalla barba argentea. «Posso aiutarti?».

    Tullo si girò, sentendosi in imbarazzo come se fosse stato colto a rubare. «Avrei bisogno di un dono per una mia amica».

    «Troverai cose bellissime, qui, signore, te lo prometto! Perché non entri?».

    Tullo avrebbe preferito affrontare un muro di scudi germanico, ma voleva fare un regalo a Sirona, e in fondo, se fosse entrato, sarebbe stato meno probabile che qualcuno lo vedesse o lo riconoscesse. Quasi riuscendo a sentire le battute dei suoi legionari – «Tullo, cosa fai, compri un ninnolo per la tua amante?»; «Sirona ti ha accolto nel suo letto infine, eh?» – piegò la testa per evitare di sbattere contro il basso stipite della porta ed entrò.

    Il negozio era più grande di quanto non sembrasse da fuori, una lunga stanza in parte affollata di teche e armadietti, con dei banconi in fondo su cui lavoravano impegnati artigiani. «Non posso restare a lungo», fece sapere il centurione, temendo, dai modi gentili del negoziante, che fosse molto abile a trattenere i clienti lì dentro finché non si fossero decisi a comprare qualcosa.

    «Il tuo tempo è prezioso, mio signore, lo so. Mi hai onorato anche soltanto varcando la soglia del mio negozio», dichiarò il gioielliere, inchinandosi.

    Tullo inarcò un sopracciglio. Di certo era impossibile non capire che lui era un ufficiale: il taglio dei suoi vestiti e l’armatura l’avrebbero detto a chiunque, ma quel vecchio non aveva motivo di pensare che fosse qualcosa di più di un optio veterano, o magari un centurione di basso rango. Eppure, pensò Tullo, era meglio essere cauti. Se il gioielliere avesse intuito anche solo vagamente il suo vero grado, ogni prezzo, in quel posto, si sarebbe di colpo triplicato.

    «Per mettere subito le cose in chiaro, la mia borsa è leggera», fece sapere Tullo. «La paga non mi arriverà che tra giorni».

    «Ci sono bellissimi pezzi per tutti i gusti, signore», replicò il gioielliere, con notevole diplomazia. «Quanto pensavi di voler spendere?».

    Quella era la sua scommessa iniziale, pensò Tullo, ma

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