Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La fratellanza dell'impero
La fratellanza dell'impero
La fratellanza dell'impero
E-book733 pagine11 ore

La fratellanza dell'impero

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un epico viaggio da Roma alla Britannia
In cerca della sua vendetta

IV secolo d.C. Il giovane aristocratico romano Quinto Varro è in fuga dal massacro di tutta la sua famiglia. Solo lui e uno zio sono riusciti a sfuggire alla furia degli assassini e intende scoprire chi ha ordito il complotto per avere la sua vendetta. Così, incerto su chi sia meritevole di fiducia, decide di rifugiarsi nella remota Londinium, in Britannia. Teme per la sua vita e il dolore per la perdita dei suoi cari lo tormenta. Quando incontra una giovane donna irlandese di nome Lydia, le loro vite si intrecciano e il padre della ragazza si offre di trovargli un lavoro come fabbro. La copertura perfetta per pianificare la vendetta. Ma gli assassini non hanno dimenticato Quinto e sono sulle tracce del giovane per completare, una volta per tutte, lo sterminio della sua famiglia. A salvargli la vita e a conquistarsi la sua fiducia è un uomo che, come lui, ha un conto in sospeso con chi si nasconde dietro la cospirazione. Quinto non sa che la verità che cerca potrebbe essere molto più sconvolgente di quanto immagina.

Un autore da oltre 1 milione di copie

È l’unico sopravvissuto di una congiura che ha sterminato la sua famiglia.
E il viaggio per la vendetta sarà lungo e pericoloso.

Hanno scritto di Jack Whyte:
«Uno straordinario autore che riesce a intrecciare magistralmente la storia nelle storie.»
The Globe and Mail

«Jack Whyte è un maestro della scrittura. Riesce a far immergere il lettore nel mito grazie alle sue ricostruzioni storiche.»
Tony Hillerman 

«Questo scrittore ha saputo costruire un intero mondo che emerge vivido attraverso le leggende.»
Diana Gabaldon

«Un modo originale di raccontare la storia. Straordinario.»
Rosamunde Pilcher

Jack Whyte
È nato e cresciuto in Scozia, ma vive in Canada da anni. I suoi romanzi sulla creazione del mito di Re Artù hanno raggiunto un notevole successo, grazie alla scelta di porre l’accento sulle condizioni storiche della caduta dell’Impero Romano e non sull’uso della magia.
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2019
ISBN9788822732996
La fratellanza dell'impero

Correlato a La fratellanza dell'impero

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La fratellanza dell'impero

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La fratellanza dell'impero - Jack Whyte

    Nota dell’autore

    Inizio a immaginare come dev’essersi sentito l’eccezionale e compianto giocatore di baseball degli Yankees Yogi Berra quando gli venne chiesto di descrivere cosa gliene pareva del suo cambio di lavoro da ricevitore sul campo a manager della squadra. Come forse saprete, rispose che gli sembrava di vivere un lunghissimo déjà vu.

    Ricordo di essermi ritrovato in una situazione complessa e del tutto analoga nel 1991/92, poco prima di pubblicare il mio primo romanzo, La pietra del cielo.

    All’epoca, la mia preoccupazione principale per la Nota dell’autore era quella di fornire ai miei lettori un’idea della composizione e della complessità delle armate romane che operavano nella provincia della Britannia durante gli ultimi decenni del terzo secolo – la loro struttura interna, le loro armature e armi, le strategie e tattiche che adottavano – e credo di essermela cavata piuttosto bene, per quegli anni, nel dare un’idea della vita quotidiana dell’esercito romano ai moderni lettori nordamericani.

    In questo caso, invece, avevo aspettative diverse, eppure stranamente simili; perlopiù avevo bisogno che i miei lettori del ventunesimo secolo capissero questioni che un soldato romano comprendeva d’istinto, grazie a esempi ed esperienze sul campo. I soldati usavano le stesse espressioni comuni che usiamo ancora oggi, duemila anni dopo; dobbiamo solo sapere dove cercarle. Parole semplici come un banale grazie (benigne, pronunciato con la

    G

    dura di gatto), o i nomi degli ingredienti nella ricetta del garum, una salsa di pesce speziata che per un legionario romano era l’equivalente del tè per il soldato semplice dell’impero britannico nel periodo del suo massimo splendore, diciassette secoli più tardi.

    Per quel che riguarda il denaro per le piccole spese, i tagli più grandi con cui la maggior parte dei legionari aveva a che fare erano varianti delle monete in puro rame conosciute come asses; perciò quando ne vedevano in quantità significative commentavano probabilmente dicendo benigne agli dèi della ricchezza e del denaro. Le braccae erano i pantaloni in pelle indossati d’inverno dalle legioni, quelli che anni dopo divennero i moderni pantaloni, le braghe originali.

    I legionari usavano un sistema di pesi e misure quasi identico a quello utilizzato al giorno d’oggi in Gran Bretagna (noto come sistema imperiale britannico), ma una libbra romana corrispondeva circa a dodici once, più o meno i tre quarti di una libbra attuale, composta da sedici once; perciò tre libbre romane pesavano all’incirca quanto un chilogrammo moderno.

    Nella Nota dell’autore della Pietra del cielo mi sono dato gran pena per spiegare il funzionamento delle varie formazioni militari che componevano la legione romana: originariamente ogni legione era formata da dieci coorti, ma questo numero fu in seguito portato a otto, nella maggior parte dei casi. Parlai poi delle otto centurie militari contenute in ogni coorte, e dei centurioni che le comandavano. In quegli anni una coorte poteva arrivare a contare fino a ottocento uomini; quindi ogni legione, a pieno regime, raggiungeva i seimilaquattrocento soldati, più tutte le unità ausiliarie – che andavano dal personale medico ai cuochi, passando per gli armaioli e un’ampia varietà di artigiani – necessarie a mantenerle operative. Tuttavia, non mi presi mai il disturbo di spiegare che, dal punto di vista di un normale legionario, l’edificio più importante di tutto il campo romano – a prescindere dalle dimensioni, che si trattasse di un accampamento provvisorio allestito durante la marcia o di una fortezza legionaria permanente – era il suo alloggio personale; la tenda o la caserma che lo ospitava insieme agli altri membri dell’unità di otto uomini che vivevano e combattevano al suo fianco. Ogni centuria aveva otto unità, e gli uomini venivano alloggiati negli stessi ambienti ogni notte che trascorrevano nel campo, e spartivano tutto ciò che l’esercito dava loro. L’unità e l’alloggio condividevano anche lo stesso nome: ciascun alloggio veniva chiamato contubernium e i suoi occupanti erano i contuberniales, e contubernium era anche l’unità base di una centuria.

    Le faccende quotidiane dell’esercito all’interno delle coorti venivano supervisionate dai centurioni della legione, ma la legione nella sua totalità era diretta dal simbolico legatus legionis – il legato della legione – che si avvaleva dell’assistenza di una serie di ufficiali, tra cui sei tribuni e i centurioni anziani della legione. C’erano due tipi diversi di tribuni, entrambi facilmente riconoscibili persino per le nuove reclute. Mentre i tribuni militari erano per la maggior parte ufficiali che avevano lavorato sodo per scalare i ranghi, la stessa cosa di certo non si poteva dire di tutti i tribuni. L’eccezione alla norma era il cosiddetto tribunus laticlavius, un riferimento diretto all’ampia e ben visibile fascia (il laticlavius) che ricadeva sulla sua tunica. Il tribuno laticlavio era un uomo da tenere sempre d’occhio nell’arena politica. Si trattava di solito del figlio più giovane di una potente famiglia di senatori e quasi sempre del secondo in comando della legione, presente solo per farsi vedere e ammirare nell’esercizio del suo dovere pubblico, a prescindere dalla sua mediocrità come soldato.

    I lettori moderni potrebbero non sapere che per diverse centinaia di anni dopo le invasioni del primo secolo, sotto Claudio e i primi imperatori, le legioni di stanza in Britannia erano solo tre, ovunque note come legioni britanniche. In questo libro ho scelto di usare l’equivalente moderno dei titoli ufficiali delle legioni britanniche, visto che erano solo tre: la legione

    XX

    Valeria, la Ventesima Valeria, era di stanza a Deva, l’attuale città di Chester; la legione

    VI

    Victoria, la Sesta Vittoriosa, alloggiava a Eboracum, la moderna York, anche se avrebbe conquistato maggior fama in Iberia – attualmente Spagna e Portogallo – dove si distinse sotto il comando dell’imperatore Flavio; e infine la

    II

    Augusta, la legione nota come Seconda Augusta, che sembra avesse il proprio quartier generale a Isca, nella penisola della Cornovaglia, precisamente nella città moderna di Exeter nel Devon, all’epoca nota come Isca Dumnoniorum. Prima però, e per più di centocinquant’anni, è opinione generale che la Seconda Augusta fosse di stanza più a nord, in un’altra Isca, nota come Isca Silurum, che corrisponde all’attuale cittadina di Caerleon nel Sud del Galles.

    Poi, ovviamente, c’è quella faccenda complessa del perché all’improvviso ci furono quattro imperatori al tempo stesso. Quella situazione ha lasciato perplessi diversi studiosi nel corso degli anni, ma la risposta è in realtà molto semplice. Il periodo noto come declino e caduta affonda le proprie radici nel regno dell’imperatore Commodo, la cui malignità è stata riportata sul grande schermo dall’attore Joaquin Phoenix nel film Il gladiatore. Per i cento e più anni successivi al regno di Commodo, l’impero prese a collassare su sé stesso, e per l’ultima settantina d’anni di quel secolo, un’accozzaglia di disastrosi e autoproclamatisi imperatori, che puntavano unicamente all’arricchimento personale, iniziarono a trascurare l’esercito in modo sempre più vergognoso, in un periodo in cui i confini dell’impero erano estremamente vulnerabili. I soldati non venivano pagati né sfamati, e le armi e gli equipaggiamenti di cui disponevano non vennero mai rinnovati, così intere unità dell’esercito iniziarono a scomparire, mentre i soldati facevano del loro meglio per sopravvivere in angoli remoti delle campagne imperiali, dove avrebbero potuto preservare quel che restava della loro sicurezza e vivere sfruttando le proprie abilità.

    Tale dissoluzione venne arrestata per un centinaio d’anni circa con l’arrivo di un nuovo imperatore di nome Diocleziano, che era stato un soldato per tutta la vita e sapeva esattamente cosa servisse per porre rimedio ai danni.

    La sua prima mossa consisté nel riconoscere che l’impero era diventato troppo grande per poter essere gestito da un solo uomo, così lo suddivise in una regione orientale e una occidentale, con un imperatore e un viceimperatore per ciascun’area. L’amministratore anziano veniva chiamato Augusto, e possedeva tutti i poteri dell’imperatore. Il suo vice, in entrambi i casi, veniva chiamato Cesare, ed era, ipso facto, il legittimo erede dei poteri di Augusto. Era un sistema sensato che avrebbe dovuto funzionare alla perfezione; e all’inizio andò proprio così, finché, ovviamente, la natura umana non cominciò a riemergere, e l’idealismo tornò ancora una volta a trasformarsi in politica.

    Di pari passo con questi cambiamenti, Diocleziano fece del suo meglio anche per instillare nuova linfa vitale e morale negli eserciti, individuando quel che non aveva funzionato nei settant’anni precedenti e creando un nuovo sistema logistico per rifornire le truppe. Il tutto fu accompagnato da una nuova campagna di reclutamento per fare in modo che da quel momento in poi i bisogni delle legioni romane venissero garantiti al meglio.

    Una volta che il nuovo sistema fu testato e ritenuto affidabile, però, divenne in breve un ricco bersaglio per ladrocini organizzati, perpetrati da quelle stesse persone che erano state sfruttate dal sistema militare precedente e che avevano intenzione di arricchirsi approfittandosi del nuovo, generando così la necessità di una sorta di forza di sicurezza.

    Ovviamente, garantire la sicurezza tra i propri ranghi era stato sempre compito dell’esercito stesso. Ma come poteva l’autorità militare autogestirsi quando le stesse forze di sicurezza si erano dimostrate inaffidabili? La questione non fu mai spiegata o affrontata direttamente durante il regno di Diocleziano né in quello del suo successore, Costantino il Grande, e così i dettagli che circondano lo svecchiamento e i rifornimenti delle legioni imperiali di millesettecento anni fa dovranno, per forza di cose, contenere una certa dose di speculazione. Ma la speculazione è ciò di cui si nutrono gli autori di romanzi storici, ed è questo il motivo per cui quello che tenete in mano è un romanzo e non un trattato accademico.

    I Romani usavano il calendario giuliano, mentre oggi utilizziamo quello gregoriano, introdotto nel 1582. Nell’anno giuliano c’erano dieci mesi, e la loro lunghezza variava da ventotto giorni (febbraio) a trentuno, con diversi mesi lunghi ventinove o trenta giorni. Gennaio era il mese dedicato a Giano, il dio bifronte che vedeva al tempo stesso nel passato e nel futuro. Marzo era il mese di Marte e giugno quello dedicato a Giunone, mentre il significato dei due mesi intermedi è tutt’oggi incerto. Il mese successivo, che in origine era noto come quinto mese, Quintilis, venne in seguito rinominato Iulius, in onore di Giulio Cesare, mentre Sextilis, il sesto mese, venne rinominato agosto, in onore di Cesare Augusto. I quattro mesi restanti, dal settimo al decimo, sono rimasti invariati da allora; settembre (dal latino, septem), ottobre (octo), novembre (novem) e dicembre (decem).

    I Wednesday (mercoledì), i Thursday (giovedì) e i Friday (venerdì) non esistevano ai tempi romano-britannici. Questi nomi vennero coniati più tardi, in onore degli dèi norreni Odino, Thor e Freya, e vennero integrati alla lingua anglosassone durante l’Alto Medioevo. I soldati di questo racconto avrebbero parlato di domenica come del giorno del sole, e del lunedì come del giorno della luna. Martedì era il giorno di Marte e mercoledì era dedicato a Mercurio – anche nel francese moderno si chiama mercredi. Giovedì era chiamata così in onore di Giove e venerdì di Venere, mentre sabato era il giorno di Saturno. Saturno era anche il dio che veniva celebrato durante i festeggiamenti dei Saturnalia, che andavano dal 18 dicembre al 23 dicembre, un periodo in cui ci si scambiavano molti doni e durante il quale i ruoli tradizionali della famiglia venivano spesso invertiti, con gli schiavi e i servitori che venivano sfamati e serviti dai loro padroni. Si tratta di un antesignano delle nostre moderne tradizioni natalizie.

    E così torno a pormi la consueta domanda della Nota dell’autore: quante informazioni bisogna fornire al lettore moderno per farlo sentire a casa in questo mondo del quarto secolo? Spero che tutto ciò vi possa aiutare, almeno in parte.

    Jack Whyte

    Kelowna, British Columbia, Canada 2018

    I nomi dei luoghi all’interno del libro

    I lettori moderni che vogliono identificare le cittadine romane della Britannia e della Francia (all’epoca nota come Gallia) del quarto secolo possono confondersi e disorientarsi facilmente, perché l’invasione delle tribù franche che portò infine al cambio di nome della regione da Gallia a Francia, sarebbe iniziata solo un secolo dopo. La ragione di tutti questi sconvolgimenti, per quanto enigmatica possa sembrare, è molto semplice: durante i secoli intercorsi, una serie di grandi migrazioni contribuì a spostare una quantità di persone senza precedenti. Tali popoli invasero quelle aree e vi si stabilirono, portando inevitabilmente con sé la lingua, i costumi e le religioni d’origine. Dunque, la maggior parte dei nomi dei luoghi esistenti ai tempi degli antichi Romani è cambiata radicalmente da allora.

    In questo periodo, molte delle piccole e irrilevanti cittadine romane britanniche caddero in disuso e in rovina, mentre altre, che fino a quel momento erano stati anonimi avamposti, assunsero un ruolo di imprevista importanza sotto la spinta della storia. Una delle conseguenze più interessanti di queste migrazioni di popoli, e dei cambiamenti che portarono con sé, fu il frequente fenomeno del cambio di nome per i centri cittadini più ampi, soprattutto per quelli permanenti e più facilmente difendibili.

    Il porto gallico originariamente noto come Lutetia ospitò una delle prime guarnigioni della Gallia settentrionale incaricata di tenere sotto controllo le tribù celtiche locali. Quando i Romani richiamarono il loro esercito in Italia nel 401 d.C., però, quel nome era stato cambiato, e più di cento anni dopo tale evento, a causa della sua importanza strategica riguardante un fondamentale attraversamento fluviale, il re franco Clodoveo

    I

    , fondatore della dinastia Merovingia, decise di trasformare la vecchia cittadina-guarnigione nella sua nuova capitale, chiamandola semplicemente Parigi.

    L’attuale città turca di Istanbul è stata per secoli un piccolo ma strategico porto di nome Bisanzio, ma nel 330 d.C. l’imperatore Costantino ricostruì la città e la rinominò in suo onore, chiamandola Costantinopoli, anche se spesso la chiamava anche Nuova Roma o Seconda Roma. Per i vichinghi del nono secolo era Miklagard (la grande città) e persino il mondo arabo ne parlava con ammirazione, ma il nome venne infine cambiato nel meno esotico Istanbul all’inizio degli anni Cinquanta del ventesimo secolo.

    La lista che segue non è onnicomprensiva. La maggior parte di questi nomi sembrerà sconosciuta ai lettori di oggi, ma i luoghi sono tutti ancora lì, e, perlopiù, sono ancora floridi, per quanto magari noti con nomi differenti. Sono elencate anche le denominazioni contemporanee equivalenti.

    mappa1_ITA

    Prologo

    Dalmazia, 310 d.C.

    «Per tutta la merda di porco!».

    Il piccolo Quinto Varro non avrebbe mai dimenticato l’improvviso ruggito di suo nonno, perché l’anziano usava di rado quell’imprecazione, riservandola alle occasioni speciali.

    Né avrebbe dimenticato la reazione di suo padre, perché Marco Varro si pietrificò sentendo l’indignazione nella voce del vecchio, e i suoi occhi si spalancarono in un modo che in qualsiasi altra situazione Quinto avrebbe trovato comico.

    «Ma ti ascolti quando parli», ringhiò suo nonno. «Stai frignando come un moccioso, continui a lamentarti e a piagnucolare come uno di quei tuoi sacerdoti cristiani colto nel bel mezzo della strada, senza un esercito di vagabondi a proteggerlo. Tira fuori gli attributi e comportati come l’uomo che dovresti essere. Sei mio figlio, per tutti gli dèi, un legato di Roma, e ti chiedo di ricordarlo bene – rispetta la mia dignità, almeno, se non hai alcuna considerazione per la tua».

    Marco Varro raddrizzò le spalle, irrigidendosi per il disprezzo nelle parole del padre; mentre lo fissava, Quinto capì d’istinto che stava facendo del suo meglio per non rispondere sulla scia dell’emozione. Sapeva quanto suo padre odiasse balbettare nelle situazioni di tensione; era convinto che i suoi interlocutori avrebbero interpretato la cosa come un segno di debolezza. Il ragazzo trattenne il fiato nel suo nascondiglio, notando gli occhi di suo nonno che si assottigliavano per la rabbia, pronti a dare sfogo all’ennesimo accesso d’ira. Sorprendentemente, però, il vecchio attese, in modo da lasciare al figlio il tempo di trovare le parole.

    Non c’erano servitori nella sala da pranzo – suo nonno li aveva congedati appena aveva iniziato ad andare in escandescenze per quell’ultima discussione – e nessuna delle altre tre persone sedute al tavolo aveva mosso un muscolo. Quinto aveva l’impressione che stessero tutti trattenendo il respiro, lo sguardo che passava da un contendente all’altro.

    Davanti al padre e al nonno che continuavano a litigare come al solito, sua madre, Maris Antonina, sembrava sul punto di piangere, il labbro inferiore tremante e gli occhi supplici rivolti verso il marito, nel tentativo di fargli mantenere la calma davanti alla crescente furia del genitore. Per quanto Alessia Seneca, la nonna, fosse seduta con le spalle rivolte verso il suo nascondiglio, Quinto sapeva che in tutta probabilità l’anziana stava sfoggiando il suo solito scorbutico sguardo di rimprovero, così non le prestò ulteriore attenzione, perché tra gli innumerevoli membri dell’ampia famiglia Varro, lei era quella che apprezzava di meno. Quinto era ben più interessato a quel che suo zio Mario potesse pensare dello scontro in corso tra i due capofamiglia.

    Il ragazzo lo stava guardando quasi negli occhi. Lo zio era mezzo disteso, con un gomito appoggiato sul bracciolo della sedia, lo zigomo adagiato alle nocche mentre fissava la consueta lite in via di sviluppo tra il padre e il fratello. Da tempo Mario aveva imparato a osservare, ad ascoltare e a tenere per sé la propria opinione durante scontri del genere. Quinto sapeva che faceva bene a comportarsi così, perché qualsiasi tentativo di intervento non avrebbe fatto altro che spingere i due litiganti a unire le forze contro di lui. Tra tutti i parenti, Mario era il preferito di Quinto, ma per il resto della famiglia era una delusione e una pecora nera.

    Lo zio si voltò lentamente per guardare verso il nascondiglio di Quinto, il sopracciglio inarcato in un’espressione vagamente derisoria, mentre la palpebra dell’altro occhio si abbassava lentamente in un buffo e lungo occhiolino. I due avevano già condiviso momenti simili in passato, ed erano dei maestri nell’arte di sopravvivere ai costanti battibecchi che si consumavano nella famiglia. Ad accomunarli da sempre era il rifiuto di farsi coinvolgere in essi. In effetti era stato proprio suo zio a mostrargli quel nascondiglio, situato dietro il pannello ligneo di una credenza poco usata, che aveva scoperto in prima persona quando era ancora un ragazzino.

    I due uomini discutevano ormai da parecchio, ognuno cocciuto e inflessibile quanto l’altro, le loro voci sempre più forti e bellicose; nessuno dei due sembrava intenzionato a ritrattare, e a quel punto dovevano scegliere se abbandonarsi alla rabbia o a un cupo e latente risentimento. Quando il padre di Quinto finalmente parlò, tuttavia, le sue parole furono meno esplosive di quanto chiunque dei presenti si aspettasse.

    «Non stavo piagnucolando, padre». Marco parlò a bassa voce, il tono calmo e nonostante tutto deciso. «Ho solamente osservato che secondo il pontefice cristiano il modo in cui si stanno sviluppando le negoziazioni tra Costantino e i capi cristiani è stato dettato dalla volontà di Dio…».

    «Ho sentito perfettamente quel che hai detto», ruggì suo padre. «Hai detto la volontà di dio. Intendi di tutti gli dèi insieme o la volontà di un unico dio? Il dio dei cristiani? E in tal caso, dimmi: da quando tu o io spendiamo belle parole per il dio dei cristiani o la sua volontà? Da quando abbiamo abbandonato i nostri dèi romani? Non ho forse combattuto anni per la fede che ripongo in loro, spargendo sangue cristiano sotto il comando di Diocleziano, il tutto in difesa delle nostre antiche divinità? E da quando un uomo, un prete o un imperatore possono presumere di conoscere la volontà degli dèi? Questo pontefice cristiano di cui parli è più potente del pontefice massimo di Roma, o più istruito di Costantino e i suoi consiglieri, tanto da osare dichiarare una cosa del genere?»

    «Il capo dei cristiani si definisce vescovo, non pontefice», rispose Marco. «Errore mio. Ma sì, è convinto di tutte queste cose. E ne è convinto perché…».

    «Ah! Lo so io perché ne è convinto. Ne è convinto perché non ha altra scelta, perché la sua vita e la sua sopravvivenza dipendono da questa convinzione. Ci crede perché deve crederci. Ci crede con tutto sé stesso e incessantemente, dalla mattina alla sera, perché se dovesse mai smettere di asserire la propria fede dalla terrazza, sarebbe un uomo morto ancora prima di accorgersene. Morirebbe di fame, poiché da sempre gli uomini privi di valore muoiono di fame, oppure qualcuno lo ucciderebbe per tutte le bugie che si è sentito raccontare. Continua a respirare unicamente perché la maggior parte degli uomini è codarda e vive nel terrore di questo suo dio che potrebbe, dico potrebbe, colpirli e ucciderli da un qualche luogo remoto grazie a una specie di stregoneria o negromanzia, sebbene in realtà non abbia più sostanza fisica di Marte o Vulcano. E tu, Marco Varro? Anche tu credi che questo dio abbia un tale potere? Cosa sai davvero di questo dio, di questo Gesù che i cristiani adorano? È un giudeo, non è così? Un ebreo della Giudea».

    «Lo era. Perlomeno, l’uomo che l’ha allevato come un figlio lo era».

    «Ah! Il padre del dio. Be’, se non altro non era tanto onnipotente da esistere senza un padre. Un dio giudeo, allora, quindi un dio antiromano. Credi che questo dio giudaico-cristiano abbia potere su tutto il cielo e la terra?». Sollevò una mano ammonitrice. «Voglio sapere cosa credi tu. Non parlo dei suoi seguaci, non mi interessa quello che pensano loro. Tu, Marco Varro, credi che abbia un simile potere?».

    Marco sostenne deciso lo sguardo di suo padre. «Non lo so, padre», rispose infine. «Se è un dio, e loro sostengono che lo sia, allora forse ha davvero un potere del genere. Ma, come ben sai, io non sono cristiano. Mi limito a lavorare con loro, in qualità di emissario di Costantino».

    «Ma tua moglie è una di loro». Nonno Titanio voltò la testa per guardare sua nuora, Maris, per la quale aveva sempre mostrato grande affetto. «Cosa ne pensi, figlia mia? Credi che il tuo dio-Gesù sia onnipotente?».

    La madre di Quinto alzò lo sguardo. «Sì, padre», rispose a bassa voce.

    Il vecchio grugnì. «So che ci credi, ragazza, e in un senso bizzarro invidio questa tua convinzione, perché so che è reale e profondamente radicata in te. Ma dimmi: credi che questo umile e mansueto dio-Gesù, che la tua gente chiama Cristo, potrebbe mai distruggere ingiustificatamente un ampio gruppo di uomini che non gli ha arrecato alcuna offesa? Potrebbe accadere una cosa del genere?».

    Maris tenne il mento alto, non per superbia o per insolenza, ma con aria solenne, sicura della sua fede. Quinto notò che corrugava leggermente la fronte, come turbata da ciò che le aveva appena chiesto il suocero, e capì che non voleva rispondere troppo rapidamente a una domanda che poteva nascondere delle seconde intenzioni. Anche lui si era accorto del modo bizzarro con cui suo nonno aveva posto la domanda. E anche suo padre stava reagendo a una specie di strana tensione presente nell’aria, aggrottando le sopracciglia, preoccupato per sua moglie, per poi spostare lo sguardo sospettoso verso il padre.

    «Perché chiedi a Maris una cosa del genere, padre? Lei non ha alcuna…».

    «Taci e ascolta. È importante. Maris? Potrebbe accadere una cosa del genere?»

    «Potrebbe…? Permettimi di comprendere bene quel che mi stai chiedendo, padre Titanio. Ingiustificatamente, hai detto. Mi stai chiedendo se il mio dio distruggerebbe, senza una buona ragione, senza essere provocato, qualcuno o qualcosa?»

    «Esatto».

    La donna raddrizzò le spalle, gettandosi un lembo della sua stola decorata sulla spalla. «No, padre Titanio, il mio dio non farebbe mai una cosa simile».

    «E lui è l’unico, vero dio, secondo te? L’unico esistente?»

    «È ciò in cui credo».

    «Non ne esisterebbero altri?».

    Maris scosse di nuovo il capo. «Gli uomini parlano di altri dèi, ma sono tutti falsi. Dio è Dio. Un unico essere, anche se possiede molti nomi. Il Creatore della vita tutta».

    «Ed è trino, non è vero? Ha una triplice essenza? Padre, figlio e spirito al tempo stesso?»

    «È quello in cui crediamo».

    «E che mi dici della triplice divinità egizia, Osiride, Horus e Iside, che esisteva prima di lui? Ciò non ti fa riflettere?»

    «Non esisteva alcun dio prima di lui, padre Titanio. Dio è Dio. Non importa quale nome si dà al divino».

    Titanio Varro lanciò uno sguardo di traverso al figlio, prima di tornare a parlare con la nuora. «E il tuo dio era onnipotente anche quando Diocleziano era a capo dell’impero?».

    Maris sorrise cordialmente, annuendo come ad accontentare un bambino. «Era onnipotente ancora prima che sorgesse Roma, padre, prima dell’impero. Ha creato questo mondo e tutto ciò che contiene».

    «Naturalmente. Volevo solo esserne certo». Si voltò di nuovo verso suo figlio, i cui occhi guizzavano freneticamente da sua moglie a suo padre. «Dunque», continuò l’anziano, «se questo dio non nuocerà a nessuno senza essere provocato e se non esiste nessun altro con i suoi poteri sovrannaturali, come possiamo noi o chiunque altro spiegare quel che è successo alle due coorti di Petronio Provo in Dacia?».

    Per alcuni istanti non ci fu risposta, e al riparo del suo nascondiglio, Quinto si irrigidì e si chinò in avanti, una mano a coppa sull’orecchio teso verso i due uomini. Non voleva perdersi una sola sillaba di quel che veniva detto. Quando suo padre parlò di nuovo, però, sembrò confuso.

    «Petronio Provo», ripeté Marco Varro. «Conosco il nome, o almeno lo conoscevo… non è forse un tuo amico?».

    Il vecchio sbuffò. «È un uomo morto, ormai. Da parecchio, aggiungo. Ma un tempo eravamo amici. Siamo cresciuti insieme. Io, lui e Diocle».

    Marco aggrottò la fronte, concentrato. «Ricordo anche questo», commentò. «Almeno mi sembra. Parliamo di parecchio tempo fa, e poi successe qualcosa in Dacia. Non ricordo… cosa accadde?».

    L’anziano rivolse lo sguardo accigliato nel vuoto. «Nessuno fu mai in grado di spiegarlo», ringhiò.

    Quinto si contorse quando vide di nuovo quell’espressione indignata sul volto di suo padre, mentre guardava il vecchio con espressione teatrale, come a evidenziare la sua incredulità. Anche a dieci anni, Quinto sapeva che la sua era affettazione, ma sospettava che suo padre non si rendesse nemmeno conto di quel suo atteggiamento, o del fatto che lo sfoggiasse in maniera tanto evidente.

    «Cosa?», riprese Marco Varro. «Vuoi forse dire che questo evento, che causò danni a due eccezionali coorti sul campo, non venne denunciato?».

    Titanio Varro raddrizzò leggermente la schiena, gli occhi socchiusi e fissi sul suo primogenito con crescente disprezzo. «Oh, ti piacerebbe che fosse andata così, vero», disse, la voce appena udibile. «Un errore di omissione tra i massimi ranghi, sul campo. Una segnalazione tattica tralasciata, per privare gli indaffarati controllori dell’imperatore di un’opportunità per sbirciare in luoghi dove non dovrebbero mai ficcare il naso. Sono certo che una cosa del genere farebbe gioire il tuo piccolo cuore marziale, vero?». Fece una smorfia, prima di raddrizzare le spalle e tornare a parlare con il suo normale tono di voce; le sillabe uscirono dalla sua bocca nette, alla maniera di un rapporto militare. «Se la tua domanda voleva implicare che qualcuno dei presenti fu manchevole nel proprio compito di segnalare l’importanza di quanto accaduto quel giorno, allora la mia risposta è che l’unico fallimento riportato dai soldati coinvolti in quell’evento fu la mancata sopravvivenza».

    Quinto aveva sentito ogni singola parola, ma non aveva idea di quel che suo nonno avesse appena detto.

    «Che cosa…?». Marco deglutì. «Devo aver capito male. Hai detto mancata sopravvivenza?».

    Titanio Varro annuì. «È esattamente ciò che ho detto. Qualsiasi cosa sia accaduta in Dacia quel pomeriggio, non una persona è sopravvissuta per poterla raccontare».

    «Ma è… è chiaramente impossibile, padre. Qualcuno deve pur essere sopravvissuto, a prescindere dalla gravità dei danni subiti. Dovevano esserci almeno duemila uomini».

    «In circostanze normali, avresti avuto ragione», rispose Titanio, guardando suo figlio con calma. «Avrei detto anche tremila, includendo il consueto seguito – famiglie, dipendenti, responsabili di campo e simili. In questo caso, però, tutti questi erano in marcia con me nel corpo principale, perché Provo e i suoi erano in uno stato di massima allerta, trasportavano con sé null’altro che le proprie razioni e si muovevano con troppa urgenza e troppo rapidamente per poter attendere il seguito. Inoltre, eravamo in missione da diversi mesi e per due volte avevamo subìto gravi perdite. Tutto considerato, dovevano esserci sì e no mille uomini nel suo gruppo. Millecento, al massimo. Ma quel giorno morirono tutti».

    Il suo sguardo si perse per un fugace istante, ma poi proseguì. «Finché non ho visto la carneficina con i miei stessi occhi, ero, come te, incapace di credere che una cosa del genere fosse possibile. Ma è accaduta, e il massacro è stato totale. Le coorti di Provo non vennero solo decimate, furono annientate. Quando arrivammo sulla scena, quattro giorni più tardi, non trovammo alcuna traccia di vita. Non c’erano sopravvissuti, e quindi nessuna segnalazione scritta da parte di testimoni. Inoltre, non trovammo nemmeno un cadavere».

    «Ma…». Marco Varro dovette interrompersi ancora una volta, incapace di trovare le parole per formulare la domanda che aveva intenzione di rivolgere al padre. «Ma allora cosa avete trovato?», riuscì infine a biascicare, qualsiasi parvenza di teatralità ormai svanita, sebbene l’incredulità fosse ancora ben evidente nel suo tono di voce. «Qualcuno deve pur aver assistito a tutto ciò, altrimenti come potresti sapere cos’è successo? È accaduto nel pomeriggio, hai detto, quattro giorni prima del vostro arrivo. Come potresti sapere una cosa del genere, se nessuno avesse assistito alla carneficina e fosse sopravvissuto per raccontarla?»

    «Non ho mai detto che nessuno ha assistito», rispose Titanio Varro. «Ho detto che nessuno dei presenti nel momento in cui avvenne è sopravvissuto. L’ho visto accadere io stesso, con i miei occhi, e l’ho sentito con le mie orecchie».

    «Allora eri lì…».

    «Potresti pensarlo, ma no, non è così».

    Marco Varro parlò lentamente e con voce conciliante: «Padre, credimi, non desidero mettere in discussione quanto dici, ma non ha alcun senso».

    «Concordo. Ma ti ricordo che le tue obiezioni si basano su aspettative umane. Non ci fu logica umana, e di certo nessuna verità semplice, in alcun aspetto di quanto capitò quel giorno. Dimentica la semplicità», suggerì. «Cercare di attribuire la semplicità anche a un solo elemento di tutto ciò ti renderà incapace di immaginare quello di cui sto parlando. Non riesci a capire come possa aver visto qualcosa senza trovarmi sul luogo del massacro. Pensa! Come può essere possibile?».

    Nel silenzio che seguì, Quinto, dal suo nascondiglio, osservò suo nonno guardarsi lentamente intorno, gli occhi che si posavano a turno su ciascuno dei presenti in sala.

    «Devi prestare attenzione a quel che ho raccontato», continuò Titanio. «Ti ho detto che sono arrivato sul luogo quattro giorni dopo l’evento, eppure vi ho assistito. E l’unica cosa che mi hai chiesto è come sia stato possibile. Be’, è possibile, e lo fu, perché questo incidente si è verificato su una scala ben più vasta di quanto chiunque sia in grado di comprendere.

    «L’ho visto perché avevo lo sguardo rivolto verso l’alto quando è accaduto. Nel giro di un istante, e senza alcun tipo di avvertimento, un terribile e indescrivibile rombo riempì il mondo intero, strappandoci il respiro dal petto e scuotendo l’aria stessa intorno a noi, e una gigantesca sfera infuocata invase il cielo pomeridiano. Arrivò alle mie spalle, dardeggiando nel firmamento da est a ovest e trasformando il blu del cielo in buio fumoso nel giro di un battito di ciglia. Il mio cavallo si voltò e cadde svenuto a terra in un istante, mentre quella cosa sfrecciava sulle nostre teste; anch’io finii con la faccia nel fango, ritrovandomi a strisciare come uno schiavo terrorizzato e dubitando della mia sanità mentale. Poi il mondo intero si fece bianco in un incandescente istante di… di qualcosa che potrei solo descrivere come luce innaturale, persino sovrannaturale, e si scatenò un suono come non ne avevo mai sentiti prima. Qualsiasi cosa fosse appena passata sulle nostre teste, assordò e accecò molti dei nostri uomini, alcuni di essi per giorni, e altri per sempre».

    Nessuno si mosse o respirò.

    «Un attimo prima la giornata era tranquilla e tutto andava secondo i piani, e l’istante successivo il mondo intero tuonò, colmandosi di frastuono e caos, la nostra armata ridotta in uno stato di folle terrore. Il cielo occidentale si tinse di rosso, pulsando come un cuore vivente prima di essere avvolto da un oscuro manto marrone e nero, striato da fiamme che invasero le montagne fin oltre il nostro orizzonte. Ma quel bagno a faccia in giù nel fango potrebbe avermi salvato la vita, o se non altro la vista, perché mi permise di dare la schiena alla luce abbagliante nel momento del lampo. Tutti gli uomini che quel giorno rimasero accecati erano rivolti verso ovest, e quando il bagliore si scatenò avevano tutti gli occhi sulle montagne».

    Titanio si avvicinò alla madre di Quinto, che ascoltava seduta con un’espressione di orrore incredulo sul volto; l’uomo le strinse entrambe le mani tra le sue. «Te lo giuro, figlia mia», disse, «sull’onore del mio nome e quello dei tuoi figli, che ogni parola che ho pronunciato è vera». La lasciò andare, e la donna rimase seduta con la fronte corrugata, le mani ancora immobili a mezz’aria, i grandi occhi fissi sul volto di Titanio.

    Marco Varro scosse la testa. «Ci vollero quattro giorni, hai detto, prima di raggiungere il punto in cui Provo e i suoi uomini sono scomparsi per non essere mai più ritrovati. Perché ci è voluto tanto?»

    «Perché tale era la distanza che ci separava: tra noi e il punto in cui Provo e i suoi avrebbero dovuto trovarsi si ergeva una catena montuosa. L’intera catastrofe, che si sia trattato di un’esplosione o di un’eruzione, si è svolta nel tardo pomeriggio, ma per noi fu disastrosa quasi quanto per quei poveri figli di troia che ne hanno pagato le spese. So che sembra strano, ma non sto esagerando. Ciò che è successo quel pomeriggio non rischiò di distruggere solo il mio comando, ma anche la mia carriera da soldato, e fino a oggi non ne avevo mai parlato con nessuno in dettaglio».

    «Mai?», chiese Marco.

    Suo padre lo guardò, e nel suo nascondiglio Quinto rimase a bocca aperta nel notare che sul volto del vecchio non c’era più traccia di rabbia, e che la domanda di suo padre non celava alcun intento provocatorio. Quasi non riusciva a ricordare l’ultima volta che i due uomini si erano parlati con genuina civiltà.

    «Mai», ribadì Titanio Varro. «Tua madre ha già sentito questa storia, molti anni fa, poco dopo l’evento stesso, ma non ne ho mai parlato con altra anima viva. Di cosa dovrei discutere, in fondo, con qualcuno che non era presente? Considera la tua reazione a quel che ti ho appena raccontato, e credimi se ti dico che nessuno che non fosse presente o che non abbia assistito alle conseguenze di quel giorno potrebbe mai comprenderne la portata. E per quel che riguarda il tentativo di descriverlo…». Sbuffò, emettendo un suono che poteva somigliare a una risata indifferente. «Non esistono parole abbastanza potenti. Né nella mia mente, né in alcun libro scritto. Non ci sono parole…».

    Si avvicinò a capotavola e riprese il suo posto, facendo un cenno al figlio affinché lo imitasse. «Siediti», disse. «Non so se posso parlare di questa storia ancora a lungo, dopo tutti questi anni, ma ora desidero perlomeno fare un tentativo, e ci vorrà del tempo. Tanto vale farlo mentre sediamo comodamente».

    Si voltò verso sua moglie. «Alessia, forse non vorrai sentire tutto ciò, quindi se preferisci andare sappi che non mi offenderò».

    L’anziana donna si mosse appena, volgendosi verso suo marito. Quinto si chiese come avrebbe risposto, vista la sua lingua notoriamente affilata, ma la nonna si limitò a stringersi nelle spalle.

    Suo marito annuì. «Come desideri», disse, poi fece un respiro profondo.

    «Ho sempre detestato la Dacia», riprese. «È un luogo disgustoso e inospitale, inadatto alla vita umana, e noi ci trovavamo nel bel mezzo di quei territori, nella regione che i locali chiamano Carpazia. Eravamo lì da più di due mesi, una legione dimezzata, composta da cinque coorti. Secondo l’alto comando, i nemici che stavamo affrontando non meritavano una legione intera, così venimmo distaccati come una sorta di unità speciale. Ognuna delle nostre coorti aveva un comparto completo di seicento soldati, dieci manipoli da sessanta uomini, con tutto il personale di supporto e un’intera centuria di forze ausiliarie, autoctoni addestrati appositamente e reclutati dalle aree circostanti, esperti nel combattere in quei territori. In totale eravamo più di seimila unità, e io ero il legato in comando.

    «Era stata una campagna brutale, contro tribù di Visigoti e Vandali, o perlomeno questa fu la nostra impressione, poiché non riuscimmo mai ad avvicinarli abbastanza da confermare le nostre ipotesi. Però erano guerrieri di montagna, e combattevano in casa; i loro assalti erano violenti, e solitamente riuscivano a ritirarsi prima che avessimo modo di contrattaccare. Verso la fine di maggio avevano iniziato a spingersi verso sud con le loro razzie, invadendo la nostra giurisdizione oltre i territori del Danubio, e ci avevano costretto a inseguirli. Usavano tattiche mordi e fuggi davanti alle quali eravamo praticamente inermi.

    «Si nascondevano ai nostri occhi per settimane – una cosa semplice da fare in quelle colline infinite e coperte di boschi – per poi attaccarci da tutti i lati contemporaneamente, colpendoci con forza e infliggendo ingenti perdite alle nostre unità, per poi svanire come fumo prima che fossimo in grado di organizzare le nostre formazioni da battaglia. Eravamo pressoché indifesi tra quegli alberi, come forse potrete immaginare. I nostri ausiliari furono un dono degli dèi, ma tanto per cominciare erano solo un centinaio, e non avevamo alcun rimpiazzo quando venivano uccisi.

    «Alla fine iniziammo ad abituarci al territorio, e studiammo un piano per mettere alle strette quei bastardi. Avremmo diviso le nostre forze in due parti, per intrappolarli tra l’incudine e il martello, all’estremità meridionale di una catena montuosa abbastanza alta da impedire loro la fuga. Guidai tre coorti sulla strada principale del fianco orientale dei monti, anche se strada principale è un termine fin troppo generoso per quel che invero era più un semplice sentiero per capre. Provo condusse invece le sue forze lungo il fianco occidentale, dalla parte opposta. Il loro era il percorso più ostico, poiché non avevano a disposizione alcun sentiero, e dovettero superare pareti rocciose e pendii a volte quasi verticali, ma riuscirono a procedere più spediti di noi, perché ci avevano lasciato i loro equipaggiamenti.

    «Ma meno di una settimana dopo esserci separati, una qualche specie di pestilenza scoppiò tra i legionari di Provo, decimandoli nel giro di pochi giorni, almeno stando a quanto dissero i suoi ricognitori, che finalmente erano riusciti a raggiungerci dopo giorni di ricerche.

    «La mia unità era a quel punto ormai prossima all’estremità meridionale della catena montuosa, a circa cinque miglia dalla nostra destinazione, e approssimativamente quindici miglia a sud rispetto al punto in cui Provo era stato costretto ad accamparsi per permettere ai suoi di riposare. Ci fece sapere dai suoi ricognitori che mi avrebbe raggiunto in prima persona per aggiornarmi sulla situazione, perché temeva che i suoi uomini non fossero più in grado di combattere, e voleva parlarmi faccia a faccia. Una volta che i ricognitori fossero tornati da lui comunicandogli la nostra posizione, avrebbe attraversato direttamente le montagne che ci separavano».

    «E lo fece?».

    Titanio si strinse nelle spalle. «Non ho mai più ricevuto sue notizie. Dev’essere morto insieme ai suoi uomini».

    Un breve silenzio avvolse il gruppo, finché Marco Varro non disse: «Nessuno parla della Dacia oggigiorno. Non so nemmeno dove si trova».

    «Com’è giusto che sia», commentò suo padre. «È un posto abominevole, ricoperto perlopiù da foreste prive di sentieri e montagne insormontabili. Il mar Nero si estende lungo il suo confine orientale, mentre a sud si trova la riva settentrionale del Danubio. A nord e a ovest è circondata da montagne. L’intera regione è avvolta da boschi impenetrabili, e in tutto quel posto dimenticato dagli dèi ci sarà sì e no una strada percorribile. Quelli di noi che vennero incaricati di difenderla e gestirla furono lieti di lasciarla ai Goti, nell’anno 1025 di Roma, quello che ora i cristiani chiamano anno 272».

    «Cioè tre anni prima della mia nascita», osservò Marco.

    Suo padre inarcò un sopracciglio. «Già», grugnì. «Immagino di sì… In ogni caso, noi eravamo lì due anni prima del ritiro delle truppe. In effetti rimanemmo lì in totale cinque anni, prima che ci richiamassero a casa, ma era all’incirca la fine del 270 quando la folgore colpì».

    Seguì un’altra pausa, e Quinto tentò senza successo di avvicinarsi ancora di più ai presenti in sala, ma il suo volto era già premuto contro il pannello intagliato dietro cui si nascondeva. Sentì suo padre dire: «La folgore. È così che hai deciso di chiamarla?».

    Titanio annuì, l’espressione seria.

    «Una folgore, come quelle che gli dèi scagliavano sugli uomini nei tempi andati? È questo che intendi?».

    Un altro cenno di assenso, e nessuna variazione nell’espressione del vecchio. «Esattamente di quel tipo. Se avessi visto quel che ho visto io quel pomeriggio, non avresti alcuna voglia di mettere in dubbio questa definizione».

    «È… caduta, hai detto. L’hai vista cadere?»

    «No. L’ho vista passarmi sopra la testa, ma non l’ho vista colpire il suolo con i miei occhi».

    Tutti i presenti intorno al tavolo rimasero in silenzio dopo quell’affermazione; a Quinto parve che fossero diventati muti, incapaci di domandare quel che egli stesso non vedeva l’ora di sapere: cos’era una folgore, e da dov’era saltata fuori quella in particolare?

    «Allora, cos’hai fatto a quel punto?», chiese infine suo padre. «Dopo che quella cosa cadde dal cielo, intendo».

    Titanio scosse il capo. «Non ne ho idea. Non riesco a ricordare…». Si guardò intorno, studiando i volti dei membri della sua famiglia. «So che sembra non abbia adempiuto al mio dovere, ma giuro che non è così. Da quel giorno cerco di ricordare cosa sia successo dopo, ma non ne conservo alcuna memoria. Sospetto, però, che la vera risposta sarebbe nulla. Perché quando la folgore colpì è sembrato a noi tutti che il mondo stesse per finire. Per un lungo periodo di tempo non facemmo nulla, e non ho idea di quanto sia passato prima che riprendessimo i sensi e trovassimo la forza di radunarci nuovamente. Era bastato un singolo istante a gettarci nel caos. Le nostre formazioni erano distrutte e la nostra prontezza militare spazzata via come se non fosse mai esistita. I nostri animali da soma fuggirono in preda al panico, e la gran parte dei carri che trainavano venne ribaltata e distrutta al di là di qualsiasi possibilità di riparazione».

    Fece una pausa. «Furono le urla degli uomini, però, a terrorizzarmi più di ogni altra cosa. All’inizio dovevo essere completamente assordato, perché ricordo che l’udito mi tornò poco alla volta. Quando alzai per la prima volta lo sguardo dal fango, il mondo intero sembrava completamente muto. C’erano uomini dai volti assenti che camminavano e incespicavano ovunque guardassi, la maggior parte dei quali in armatura, e nessuno di loro sembrava realmente in controllo delle proprie azioni, né di null’altro. Parevano tutti impazziti. E sebbene non riuscissi a sentire alcunché, vedevo che stavano urlando tutti, in preda allo stesso panico cieco che affliggeva le bestie, e io non facevo eccezione. Vedere i miei stessi uomini intorno a me, smarriti e privi di senno, mi sconvolse nel profondo. Ufficiali e soldati semplici, tutti ugualmente incapaci di comprendere cosa fosse accaduto, e privati di ogni speranza…

    «Poi iniziai a recuperare l’udito, e l’orrore degli strilli circostanti mi investì in pieno; le grida degli uomini e degli animali che erano stati mutilati e menomati e le folli urla degli uomini paralizzati da un terrore che non potevano gestire». Si fermò di nuovo, lo sguardo perso nel vuoto, poi aggiunse: «Eppure, nonostante fossimo spaventati e demoralizzati, in preda al caos che ci circondava, ci trovavamo a diversi giorni di cammino dal punto d’impatto della folgore».

    Titanio si voltò verso suo figlio, la testa leggermente inclinata. «Dunque forse ora comprenderai perché ho scelto di non parlarne mai con nessuno. Cos’avrei potuto dire? Come avrei potuto spiegarmi? Non era mai successo nulla di simile prima d’ora. Il nostro capochirurgo era greco. Definì l’evento con una parola greca. Lo chiamò cataclusmos, una sorta di disastro inimmaginabile».

    «Perciò non facesti alcun tentativo per cercare Provo?»

    «Cercare Provo?». Per un istante sembrò che Titanio stesse per sfoggiare un sorriso. «Nessuno ha nemmeno pensato a lui. Avevamo i nostri problemi a cui badare, abbastanza da tenerci impegnati per tutta la notte. Fu solo dopo l’inizio dei nostri tentativi di rimetterci in sesto che scoprimmo di avere più di cento uomini mutilati, accecati e assordati. Come potevamo occuparci di un problema simile? I nostri medici erano addestrati a curare ferite da battaglia. Non avevano idea di come aiutare quegli uomini. E questo è solo un minimo esempio di quel che ci trovammo ad affrontare.

    «No, non pensammo a Provo e ai suoi uomini fino al pomeriggio del giorno seguente, quando credemmo di aver riportato una parvenza di ordine nel nostro accampamento. A nessuno di noi sovvenne che la loro unità potesse aver riportato danni. Sapevamo che si trovavano a più di quindici miglia di distanza, dall’altra parte della catena montuosa, perciò non ci sembrava possibile che i soldati di Provo potessero aver subìto qualcosa di simile al nostro trauma, figuriamoci qualcosa di peggio. Ma poi due dei nostri ricognitori tornarono dal versante occidentale, riportando notizie che appena il giorno prima avremmo ritenuto incredibili. Il resoconto di quel che avevano visto, scenari distanti di fiamme violente e caos impossibile, bastò a farci partire alla svelta.

    «Decisi di andare a cercare Provo personalmente, e ordinai a un’intera centuria, a ben cento uomini, di marciare insieme a me, ognuno di loro con razioni sufficienti a sopravvivere per una settimana. Partimmo all’alba del giorno seguente, sotto una pioggia battente che durò per tutta la giornata e rese ogni passo una vera sofferenza».

    «E vi ci vollero due giorni per trovare Provo?»

    «No, ci vollero due giorni per raggiungere il luogo dove avrebbe dovuto trovarsi». Titanio inclinò di nuovo la testa, come aveva fatto poco prima; era come se stesse cercando di ascoltare qualcosa al di là del suo raggio uditivo. «Non trovammo mai Provo, né uno solo dei suoi», disse. «Non scoprimmo mai nemmeno in che punto si trovassero di preciso quando la folgore si abbatté al suolo. Non li andammo nemmeno a cercare. Sarebbe stato inutile».

    «Avevamo combattuto contro la pioggia, il fango e i pendii scivolosi per tutto il giorno, arrampicandoci in tutta fretta su ogni salita che ci si parava davanti, nel tentativo di fare del nostro meglio per raggiungere la cresta di quella dannata montagna. Il cielo davanti a noi era scuro, nero come la pece, l’aria densa di fumo ripugnante. Puzzava in modo abominevole. Non c’erano tracce di fuoco o fiamme libere, solo quel miserabile puzzo di melma bruciata che sembrava consumare ogni cosa.

    «I primi dei nostri uomini raggiunsero infine la vetta, il che, in qualsiasi altra occasione, sarebbe stato motivo di giubilo. Io ero nella seconda ondata di arrampicatori, e ricordo di aver pensato quanto fosse strano che gli uomini davanti a noi fossero così silenziosi. Strano e inquietante. Quando raggiunsi la cima li trovai tutti con le spalle rivolte verso di me, a fissare in lontananza, e quando vidi quello che stavano guardando i miei uomini, qualcosa dentro di me andò in mille pezzi».

    Titanio rimase in silenzio e tutti attesero il seguito del racconto, ma un attimo dopo fu chiaro che l’anziano si era perso nei suoi ricordi.

    Mario si schiarì la gola. «Cos’hai visto, padre?»

    «Una landa desolata», disse Titanio a bassa voce, gli occhi concentrati su un panorama interiore che nessun altro avrebbe mai potuto vedere. «Una landa desolata come non avevo mai scorto fino a quel momento».

    «Be’, hai già detto che quel luogo non era adatto all’insediamento dell’uomo». Quinto notò che il tono di suo padre era decisamente meno polemico di quanto fosse poco prima.

    «Quella che vi ho descritto prima era la condizione normale di quel luogo, un vero letamaio. Quel che si presentò ai miei occhi da quella cima, tuttavia… fu qualcosa di completamente diverso, uno scenario assolutamente impossibile». Aggrottò la fronte. «Hai mai visto l’erba piegarsi?». Il vecchio non attese risposta. «Quel che avevo davanti mi ricordò una cosa che avevo visto con l’imperatore quando ero ancora un ragazzo, ma che per trent’anni ero convinto di aver dimenticato. Eravamo nei pressi della città di Salona, in Dalmazia, dove io e Diocle crescemmo insieme. Non avremo avuto più di otto o nove anni, ed era all’incirca la stagione del raccolto. Stavamo giocando ai lupi con le pecore del vecchio Ankora, inseguendole e spaventandole a morte, quando il vecchio in persona ci colse con le mani nel sacco. Sapevamo che se si fosse avvicinato abbastanza da riconoscerci ci sarebbe toccata una bella frustata, ma sapevamo anche che era mezzo cieco, così corremmo a nasconderci nel campo. Era stato un anno eccelso per il grano, e il raccolto era maturo, dorato e abbondante, e noi ci tuffammo tra le spighe per sfuggire al pastore. Diocle atterrò alle mie spalle, ridacchiando con quella folle allegria che a volte i ragazzini usano per nascondere la paura di essere scoperti e puniti.

    «Correva piegato lateralmente, e quando cadde a terra scivolando sul terreno, rimasi a bocca aperta nel vedere quel che accadde agli steli delle spighe di grano intorno a lui. Si appiattirono e si aprirono a raggio in un’onda, un muro di gambi piatti, creando uno schema circolare come quelli che si vedono a volte quando un alito di vento spazza un campo di grano. Quel giorno, sulla cima del monte della Dacia, quando abbassai lo sguardo sulla devastazione della valle sottostante, vidi esattamente lo stesso motivo».

    «Onde di grano?».

    Quinto riconobbe il tono vagamente derisorio e la condiscendenza che suo padre usava quando lo interrogava sulle sue marachelle. Non sapeva se anche il nonno li avesse notati, ma nel caso decise evidentemente di ignorarli.

    «No, non esattamente», mormorò Titanio Varro. «Abbassai lo sguardo su quella che era stata una fitta foresta di sempreverdi, indisturbata dall’inizio dei tempi. Eppure ciascun albero adulto ed eretto, alto quattro o cinque volte un uomo a cavallo, era stato spianato come uno stelo di grano. La vallata sotto di noi era vasta, sufficientemente ampia da fare in modo che l’estremo opposto risultasse invisibile, coperto dal fumo; ma anche abbastanza lunga, seguendo il contorno della catena montuosa, da farmi pensare che potesse estendersi per almeno dieci miglia da nord a sud. Al centro di tutto, più o meno a un miglio e mezzo da dove mi trovavo, c’era un abisso nero, e da esso si propagava la distruzione che aveva coinvolto tutta la valle».

    Quinto faticò a immaginare la portata stupefacente di quel che suo nonno stava descrivendo. Riusciva a figurarsene una parte, ogni albero simile a uno stelo di grano, un’intera foresta devastata dalla furia di qualsiasi cosa fosse successa, ma la sua mente era incapace di visualizzare una distruzione su scala così vasta, figuriamoci la forza che sarebbe servita per generare un caos simile. Quando tornò a voltarsi verso la sala da pranzo, rimase stupito nel notare che gli adulti avevano un’espressione non meno incredula della sua. Fissavano il vecchio, incapaci di comprendere.

    Fu Mario a porre la domanda più ovvia. «Cos’era quell’abisso nero, padre?».

    Titanio Varro diresse di nuovo lo sguardo nel vuoto. «Era un gigantesco buco, ovviamente, una voragine spaventosamente vasta e apparentemente senza fondo, che aveva inghiottito le coorti di Provo».

    «Tutti e mille i soldati? Impossibile».

    Quinto attese che suo nonno rispondesse infuriato, come faceva puntualmente ogni volta che la sua parola veniva messa in dubbio, ma il pater familias si limitò a scuotere la testa. «Per quanto ho potuto vedere, nessuno è sopravvissuto. Sono stati inghiottiti tutti e non sono mai stati ritrovati. Pensammo di andarli a cercare, ma sarebbe stato impossibile avvicinarsi a quell’area».

    «E così li avete semplicemente lasciati lì, abbandonandoli al loro destino?», chiese il padre di Quinto. Il ragazzo vide chiaramente la confusione sul suo volto.

    Ancora una volta il vecchio non mostrò alcun segno di risentimento davanti ai dubbi del figlio. Non fece che irrigidirsi lievemente, per poi voltarsi verso Marco. «Hai mai visto una foresta di sempreverdi?», domandò.

    «Sì, in Germania, lungo il Reno. Si estendono per centinaia di miglia».

    «Bene. E hai mai visto le cascate di neve che scivolano giù per i fianchi delle montagne nei Paesi del Nord durante i mesi invernali?»

    «Sì, le ho viste, anch’esse in Germania».

    «E ti sei mai soffermato alla base di una di quelle cascate durante la primavera o l’estate seguente, per prendere nota di quel che sopravvive, una volta sciolta la neve?».

    Marco scosse il capo.

    «Me l’aspettavo. Ma io l’ho fatto. Abbiamo perso un intero manipolo di fanteria un anno, centoventi uomini più i loro ausiliari, durante una tempesta su un passo montano nella Gallia Cisalpina; quell’estate, quando la neve si sciolse, andammo a cercare i loro cadaveri. Trovammo alcuni dei loro resti, inclusi gli stendardi ridotti a brandelli della loro unità sotto un ripido pendio sporgente. Erano stati spazzati via da una di quelle valanghe». Si guardò attorno, fissando gli altri. «Le persone credono che la neve sia innocua. Credono che sia letale solo per il freddo, e non per il suo peso. Quando una di quelle cascate di neve scende giù per il fianco di una montagna, però, spazza via tutto. Strappa al monte alberi e boschi e massi mobili, mischiando tutto insieme finché qualsiasi cosa che si trovi davanti alla massa in movimento non viene distrutta all’istante. E quando la neve si scioglie, quel che rimane è una massa solida di alberi intricati in frantumi – centinaia, a volte migliaia di alberi, distrutti perché si

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1