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Per la gloria dell'impero
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E-book486 pagine6 ore

Per la gloria dell'impero

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Info su questo ebook

N°1 in tutto il mondo
Nessuno come lui

Un grande romanzo storico

Se non conosci Scarrow, non conosci Roma

Britannia, 52 d.C. Le tribù occidentali sono pronte a schierarsi. Ma saranno in grado di eguagliare la disciplina e il coraggio dei legionari? Macrone, ferito, è rimasto indietro a difesa dell’accampamento, mentre il prefetto Catone cerca di penetrare nelle colline. Il suo intento è consolidare il trionfo di Roma schiacciando definitivamente la roccaforte dei Druidi. Ma con l’inverno che avanza, il percorso è funestato dalle piogge fredde e dalle tempeste di neve. Quando le pattuglie di Macrone riferiscono che il presidio degli indigeni si sta assottigliando, un terribile sospetto prende forma nella mente del soldato. È possibile che il governatore Quintato abbia sottovalutato il nemico? Se c’è in atto un piano sofisticato e mortale, saranno Catone e i suoi uomini a pagarne il prezzo...

5 milioni di copie nel mondo

Simon Scarrow è leggenda

«Il miglior scrittore di romanzi storici? Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«Il nuovo capitolo della lunga serie di Scarrow sull’esercito romano è come sempre un grande piacere. Per gli appassionati di Catone e Macrone è rincuorante sapere che le loro avventure sono più che mai vive.»
The Times

«Un buon libro, facile da leggere ma travolgente.»
Mail on Sunday
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore dei romanzi Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, L’aquila dell’impero, Sotto un unico impero, La spada e la scimitarra, Per la gloria dell'impero e I conquistatori (con T.J. Andrews), tutti pubblicati dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2016
ISBN9788854199439
Per la gloria dell'impero
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Per la gloria dell'impero - Simon Scarrow

    BREVE INTRODUZIONE ALL’ESERCITO ROMANO

    La Quattordicesima Legione, come tutte le legioni, era composta da cinquemilacinquecento uomini. L’unità base era la centuria, costituita da ottanta uomini e comandata da un centurione. La centuria si suddivideva in gruppi di otto uomini che condividevano una stessa stanza nella caserma e una stessa tenda durante le campagne militari. Sei centurie formavano una coorte e dieci coorti una legione; la Prima Coorte contava il doppio degli uomini rispetto alle altre. Ogni legione era accompagnata da un reparto di cavalleria di centoventi uomini, suddivisi in quattro squadroni, che svolgevano le funzioni di esploratori e messaggeri. In ordine decrescente, la gerarchia militare prevedeva i seguenti gradi.

    Il legato, una persona di origini aristocratiche, intorno ai trentacinque anni di età. Il legato rimaneva al comando della legione per cinque anni, cercando di distinguersi per poter poi accedere a una successiva carriera politica.

    Il prefetto del campo, in genere un veterano, già centurione capo della legione, all’apice della carriera militare professionale. Era un ufficiale di grande esperienza e integrità, pronto ad assumere il comando della legione in assenza del legato.

    Sei tribuni formavano lo stato maggiore della legione. Si trattava solitamente di giovani ufficiali che avevano da poco passato la ventina, al primo incarico nell’esercito, il che doveva servire loro ad accumulare un’adeguata esperienza amministrativa prima di occupare posti subalterni nell’amministrazione civile. Faceva eccezione il tribuno anziano, destinato a un alto incarico politico e, successivamente, al comando della legione.

    Sessanta centurioni rappresentavano la spina dorsale della legione, di cui curavano la disciplina e l’addestramento. Venivano selezionati per l’attitudine al comando ed erano pronti a sacrificare la propria vita per l’esercito. Per questo motivo, la mortalità tra le loro file superava di gran lunga quella di altri ranghi. Il centurione più anziano comandava la Prima Centuria della Prima Coorte ed era un ufficiale pluridecorato e profondamente rispettato.

    I quattro decurioni della legione comandavano gli squadroni di cavalleria. Tuttavia, è possibile che ci fosse anche un centurione al comando supremo del contingente a cavallo della legione, sebbene la questione sia ancora oggetto di dibattito.

    Ogni centurione era affiancato da un optio, che aveva il ruolo di attendente, con incarichi di comando di minore importanza. Gli optiones aspettavano un posto vacante nel centurionato.

    Sotto gli optiones c’erano i legionari, uomini che si arruolavano e prestavano servizio per venticinque anni. In teoria, solo i cittadini romani potevano iscriversi alle liste di arruolamento, ma le popolazioni locali fornivano all’esercito un numero sempre crescente di reclute, che al momento dell’arruolamento ottenevano automaticamente la cittadinanza romana. I legionari avevano un buon salario e, di tanto in tanto, potevano contare su speciali gratifiche dall’imperatore (quando la loro lealtà aveva bisogno di essere consolidata!).

    Il grado più basso, al di sotto dei legionari, era occupato dagli uomini delle coorti ausiliarie. Venivano reclutati nelle province e fornivano all’impero romano cavalleria, fanteria leggera e altre competenze specialistiche. Al termine dei venticinque anni di servizio, venivano ricompensati con la cittadinanza romana. Le unità di cavalleria, come la Seconda Coorte Tracia, contavano approssimativamente cinquecento o mille uomini, comandati da generali con un alto grado di esperienza e competenza. Esistevano anche coorti miste, formate da un terzo di cavalieri e due terzi di fanti, impiegate per presidiare il territorio circostante.

    elenco dei personaggi

    Al Forte

    Seconda Coorte Tracia di cavalleria Corvi Sanguinari

    Prefetto Catone

    Decurioni: Mirone, Temistocle, Corvino, Aristofane, Arpagio, Platone

    Soldato di cavalleria Trasso

    Chirurgo Pausino

    Optio Pandaro

    Quarta Coorte, xiv Legione

    Centurione Macrone

    Centurioni: Crispo, Festino, Portillo, Lentulo, Macero

    Optiones: Crotone, Diodoro

    Distaccamento dell’Ottava Coorte Illirica

    Centurioni: Fortuno, Appilo

    Optiones: Safro, Magone

    Ausiliario Lomo

    La colonna dell’invasione di Mona

    Legato Quintato, comandante

    Legato Valente, comandante della xx Legione e comandante pro tempore della xiv Legione

    Prefetto del campo Silano

    Tribuno Livonio

    Altri

    Aulo Didio Gallo, governatore entrante di una provincia in subbuglio

    Gaio Porcino Glabro, Princeps officii di Gallo

    Venisto, il venale capo dei civili al seguito dell’Ottava Coorte Illirica

    Giulia, la sfortunata sposa di Catone

    Petronio Deano, un commerciante mercenario del Nord

    Lucio, il figlio del prefetto Catone e di Giulia

    capitolo uno

    Ottobre, 52 d.C.

    «Che ne pensi?», chiese il prefetto Catone, osservando dall’alto di un declivio l’insediamento fortificato che si estendeva sul fondo della vallata. Non era certo formidabile come quelle fortezze di collina che aveva visto nelle terre meridionali della Britannia, ma i Deceangli avevano comunque eretto delle buone difese. L’insediamento era stato costruito su un terreno rialzato vicino al fiume che scorreva rapido attraverso la valle. Un profondo fossato circondava una fortificazione di torba sormontata da una solida palizzata e agli estremi del perimetro erano stati posti dei cancelli d’entrata fortificati da dove, arroccate su torrette, le sentinelle sorvegliavano l’area circostante. Catone stimò che all’interno di quelle difese dovevano esserci diverse centinaia di capanne circolari, oltre a molti animali e a quello che sembrava essere un ammasso di tende: le coperture dei pozzi in pietra che i nativi usavano per immagazzinare i cereali.

    Accanto al giovane ufficiale, Macrone, il centurione dal volto grinzoso, strizzava gli occhi nella luce del pomeriggio inoltrato che inondava la vallata, dando un bagliore brunito ai campi pieni di stoppie e ai rami verde scuro dei pini che ricoprivano le colline su entrambi i lati dell’insediamento. I due uomini si erano tolti gli elmi e li avevano lasciati nelle mani della piccola pattuglia che li attendeva dall’altro lato del crinale, la stessa che aveva fatto rapporto riguardo alle attività insolite che erano avvenute il giorno prima al villaggio. Grazie ai mantelli marrone spento e al loro avanzare furtivo verso quella posizione privilegiata tra gli alberi rachitici del colle, Catone e Macrone erano riusciti ad evitare gli occhi nemici e a passare al vaglio i preparativi dei guerrieri Deceangli.

    Il coriaceo veterano contrasse brevemente le labbra. «Mi sembra piuttosto chiaro. Hanno radunato gli uomini dei villaggi vicini. Vedi quella folla accanto ai cavalli? Lì, vicino a quella fila di scudi e lance. Scommetto dieci denari che non stanno preparando una battuta di caccia». Fece una pausa e soppesò le forze nemiche. «Saranno cinquecento o seicento. Non rappresentano un pericolo immediato per noi».

    Catone annuì. Era vero. Il forte a cui erano stati assegnati, in ottima posizione dieci miglia più a est, era presidiato dalle due unità sotto il suo diretto comando: la coorte di legionari di Macrone della xiv e la sua stessa coorte ausiliaria, parzialmente a cavallo. I Corvi Sanguinari, chiamati così per via del disegno sul loro stendardo, un tempo erano stati un’unità di cavalleria, ma le recenti campagne sui monti a occidente della provincia avevano causato la perdita di gran parte dei loro cavalli. Al deposito equestre di Luntum si stavano dando un gran daffare per fornire delle nuove cavalcature, ma erano fin troppo poche per soddisfare i bisogni dell’esercito. Per questo motivo, adesso metà degli uomini nella coorte di Catone fungeva da fanteria. Quell’unità, insieme ai soldati sotto il comando di Macrone, era stata assegnata a uno degli avamposti incaricati di proteggere le frontiere della nuova provincia dell’imperatore Claudio. Le file delle due unità erano state rinfoltite da nuove leve di rincalzo, che le avevano riportate a una potenza militare simile a quella precedente alla campagna contro le tribù montane. Con oltre quattrocento legionari, affiancati da altrettante truppe ausiliarie, non avevano nulla da temere dal gruppo armato che si stava organizzando all’interno dell’insediamento.

    Il che sollevava una questione.

    «E allora cosa stanno facendo?». Catone scambiò una rapida occhiata con il suo subordinato e intuì che i pensieri di Macrone si stavano muovendo nella stessa direzione. «Informerò il legato. È probabile che abbia ricevuto rapporti simili anche dagli altri avamposti. Se le cose stanno così, significa che i Druidi sono di nuovo all’opera e che presto avremo altri guai tra le mani».

    «Bastardi», sibilò Macrone. «Maledetti Druidi. Quei pezzi di merda dai capelli selvaggi non si arrenderanno mai?»

    «È la loro terra, Macrone. Questa è la loro gente. Reagiremmo forse in modo diverso se ci trovassimo nei loro panni?»

    «Se ci trovassimo nei loro panni, signore, le legioni non avrebbero mai neanche messo un dito su quest’isola».

    L’arroganza dell’amico fece ridere Catone. «Sebbene io ammiri la tua alta stima delle nostre qualità belliche, non posso non affliggermi di fronte alla tua incapacità di capire gli altri».

    Il centurione sbuffò. «Se mai avessi avuto un qualche sentimento positivo nei confronti di quei barbari pelosi, sappi che è scomparso da molto tempo, più o meno da quando non sono stati abbastanza intelligenti da capire che non avrebbero mai potuto darci una lezione».

    «Certe volte però ci sono quasi riusciti».

    Macrone sollevò un sopracciglio. «Se lo dici tu, signore».

    «E non è che non ci abbiano messo i bastoni fra le ruote a ogni passo», sospirò Catone. «Saranno pressoché dieci anni che l’esercito è sbarcato su quest’isola e non mi sembra che ci siamo avvicinati ad avere il pieno dominio della provincia. Ovviamente trattare i nativi, che in teoria sono dalla nostra parte, alla stessa stregua di animali, non aiuta».

    Il suo compagno gli lanciò uno sguardo stanco. Non era la prima volta che parlava così, ma Macrone aveva sempre preso i discorsi del suo giovane amico come il prodotto di un curioso appetito per i manierismi della filosofia greca, che lo portavano ad analizzare in maniera eccessivamente sottile ogni situazione. Agli antichi greci non aveva fatto poi così bene, meditò. La loro terra, infatti, era diventata una provincia romana, proprio come sarebbe successo a tutta la Britannia prima o poi. Si schiarì la voce prima di rispondere.

    «D’accordo, ma riceveranno un trattamento migliore nell’istante in cui smetteranno di comportarsi come animali e cominceranno ad accettare i nostri usi. Prima che ciò accada, però, dobbiamo ristabilire la disciplina e fargli entrare un po’ di sale in zucca». Puntò il pollice verso l’insediamento. «A cominciare dai Druidi. Ascoltami bene, il nostro lavoro sarà molto meno difficile quando inchioderemo l’ultimo di quei bastardi a una croce e lo lasceremo marcire».

    «Può darsi», rifletté Catone. L’ostilità di Macrone per il culto druidico era ben fondata. Sebbene i regni tribali dell’isola fossero profondamente divisi – e anche se metà delle tribù aveva stretto dei patti con Roma ancor prima che un singolo legionario mettesse piede sulle loro coste – onoravano ardentemente i Druidi ed erano sensibili ai loro appelli di resistenza all’invasore. Perfino adesso, e Catone lo sapeva bene, gran parte delle tribù che teoricamente erano state sottomesse contavano sui Druidi per proseguire la loro lotta. Un buon numero dei loro guerrieri aveva oltrepassato la frontiera tra le montagne per unirsi alle schiere di quelli che ancora combattevano contro Roma. La situazione, poi, era stata esasperata dalla morte del governatore provinciale. Quando era stato assegnato alla Britannia, Ostorio era già un comandante navigato. Troppo navigato, come si scoprì in seguito. Lo sforzo di respingere le tribù montane lo aveva sfinito a tal punto da farlo crollare durante una riunione degli ufficiali. Era morto meno di un mese dopo.

    Un pessimo tempismo. Le legioni avevano appena guadagnato una vittoria molto sudata contro i guerrieri indigeni. Il loro comandante, Carataco, era stato catturato e inviato a Roma con la sua famiglia, cosa che non aveva in nessun modo piegato lo spirito dei suoi seguaci. Quando il governatore era morto, i Druidi non avevano perso tempo per leggere in quegli accadimenti un segno divino. Secondo loro, una maledizione pendeva sui Romani e le tribù dovevano continuare a lottare, soprattutto ora che avevano ottenuto l’approvazione dei loro dèi. Avevano attaccato gli avamposti di frontiera, tendendo delle imboscate ai convogli dei rifornimenti e alle pattuglie, e l’esercito si era visto costretto a ripiegare verso quei territori più facilmente difendibili che bordavano le terre dei Siluri, degli Ordovici e dei Deceangli. Senza una guida chiara, la posizione romana si era indebolita: il governatore di rimpiazzo non avrebbe preso il comando prima della primavera e a tutto questo si aggiungevano le prove di un ulteriore raduno delle tribù per rinnovare l’offensiva.

    «Ho visto abbastanza», decise Catone. «Andiamo».

    Strisciarono di nuovo tra gli alberi e non appena raggiunsero la sicurezza dell’ombra si rialzarono e si sistemarono cinturoni e mantelli. Sopra di loro i rami stavano già perdendo le foglie: le più fragili si staccavano dalle chiome brune e gialle a ogni soffio di brezza, svolazzando nell’aria. Catone, più alto e più esile rispetto all’amico, rabbrividì. Il pensiero di trascorrere i lunghi mesi dell’inverno all’interno del forte non lo entusiasmava. Qualche burlone che lavorava per il precedente governatore aveva chiamato il loro presidio Imperatoris stultitia, la Follia dell’imperatore. La battuta era entrata nell’uso comune e ogni volta che nella corrispondenza ufficiale ci si riferiva al forte, lo si chiamava così. Il clima invernale dell’isola era già deprimente di suo, rifletté Catone, ma sulle colline e sulle montagne il freddo, l’umidità e il vento non mollavano mai la presa.

    Il prefetto desiderava ardentemente le comodità dell’Italia, con il suo clima più mite. A dirla tutta, la penisola era anche il luogo in cui sua moglie attendeva il suo ritorno, nella casa che avevano comprato a Roma. Oramai Giulia avrebbe dovuto dare alla luce il loro primogenito e Catone stava aspettando con impazienza una lettera che gli permettesse di sentirsi finalmente tranquillo. Visto che ci sarebbero voluti mesi, forse anni, prima che la Britannia diventasse abbastanza stabile da richiedere un permesso per tornare nella capitale, il giovane ufficiale aveva già deciso che avrebbe chiesto a Giulia di raggiungerlo sull’isola. Le prime città della nuova provincia si stavano espandendo rapidamente e, sebbene fossero ancora primitive, avevano tutte le comodità necessarie per offrire una parvenza di quella civiltà che si poteva trovare nel resto dell’Impero. E poi, in questo modo, lui e sua moglie si sarebbero potuti vedere più facilmente e Catone avrebbe avuto la possibilità di assaporare un po’ di vita domestica, come voleva fare dal momento in cui aveva ricevuto notizie della gravidanza.

    Macrone risalì la collina facendosi strada tra gli alberi. I suoi stivali frusciavano tra le foglie cadute e sotto il loro peso spezzavano con rumore sordo i ramoscelli. Quando raggiunsero il crinale, il terreno si rifece pianeggiante e poi cominciò a scendere dall’altro lato, dove li stava aspettando lo squadrone di cavalleria ausiliaria. Ora che avevano la collina a separarli dal nemico, i due ufficiali si sentirono più al sicuro e ricominciarono a parlare con un tono di voce normale: il pericolo di essere scoperti ormai era passato.

    «Credi davvero che quei bastardi cercheranno di attaccarci prima dell’inverno?», chiese Macrone.

    Catone pensò un attimo prima di annuire. «È molto probabile. Finché la loro gente sta ancora celebrando la morte di Ostorio, i Druidi vorranno colpire rapidamente. Ci renderanno la vita difficile, ma non penso che abbiano le forze necessarie per riprendersi le montagne. Ringraziamo gli dèi che non hanno più Carataco a guidarli».

    «Sì, sia lodato il cazzo», ruggì Macrone con sentimento. «Quel bastardo aveva più trucchi in serbo per noi di una puttana da dieci sesterzi».

    Catone sollevò un sopracciglio, sorpreso. «Colorito».

    Il centurione sputò a terra. «Per non parlare del fatto che non riceveremo nessuna ricompensa per averlo catturato non una, ma ben due volte. Qualche altro stronzo fortunato si prenderà tutto il merito».

    L’amico poteva ben comprendere l’amarezza del sottoufficiale. La situazione era ingiusta, ma avendo servito per molto tempo nell’esercito sapeva che un soldato non riceveva quasi mai ciò che gli spettava. Soprattutto se accanto a lui c’era un politico pronto a rivendicare i successi altrui come propri.

    «Chissà come riceveranno Carataco a Roma quando arriverà tutto incatenato», proseguì Macrone. «Spero che lo trattino come aveva fatto Cesare con il gallo».

    «Vercingetorige?»

    «Sì, quello».

    Catone si ricordava dell’uomo che aveva tenuto testa a Giulio Cesare cento anni prima. Dopo essere stato sconfitto e catturato ad Alesia, aveva languito nelle segrete romane per svariati anni prima di essere trascinato per le strade e strangolato come pezzo forte del trionfo di Cesare. Una fine immeritata per un nemico nobile, pensò Catone. Sperava che l’imperatore Claudio avrebbe risparmiato a Carataco una morte così misera e umiliante. Si era battuto con coraggio e senza esitazione contro Roma e si meritava il rispetto dei suoi nemici. A prescindere da quello che avrebbe potuto pensare Macrone.

    «Spero di no».

    L’amico lo guardò con la coda dell’occhio e fece una smorfia. «Provi pietà per il nobile barbaro?».

    Il prefetto sorrise. «Qualcosa del genere».

    «Merda, quando imparerai, ragazzo? Ci siamo noi, e poi ci sono loro – i barbari – che si frappongono tra Roma e il nostro destino. Se sono intelligenti, ci cedono il passo. Se non lo sono, tanto peggio per loro. Non c’è spazio per la pietà in questo mondo. Se vuoi fare questo lavoro, non hai bisogno di sapere altro».

    Catone fece spallucce. Solitamente uno scambio così informale tra un centurione e il suo comandante non sarebbe stato visto di buon occhio, ma loro due avevano servito fianco a fianco sin da quando il prefetto si era unito alle legioni, una decina di anni prima. In privato conversavano con gli stessi toni degli anni passati e Catone apprezzava molto quel fatto. Meglio avere un compagno d’armi che avrebbe detto la sua piuttosto che uno stolto e obbediente.

    «E poi», continuò Macrone, «credi davvero che ricambierebbero il favore? Neanche morti. Ci odiano fino al midollo e se solo potessero ci taglierebbero la gola in un batter d’occhio. Le uniche persone che credono nell’esistenza di barbari nobili sono quelle checche letterate di Roma con i loro maledetti libri di storia. Non esistono barbari nobili, ci sono solo i barbari».

    «Temo che tu abbia esaurito questa riserva di invettive ormai da tempo», rispose Catone. «Perché non mi fai un piacere e risparmi il fiato?».

    Macrone strinse le labbra e aggrottò la fronte. «Come vuoi tu, prefetto».

    Il riferimento al suo rango tradì l’offesa di Macrone per quell’affronto e Catone sospirò tra sé e sé, seguendo l’amico in silenzio. Davanti a loro si intravedeva della luce tra gli alberi e poco dopo emersero sul sentiero che tagliava la foresta. Si fermarono un attimo a prendere fiato e si guardarono intorno. Non c’era traccia dei soldati che si erano portati dietro dal forte.

    «Questo luogo non mi convince», mormorò Catone. «Mi sa che abbiamo incominciato più avanti».

    «Da che parte?».

    Osservò il crinale della collina e notò delle rocce che aveva visto in precedenza. «A sinistra. Andiamo».

    Camminarono rapidamente lungo il sentiero circondati da entrambi i lati dagli alberi, con il vento che sibilava tra i rami. Poco oltre, il percorso curvava per seguire il profilo del declivio e lì, a una cinquantina di passi, si trovava la pattuglia. Dieci uomini in piedi accanto alle loro cavalcature, uno dei quali teneva anche i cavalli degli ufficiali. I loro mantelli, i gambali, gli stivali e i fianchi dei cavalli erano tutti ricoperti di fango. Non appena intravide gli ufficiali, il decurione Mirone allertò i suoi uomini, che si approntarono a montare.

    «Avevi ragione, decurione», disse Catone, avvicinandosi alla pattuglia. «Guai in vista».

    Mirone annuì, contento che il suo comandante fosse d’accordo con la sua valutazione. «Quali sono gli ordini, signore?»

    «Torniamo al forte. Da lì comunicheremo al legato quanto abbiamo visto».

    Il sottoufficiale lo fissò. «E cosa credi che farà Quintato a riguardo, signore?»

    «Non sta a noi mettere in discussione le azioni del legato, decurione». Catone si aggrappò alla sella e lanciò una gamba oltre il fianco del cavallo, dando l’ordine: «In sella!».

    Il resto dei soldati montò sulle selle sollevando un coro di grugniti, rumori di cuoio che scricchiola e sbuffi di animali robusti. Una volta prese le redini con la sinistra e infilate le lance nei sostegni, il prefetto fece segno di muoversi e lungo il sentiero regolò il passo al trotto. Era così stretto che i Romani dovettero viaggiare in fila indiana per un bel tragitto prima di uscire dalla foresta e immettersi in campo aperto. Macrone incitò il proprio animale ad affiancare quello di Catone.

    «Dovremmo preparare i soldati per la marcia, signore. Nel caso in cui Quintato ci dia l’ordine».

    «Ne sono consapevole. Voglio che mi prepari un inventario completo delle nostre scorte. Parlerò con il quartier generale per eventuali carenze. Non ho intenzione di ritrovarmi nella stessa situazione assurda di quest’anno».

    Macrone annuì con trasporto. Alle due unità sotto il comando di Catone era stata assegnata la protezione dei convogli e l’ufficiale incaricato di gestire i rifornimenti li aveva messi in fondo alla lista d’attesa. La scorta dei convogli era riuscita a ricevere ciò di cui aveva bisogno solo dopo una bella sfuriata che il prefetto aveva fatto al tribuno subalterno di turno. Se Quintato avesse dovuto cominciare una nuova campagna, questa volta i Corvi Sanguinari e i legionari di Macrone non sarebbero andati in guerra senza l’equipaggiamento e le scorte adatte alla durezza delle battaglie montane.

    All’improvviso Catone sollevò un braccio e tirò le redini. Quando Macrone se ne rese conto, il suo cavallo era già a qualche passo di distanza. Gli altri cavalieri seguirono l’esempio del loro ufficiale e il prefetto si sporse in avanti sulla sella e scrutò un affioramento roccioso che incombeva sul sentiero poco più avanti.

    «Cosa succede, signore?», chiese Macrone.

    «C’è del movimento lassù. Ho visto qualcuno tra le rocce».

    Macrone guardò un attimo in alto e gonfiò le guance «Non…».

    Prima che potesse finire, una figura esile avvolta in una tunica di lana si alzò con un arco teso in mano. Il centurione portò istintivamente la mano sull’elsa della sua spada ma rimase immobile, per poi scoppiare in una risata sprezzante quando si rese conto che era soltanto un giovane pelle e ossa.

    «Va’ per la tua strada prima che ti tinga la tua maledetta pelle di rosso!».

    I soldati romani ridacchiarono nervosamente ora che la tensione si era allentata. Il ragazzo rispose con spavalderia nella sua lingua madre e fece scoccare la freccia. Lo strale si inarcò verso gli uomini a cavallo e sparì nell’erba a un lato del percorso.

    «Che faccia tosta!», sbuffò Macrone. «Prima di farlo prigioniero gli insegnerò un po’ di buone maniere a quello stronzetto».

    Detto questo, spronò la sua cavalcatura verso le rocce, incitato da alcuni degli ausiliari. Il ragazzo raccolse un’altra freccia e la preparò prima di sollevare nuovamente l’arco e prendere la mira contro il soldato al galoppo.

    Catone si mise un mano accanto alla bocca e gridò un avvertimento. «Macrone! Attento!».

    La seconda freccia si staccò dall’arma e Catone capì subito che questa volta il giovane aveva mirato bene, o aveva avuto fortuna, visto il bersaglio in movimento. Macrone sobbalzò sulla sella. Il cavallo si mise al trotto e poi si fermò, mentre il centurione si ispezionava la gamba.

    «Cazzo… Quel brutto pezzo di stronzo mi ha colpito». La sua voce era più sorpresa che sofferente e Catone spronò a sua volta il suo animale. Nel frattempo, il ragazzo rimase sopra di loro con la bocca spalancata, sbalordito da quello che aveva appena fatto. L’incantesimo si spezzò quando abbassò l’arco e scappò.

    «Seguitelo!», urlò il decurione Mirone.

    Catone tirò le redini accanto al centurione e vide lo strale scuro che sporgeva dai pantaloni di pelle che gli avvolgevano le cosce. Il sangue stava già fuoriuscendo dalla ferita e scorreva lungo la gamba per poi finire sul sentiero, goccia dopo goccia. Il centurione scosse la testa, sorpreso, e fece una smorfia a denti stretti. «Mi ha preso proprio bene quell’insulsa pezza da piedi. Colpo fortunato».

    Dopo essere smontato da cavallo, Catone si avvicinò per esaminare la ferita. Gli si rivoltò un po’ lo stomaco quando vide il sangue che pompava liberamente, ma non perse di vista le ombre dei cavalieri che gli corsero accanto seguendo gli ordini di Mirone di catturare il ragazzino ed ebbe la presenza di spirito di richiamare il decurione senza muoversi lui stesso per mettersi all’inseguimento.

    «Lasciate stare il ragazzo! Decurione! Richiama i tuoi uomini!».

    Gli ausiliari abbandonarono con riluttanza il loro fuggitivo e lo osservarono arrampicarsi agilmente tra le rocce per raggiungere il crinale della collina. Inseguirlo sarebbe stata un’impresa folle. Il ragazzo era abbastanza astuto da rimanere su terreni impraticabili per dei cavalli e, date le pesanti armature dei soldati, li avrebbe comunque seminati se questi lo avessero braccato a piedi. Catone tornò a concentrarsi sull’amico.

    «Dobbiamo fermare l’emorragia, Macrone. È una brutta ferita».

    «Lo vedo benissimo anche da me, grazie».

    Catone fece un rapido respiro e disse: «Sai quello che devo fare, vero?»

    «Fallo e basta».

    «D’accordo». Il prefetto strinse lo strale con il pugno sinistro e preparò il braccio. Con la destra prese un altro pezzo di freccia poco oltre e irrigidì i muscoli. «Sei pronto? Al tre».

    Macrone annuì e alzò gli occhi al cielo.

    «Uno…». Senza finire la conta Catone spezzò lo strale in due e l’amico emise un ruggito di dolore, strabuzzando gli occhi con sguardo selvaggio.

    «Brutto bastardo traditore, signore!».

    Il sangue sgorgava dal punto in cui il pezzo di freccia era incastrato nella coscia del centurione e Catone si affrettò a disfare il suo fazzoletto da collo e ad avvolgerlo intorno all’arto, alternando i passaggi da un lato all’altro della ferita e stringendo il rozzo bendaggio più che poteva. Mentre finiva di legarlo, macchie scure cominciarono ad apparire attraverso il fazzoletto e il prefetto alzò la mano. «Dammi il tuo».

    Macrone si sfilò il fazzoletto che portava attorno al robusto collo e Catone lo strinse attorno al proprio collo per completare la medicazione. Nonostante la pressione, la ferita continuava a sanguinare e capì subito che il centurione stava perdendo troppo sangue, e troppo rapidamente. Doveva riportarlo al forte il prima possibile per farlo curare dal chirurgo della guarnigione.

    «Mirone! Voglio due dei tuoi uomini a entrambi i fianchi del centurione. Tenetelo in equilibrio sulla sua sella».

    Mentre i soldati prendevano posizione, Macrone fece di no la testa. «Non ho bisogno di due maledette bambinaie. Ce la posso fare anche da solo».

    «Sta’ zitto ed esegui i miei ordini», tagliò corto Catone, rimontando in sella. Prese le redini e osservò il ragazzo, adesso più distante di prima. Aveva smesso di lanciare insulti ai Romani, ma la sua voce acuta riecheggiava tra le rocce. Presto sarebbe stato dato l’allarme all’insediamento e numerosi guerrieri si sarebbero sicuramente lanciati all’inseguimento della pattuglia. «Dobbiamo andarcene da qui».

    Quando vide che Macrone stava già dondolando leggermente sulla sella per via della ferita e della perdita di sangue che lo avevano stordito, ebbe un attacco d’ansia. Quell’ansia, però si trasformò ben presto in paura, paura di perdere il suo più caro amico al mondo a causa di un assurdo battibecco e della fortuna cieca del secondo colpo scoccato dal ragazzino. Il fatto che il centurione, un uomo che aveva sconfitto alcuni dei nemici più formidabili dell’Impero, dovesse essere messo al tappeto da un giovane pelle e ossa era fin troppo assurdo per Catone.

    «Merda. Merda», mormorò, incrociando lo sguardo vacillante dell’amico. «Non tu. Non ora. Non in questo posto».

    «Certo che no, cazzo», ringhiò Macrone. «Non ti preoccupare, ragazzo».

    Il prefetto annuì e si voltò verso il decurione Mirone. «Torniamo al forte! Non ci fermiamo per nessun motivo. Andiamo!».

    capitolo due

    «Mettetelo sul tavolo», ordinò il chirurgo quando gli ausiliari entrarono nell’ambulatorio della piccola infermeria accanto al quartier generale del forte. Macrone era sorretto da loro ed aveva un braccio attorno al collo di ognuno dei due soldati. Era quasi privo di sensi e la testa gli ciondolava da un lato all’altro. Catone si sorprese dal vedere quanto fosse bianca e contratta la sua faccia. Fuori, la giornata stava volgendo al termine e la tromba aveva appena suonato il cambio della guardia. La routine quotidiana della guarnigione era continuata senza tener conto del piccolo dramma che si stava svolgendo quando la pattuglia era entrata al galoppo dal cancello principale.

    Il chirurgo Pausino era uno dei pochi ufficiali medici a non avere origini greche o di una qualche provincia orientale, dove le conoscenze mediche erano più facili da ottenere. Era stato selezionato tra i ranghi militari per addestrarsi come medico da campo prima di arrivare fino alla posizione che ricopriva tutt’ora, nella quale aveva raggiunto molti anni di esperienza con le ferite, le lesioni e le malattie dei soldati. Il tavolo operatorio da un lato aveva un sottile sostegno di pelle per far appoggiare la testa dei pazienti. Gli uomini che reggevano Macrone sollevarono il centurione sulla sua dura superficie. Catone rimase in disparte, lasciando a Pausino il controllo della situazione.

    «Toglietegli l’imbracatura e l’armatura. Via anche gli stivali. Lasciategli solo la tunica». Mentre gli ausiliari eseguivano gli ordini, Macrone mormorava delle ingiurie nei loro confronti. Le palpebre gli tremavano ogni volta che muoveva la testa da un lato all’altro. Nel frattempo il chirurgo prese la sua cassetta degli strumenti e ne selezionò con attenzione una piccola gamma, che dispose su uno sgabello accanto al tavolo. Chiamò uno dei suoi inservienti e lo mandò a recuperare delle garze di lino, dell’aceto e la sua scorta di erbe. Spalancò poi gli scuri della finestra dietro Macrone per far entrare quanta più luce possibile.

    «Spostatevi da lì!». Spinse uno degli ausiliari da un lato. «State indietro». Piegò la testa verso Catone. «Non tu, ovviamente, signore. Tieniti in disparte, però, va bene?».

    Catone annuì e si mise in un punto dove poteva vedere il volto pallido del suo amico senza intralciare il chirurgo o i suoi aiutanti.

    Non appena gli tolsero l’armatura, Pausino lo liberò del bendaggio di fazzoletti e buttò il tessuto macchiato di sangue dentro un secchio di legno che teneva sotto al tavolo. Si avvicinò e ispezionò il mozzicone di freccia, poi si raddrizzò e si rivolse al centurione.

    «Dovrò tagliargli i pantaloni per poter lavorare sulla ferita, signore».

    «No…», protestò lui flebilmente. «Me li ero appena messi…».

    «È un peccato». Pausino prese un piccolo paio di cesoie e cominciò a tagliare la pelle intorno alla ferita, poi si diede da fare con cautela intorno alla freccia e continuò fino all’anca. Quando i pantaloni furono completamente aperti, li staccò dalla coscia del centurione. Un misto di sangue rappreso e fresco si era sparso intorno all’ammasso coagulato dove la freccia aveva penetrato la carne. Il chirurgo tastò l’area intorno alla ferita con le dita e Macrone emise un lamento profondo.

    «Uhm. Brutta storia. Non sento la testa della freccia. Deve essere molto in profondità». Pausino si toccò il mento barbuto, lasciandosi una macchia cremisi sulla pelle.

    «Cosa hai intenzione di fare?», chiese Catone.

    «È piuttosto semplice, signore. Un’estrazione progressiva dovrebbe risolvere la faccenda».

    Il prefetto sospirò e alzò un sopracciglio. «Puoi spiegarti meglio?»

    «Con piacere, ma mentre lavoro, signore. Il centurione sta ancora perdendo sangue, dobbiamo fare in fretta». Pausino si girò e parlò a uno degli ausiliari. «Mettetelo su un fianco e tenetecelo. Quando comincio, non dovete assolutamente farlo muovere. Ci siamo capiti? Bene! Diamoci dentro».

    «Fai fare a me». Catone spinse uno degli ausiliari da un lato e prese la spalla di Macrone.

    Il chirurgo lo guardò con aria sorpresa, poi fece spallucce. «Come vuoi tu. Pronti? Adesso».

    Seguendo le indicazioni di Pausino, adagiarono Macrone su un fianco, con la ferita in alto e lo spezzone di freccia rivolto verso l’interno della stanza.

    «Tenetelo fermo», ordinò il chirurgo, prendendo un bisturi di bronzo e studiando l’angolo di penetrazione del dardo. Fece un bel respiro e inserì la punta dello strumento nella carne dal lato opposto della coscia. Un fiotto di sangue rosso vivo fuoriuscì dalla ferita e colò lungo la pelle, ricadendo sul tavolo. Il centurione gemette di nuovo e cercò di muoversi, ma Catone lo tenne fermo mentre l’altro ausiliario faceva pressione sulle gambe. Sentì il corpo dell’amico tremare sotto di lui.

    «Se sta già perdendo del sangue, perché gli fai un’altra ferita?».

    Senza nemmeno alzare lo sguardo o fermarsi, il chirurgo rispose pacatamente: «Come ho già detto, la freccia è penetrata in profondità. Inoltre, sento ora che la punta è larga. È probabile che si tratti di una freccia da caccia. Se provassi a fare un’estrazione regressiva, cercando di toglierla dalla stessa direzione in cui è entrata, non farei altro che aumentare il danno e causare una perdita di sangue ancora maggiore. Il trucco è fare un’incisione dal lato opposto e tirare la freccia da quel foro». Sollevò la testa. «È molto più facile a dirsi che a farsi. Non mi meraviglia che Celso se ne lamentasse sempre. Immagino che tu non abbia letto i suoi lavori».

    «Ne ho sentito parlare».

    «Sentirne parlare e leggere ciò che ha scritto sono due cose ben diverse, signore», rispose Pausino sarcasticamente, continuando la sua incisione. «Il De Medicina è il testo di riferimento per i chirurgi militari. Celso tratta gran parte dei temi, ma è impossibile fare questo lavoro senza esperienza. Come diceva Ippocrate: Chi desidera praticare la chirurgia deve andare in guerra. E grazie alle prolungate campagne che abbiamo combattuto qui in Britannia, ho accumulato più esperienza di quanto non abbia mai fatto gran parte dei miei colleghi. Di sicuro più di alcuni». Fece un cenno all’inserviente. «Quindi potete stare sicuri che il centurione è in buone mani».

    Ritirò il bisturi e appoggiò lo strumento insanguinato sullo sgabello, prendendo poi una sonda. «Adesso viene la parte difficile».

    Con le dita della mano sinistra, allargò l’incisione e rivelò il muscolo nudo e rosso al di sotto della pelle. Il sangue fuoriuscì liberamente.

    «Bisogna tamponare. Inserviente, portami dell’aceto!».

    Il suo assistente si chinò, stappò una piccola fiaschetta e versò generosamente il liquido sulla ferita, ripulendo il sangue in eccesso tutto intorno, prima di inserirne un po’ direttamente nell’incisione. Macrone sobbalzò sotto le mani di Catone e gridò. «Merda! Fa… male…».

    E dopo un gemito, si afflosciò. Il cuore del prefetto smise di battere. «Cos’è successo?»

    «È svenuto, tutto qui. Non sono sorpreso, sai? Il centurione è un osso duro. Di solito svengono prima, per mancanza di sangue e per il trauma. Immagino che l’aceto sia stata l’ultima goccia per lui». Pausino aprì ancora di più l’incisione e ci infilò dentro la sonda. Serrando la mascella, mosse lo strumento e poi annuì. «Trovata. Metti un dilatatore sull’incisione e poi passami un estrattore».

    L’inserviente esitò e Pausino sibilò, frustrato. «Quello lì, con l’intaglio».

    Una volta preso lo strumento giusto, il chirurgo guardò Catone. «Adesso le cose si fanno interessanti. Credo che tu abbia una mano più ferma di questo imbecille». Accennò all’inserviente. «Ti dispiace scambiare i posti, signore? Ho bisogno di qualcuno che sotto pressione possa reggere».

    Catone deglutì. «Se posso aiutare…».

    Mollò la presa su Macrone e lasciò che l’aiutante prendesse il suo posto. Pausino diede il dilatatore al prefetto: due strumenti sottili con delle punte smussate a forma di uncino. «Ho bisogno che mi tieni i bordi dell’incisione aperti per rimuovere la punta della freccia. Non troppo, perché potrebbe fare del male al centurione, ma quanto basta per farmi vedere quello che sto facendo. Tutto chiaro?»

    «Credo di sì».

    Pausino lo scrutò per un momento e poi disse, con tono gentile: «Non è solo un compagno d’armi, vero? È qualcosa di più. Un amico?»

    «Il migliore», rispose Catone. «Lo conosco da quando sono entrato nell’esercito».

    «Comprendo. Allora devi capire una cosa. Se vogliamo il meglio per lui, non dobbiamo lasciarci impietosire dalla sua sofferenza. Dobbiamo fare tutto ciò che è necessario per salvargli la vita».

    «Lo capisco».

    «E allora mettiamoci al lavoro! Apri la ferita e intralciami il meno possibile, io penserò al resto». Quando vide che Catone esitava, accennò all’incisione. «Non si terrà aperta da sola, signore».

    «Va bene, dannazione». Il prefetto prese il dilatatore e infilò le punte uncinate dentro la carne appena tagliata, dilatando la pelle per esporre il muscolo color cremisi. Pausino sciacquò subito la ferita con dell’altro aceto.

    «Tieni le mani ferme, signore».

    Catone strinse la presa sullo strumento e irrigidì i muscoli mentre il chirurgo si spostò da un lato per far arrivare più luce sull’incisione. Fatto questo, vi rinfilò la sonda precedente e spostò i muscoli, cercando nuovamente la punta della freccia. Sapendo più o meno dove trovarla dopo il suo primo esame, fu una questione di attimi.

    «Eccoti, mia piccola amica. La vedi?».

    Scostò una sezione di muscolo fibroso e usò l’estrattore per indicare la punta di ferro.

    «Molto bello», rispose Catone, un po’ disgustato. «Cosa facciamo adesso, secondo Celso?».

    Pausino non rispose. Fece scorrere l’estrattore lungo la freccia, girandolo per far incastrare l’intaglio in fondo al pezzo di ferro, e diede uno strattone leggerissimo.

    «Maledizione…».

    «Che succede?»

    «Proprio come temevo. È una freccia da caccia. La punta è piatta e bordata da due barbigli. Se la tiro fuori così, farò più danni che altro. Non fa niente. Si vede che dovrò usare un altro strumento». Appoggiò l’estrattore accanto all’incisione e prese un paio di pinze delicate. Mentre si concentrava nuovamente sulla ferita, disse all’inserviente di tenere ben fermo il legno dall’altro lato della coscia.

    L’uomo eseguì e il chirurgo infilò le pinze nella carne, spostando il tessuto muscolare danneggiato per esporre il primo dei due barbigli. Serrando le pinze intorno al ferro affilato e ricurvo, lo tagliò il più vicino possibile

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