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Il cielo sopra l'inferno
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E-book1.444 pagine48 ore

Il cielo sopra l'inferno

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Info su questo ebook

Una storia di orrori tenuta nascosta per 70 anni

La drammatica storia vera di Ravensbrück, il campo di concentramento nazista per sole donne

Maggio 1939. Centinaia di donne – casalinghe, dottoresse, cantanti d’opera, politiche, prostitute –, provenienti da un carcere comune, raggiunsero prima in treno e poi su camion un luogo nascosto nei boschi a nord di Berlino. Attraversarono, poi, gli enormi cancelli di ferro tra gli insulti, le urla, i latrati dei cani e le percosse delle guardie. Erano le prime prigioniere di Ravensbrück, il nuovo campo di concentramento femminile “modello” ideato da Heinrich Himmler. In sei anni vi furono rinchiuse 130.000 donne, provenienti da più di venti Paesi in tutta Europa. Erano di diversa estrazione, nazionalità, credo politico; solo poche tra loro erano ebree: Ravensbrück serviva ai nazisti per eliminare tutti “gli esseri inferiori”. Zingare, esponenti della Resistenza, nemiche politiche vere o presunte, disabili, “pazze” dovettero sopportare privazioni, sevizie, malattie, lavori forzati, esperimenti “medici” ed esecuzioni sommarie. Negli ultimi mesi di guerra il lager divenne un campo di sterminio, perché era necessario far sparire in fretta “le prove” della sua reale funzione ed entro l’aprile del 1945 vi vennero trucidate tra le 30.000 e le 90.000 donne, molte con i loro bambini. Per anni, fino alla fine della Guerra Fredda, la verità su Ravensbrück è rimasta nascosta. Grazie a interviste esclusive e documenti inediti, Sarah Helm ci offre una vivida ricostruzione e una testimonianza indimenticabile di uno dei capitoli più tristi della nostra Storia.

Osannato dalla critica alla sua uscita in Germania e Inghilterra

All’orrore sono sopravvissute in poche, alla Storia tutte

«Questo libro merita attenzione, per le straordinarie interviste e per un’ulteriore analisi del nazismo e di coloro che ne furono vittime.» 
Publishers Weekly

«Ravensbrück dev’essere ricordato.»
The Economist

«Un racconto davvero coinvolgente.»
The Guardian

«Straordinario, potente, devastante, scioccante.»
The Independent

«Proprio quando si pensa di sapere tutto sui campi di concentramento, la Helm ci racconta la storia semisconosciuta di questo lager femminile.»
Kirkus Reviews
Sarah Helm
Già redattrice del «Sunday Times» e corrispondente estera dell’«Independent», attualmente collabora con diverse testate. È autrice della biografia A Life in Secrets: Vera Atkins and the Missing Agents of WWII e dell’opera teatrale Loyalty sulla guerra in Iraq. Vive a Londra con il marito e le figlie.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2015
ISBN9788854186569
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    Anteprima del libro

    Il cielo sopra l'inferno - Sarah Helm

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Dedica

    Esergo

    Cartina

    Pianta

    Prologo

    Parte prima

    1. Langefeld

    2. Sandgrube

    3. Le blockova

    4. La visita di Himmler

    5. Il dono di Stalin

    6. Else Krug

    7. Il dottor Sonntag

    8. Il dottor Mennecke

    9. Bernburg

    Parte seconda

    10. Lublino

    11. Auschwitz

    12. Il cucito

    13. Conigli

    14. Esperimenti speciali

    15. La guarigione

    Parte terza

    16. L’Armata Rossa

    17. Yevgenia Klemm

    18. Il dottor Treite

    19. Rompere il cerchio

    20. I trasporti neri

    Parte quarta

    21. Le vingt-sept mille

    22. Crollare

    23. Resistere

    24. Comunicare

    Parte quinta

    25. Parigi e Varsavia

    26. Kinderzimmer

    27. La protesta

    28. Tentativi di avvicinamento

    29. La dottoressa Loulou

    Parte sesta

    30. Le ungheresi

    31. Una festa per bambini

    32. La marcia della morte

    33. Il Campo Giovanile

    34. La copertura

    35. Königsberg

    36. Bernadotte

    37. Émilie

    38. Nelly

    39. Masur

    40. Gli Autobus Bianchi

    41. La liberazione

    Epilogo

    Appendici

    Ringraziamenti

    Tavole fuori testo

    es

    338

    Titolo originale: If This Is A Woman

    © Sarah Helm 2015

    The moral right of the author has been asserted.

    All rights reserved.

    First published in Great Britain in 2015 by Little, Brown, an imprint of Little, Brown Book Group

    Traduzione dall'inglese di Francesca Prencipe

    Prima edizione ebook: ottobre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8656-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Sarah Helm

    Il cielo sopra l'inferno

    La drammatica storia vera di Ravensbrück, il campo di concentramento nazista per sole donne

    omino

    Newton Compton editori

    A coloro che si sono rifiutati

    Considerate se questa è una donna,

    senza capelli e senza nome,

    senza più forza di ricordare

    vuoti gli occhi e freddo il grembo

    come una rana d’inverno.

    Meditate che questo è stato:

    vi comando queste parole.

    Primo Levi, da Se questo è un uomo

    cartina

    Mappa dei campi di concentramento e dei sottocampi nazisti con le principali vie seguite per il trasporto e la liberazione delle prigioniere di Ravensbrück.

    pianta

    * Il bagno penale nazista di Ravensbrück. Pianta sottratta alla Gestapo

    Una pianta di Ravensbrück dell’artista francese France Audoul, che fu una delle "vingt-sept mille", il più numeroso gruppo di prigioniere francesi, arrivato al campo il 3 febbraio 1944.

    Il disegno mostra il complesso principale ai confini con il lago, con il cancello, l’edificio per le docce e la cucina, e l’Appelplatz. Sono inoltre visibili la camera a gas (gaz) e il crematorio. Contro il muro sud c’è il giardino delle ss; al di là di esso ci sono il Siemenslager e i magazzini in cui i beni sottratti alle prigioniere (marchandises volées) venivano ordinati e custoditi. È chiaramente indicato anche il Camp d’Extermination di Uckermark, così come le postazioni delle mitragliatrici a nord. Sulla sponda del lago ci sono i resti di un piccolo forte (fortin) e il marais, la riva sabbiosa.

    Tratto da Ravensbrück: 150.000 femmes en enfer. 32 croquis et portraits faits au camp 1944-1945, 22 compositions et textes manuscrits de France Audoul.

    Prologo

    Dall’aeroporto di Tegel a Berlino, ci vuole poco più di un’ora per raggiungere Ravensbrück. La prima volta che ci andai in macchina, nel febbraio del 2006, la neve cadeva fitta e un camion aveva ribaltato il carico sul raccordo anulare di Berlino, quindi ci misi di più.

    Heinrich Himmler andava spesso a Ravensbrück, anche quando c’era un tempo atroce come quello. Il capo delle ss aveva degli amici nella zona e passava sempre a ispezionare il campo di concentramento. Raramente se ne andava senza lasciare dei nuovi ordini. Una volta, ordinò che venissero aggiunti più tuberi nella minestra dei prigionieri. In un’altra occasione dichiarò che le eliminazioni non procedevano abbastanza in fretta.

    Quello di Ravensbrück era l’unico campo di concentramento solo per donne. Prendeva il nome dal piccolo villaggio non lontano dalla città di Fürstenberg, a circa cinquanta miglia a nord di Berlino, lungo la strada per Rostock sulla costa baltica della Germania. Le donne che ci arrivavano di notte a volte pensavano di essere vicine alla costa, perché sentivano l’odore della salsedine nel vento, e la sabbia sotto i piedi. Quando veniva il giorno, vedevano che il campo era stato costruito sulle rive di un lago, circondato dai boschi. A Himmler piaceva che i campi di concentramento fossero costruiti in mezzo alla natura, preferibilmente in luoghi nascosti. Oggi, il campo è ancora nascosto alla vista; e gli orribili crimini che vi sono stati perpetrati, nonché il coraggio delle vittime, restano in gran parte sconosciuti.

    Ravensbrück aprì a maggio del 1939, circa quattro mesi prima dell’inizio della guerra, e fu trovato dai russi sei anni dopo, tra gli ultimi campi di concentramento raggiunti dagli Alleati. Nel suo primo anno ospitò meno di 2000 prigioniere, quasi tutte tedesche. Molte di loro erano state arrestate perché si opponevano a Hitler, per esempio perché di idee comuniste, o perché Testimoni di Geova, che consideravano Hitler l’Anticristo. Altre erano state deportate lì solo perché i nazisti le consideravano esseri inferiori e le volevano estirpare dalla società: prostitute, criminali, indigenti o zingare. Più tardi, nel campo arrivarono migliaia di donne arrestate nelle nazioni occupate dai nazisti, molte delle quali avevano militato nella resistenza. Anche delle bambine furono portate lì. Una piccola parte delle prigioniere, circa il 10%, era di religione ebraica, ma il campo non fu mai ufficialmente pensato per gli ebrei.

    Nel suo picco massimo di attività, il campo ospitò 45.000 donne; negli oltre sei anni della sua esistenza, circa 130.000 donne superarono i suoi cancelli, e vennero picchiate, affamate, costrette a lavorare fino alla morte, avvelenate e uccise con il gas. Si stima che le vittime siano state tra 30.000 e 90.000; probabilmente i numeri reali stanno nel mezzo, ma i documenti delle ss al riguardo sono così pochi che nessuno probabilmente lo saprà mai per certo. La distruzione sistematica delle prove di Ravensbrück è un’altra delle ragioni per cui la storia di questo campo è rimasta nell’ombra per così tanto tempo. Nel periodo finale, le schede di ogni prigioniera furono bruciate nei forni crematori o nelle pire insieme ai cadaveri. Le ceneri furono gettate nel lago.

    Seppi per la prima volta di Ravensbrück scrivendo un libro su Vera Atkins, che in tempo di guerra era ufficiale dell’Esecutivo Operazioni Speciali dei servizi segreti britannici. Subito dopo la guerra, Vera cominciò da sola una ricerca delle donne dell’Esecutivo Operazioni Speciali paracadutate nella Francia occupata per dare una mano alla resistenza, molte delle quali erano disperse. Seguendo le loro tracce, scoprì che molte di loro erano state catturate e condotte nei campi di concentramento.

    Cercai di ricostruire la sua ricerca, partendo dai suoi documenti personali, conservati in scatoloni di cartone e tenuti dalla cognata Phoebe Atkins nella sua casa in Cornovaglia. Su uno degli scatoloni c’era scritto Ravensbrück. All’interno c’erano pagine scritte a mano con appunti tratti dagli interrogatori delle ss ai sopravvissuti e ai sospetti: alcune delle prime prove raccolte riguardo all’esistenza del campo. Lessi qualcosa di quegli appunti. «Ci fecero spogliare nude e ci rasarono a zero», aveva raccontato una donna a Vera. E c’era «una colonna di soffocante fumo bluastro».

    Una sopravvissuta parlava di un ospedale del campo in cui «i germi della sifilide venivano iniettati nella spina dorsale». Un’altra descriveva di aver visto donne provenienti da Auschwitz arrivare al campo dopo una «marcia mortale» attraverso la neve. Uno degli agenti dell’Esecutivo Operazioni Speciali, imprigionato a Dachau, scrisse una nota dicendo di aver sentito che le donne di Ravensbrück erano costrette a lavorare in un bordello di Dachau.

    Diverse delle intervistate menzionavano una guardia, una giovane donna di nome Binz, che aveva «i capelli chiari, a caschetto». Un’altra guardia un tempo aveva fatto la balia a Wimbledon. Tra le prigioniere c’era «la crema delle donne europee», secondo uno degli investigatori inglesi; tra loro si contavano la nipote del generale de Gaulle, un’ex campionessa di golf inglese e alcune contesse polacche.

    Iniziai a controllare le date di nascita e gli indirizzi indicati, in caso qualcuna delle sopravvissute, o anche delle guardie, fosse ancora viva. Alcune avevano dato a Vera l’indirizzo di una certa Mrs Chatenay, «che sa della sterilizzazione dei bambini nel blocco ii». Una dottoressa di nome Louise Le Porz aveva rilasciato una dichiarazione molto dettagliata, affermando che il campo era stato costruito su un terreno di proprietà di Himmler e che il suo Schloss (castello) privato era nelle vicinanze. Il suo indirizzo era a Mérignac, nella Gironda, ma dalla data di nascita doveva essere probabilmente già deceduta. Una donna di Guernsey di nome Julia Barry viveva a Nettlebed, nell’Oxfordshire. Altri indirizzi erano troppo vaghi. Si pensava che una sopravvissuta russa lavorasse «in una casa per ragazze madri alla stazione di Leningrado».

    In fondo allo scatolone trovai delle liste di prigioniere scritte a mano, rubate da una donna polacca che aveva anche scritto appunti sul campo e disegnato schizzi e mappe. «I polacchi avevano tutte le informazioni migliori», affermava la nota. Scoprii che la donna che aveva scritto la lista era morta da tempo, ma alcuni degli indirizzi indicati nella lista erano a Londra, e le sopravvissute erano ancora in vita.

    Portai con me gli schizzi, nel mio primo viaggio a Ravensbrück, sperando che mi avrebbero aiutato a orientarmi, una volta lì. Ma quando la neve iniziò a cadere sempre più fitta, cominciai a chiedermi se avrei mai raggiunto il campo.

    Molti avevano provato a raggiungere Ravensbrück senza riuscirci. Ufficiali della Croce Rossa che avevano tentato di arrivarci nel caos degli ultimi giorni della guerra avevano dovuto rinunciare, tale era il flusso costante di rifugiati che venivano dalla direzione opposta. Pochi mesi dopo la fine della guerra, quando Vera Atkins si avventurò in quella direzione per cominciare le sue indagini, fu fermata a un posto di blocco dei russi; il campo era nella zona da loro occupata, e l’accesso agli altri Alleati era vietato. A quel punto, la ricerca delle donne disperse cominciata da Vera era diventata parte di un’indagine britannica ben più vasta riguardante il campo, che risultò nei primi processi per crimini di guerra perpetrati a Ravensbrück, iniziati ad Amburgo nel 1946.

    Negli anni ’50, con l’inizio della Guerra Fredda, Ravensbrück finì dietro alla Cortina di Ferro, che divise le sopravvissute tra est e ovest e spezzò in due la storia del campo.

    Senza che l’Occidente ne sapesse nulla, il luogo divenne un tempio delle eroine comuniste del campo, e strade e scuole di tutta la Germania Est furono battezzate con il suo nome.

    Nel frattempo, in Occidente Ravensbrück era del tutto sparito. Le sopravvissute che vivevano nell’ovest, gli storici e i giornalisti faticavano a farsi ascoltare e a far pubblicare le loro testimonianze. Era difficilissimo ottenere delle prove. Le trascrizioni dei processi di Amburgo furono classificate come segrete e tenute nascoste al pubblico per trent’anni.

    «Dov’era?», era una delle domande più frequenti a cui mi trovai a rispondere quando cominciai a scrivere di Ravensbrück, insieme a: «Perché c’era un campo di concentramento solo per le donne? Erano ebree? Era un campo di sterminio? Era un campo di lavoro? Ci sono delle sopravvissute?».

    Nelle nazioni che hanno perso un gran numero di persone nel campo di Ravensbrück, i sopravvissuti hanno tentato di tenere vivo il ricordo. Si stima che vi siano state imprigionate circa 8000 francesi, 1000 olandesi, 18.000 russe e 40.000 polacche. Tuttavia, per diversi motivi, in ognuno di questi Paesi la storia è stata taciuta.

    In Gran Bretagna, che non contava più di 20 prigioniere nel campo, l’ignoranza in merito è sconvolgente, come negli Stati Uniti. Gli inglesi sanno di Dachau, il primo campo di concentramento, e forse di Belsen, perché le truppe britanniche lo liberarono e l’orrore che vi trovarono, impresso sulla pellicola, segnò per sempre la coscienza del Paese. Altrimenti, soltanto Auschwitz, divenuto sinonimo dello sterminio degli ebrei, ha una vera risonanza.

    Dopo aver letto gli appunti di Vera, mi guardai intorno per scoprire cosa fosse stato scritto sul campo di concentramento femminile. Gli storici più noti, all’incirca tutti uomini, non avevano quasi niente da dire in merito. Perfino i libri scritti sui campi di sterminio dalla fine della Guerra Fredda sembravano descrivere un mondo totalmente maschile. Poi un amico che lavorava a Berlino mi passò una cospicua raccolta di saggi, perlopiù scritti da studiose tedesche. Negli anni ’90, le storiche femministe avevano iniziato a controbattere. Questo libro che mi era stato fornito prometteva di «liberare le donne dall’anonimato che si nasconde nella parola prigioniero». Una miriade di ulteriori studi venne pubblicata in seguito, mentre altri autori, di solito tedeschi, avevano preso delle sezioni di Ravensbrück e le avevano esaminate scientificamente, cosa che finì per distorcere i fatti. Notai che si menzionava un Libro della Memoria, che sembrava molto più interessante, e cercai di contattarne l’autore.

    Trovai anche alcuni diari di prigioniere, datati tra gli anni ’50 e ’60, nascosti negli scaffali meno accessibili delle biblioteche pubbliche, spesso con copertine esagerate. La copertina di un’insegnante di letteratura francese, Micheline Maurel, mostrava una formosa emula di una Bond-girl dietro al filo spinato. Un libro su Irma Grese, una delle prime guardie di Ravensbrück, era intitolato La bellissima bestia. Il linguaggio di quei diari sembrava datato e, inizialmente, perfino irreale. Un’autrice parlava di «lesbiche con volti brutali», e un’altra della «bestialità» delle prigioniere tedesche che «pensavano solo ad ammucchiare cibo, come virtù fondamentale della razza». Quei testi disorientavano e confondevano; era come se nessuno sapesse come raccontare la storia. Nella prefazione di un diario, lo scrittore francese François Mauriac diceva che Ravensbrück era «un abominio che il mondo aveva deciso di dimenticare». Forse avrei dovuto scrivere di qualcosa d’altro. Andai a trovare Yvonne Baseden, l’unica sopravvissuta che al tempo sapevo fosse ancora in vita, per ascoltare il suo punto di vista.

    Yvonne era una delle donne dell’Esecutivo Operazioni Speciali di Vera Atkins, catturata mentre aiutava la resistenza francese e poi inviata a Ravensbrück. Yvonne aveva sempre parlato senza problemi del suo lavoro nella resistenza, ma ogni volta che avevo tirato fuori l’argomento di Ravensbrück, aveva sempre risposto di «non sapere niente», chiudendo così il discorso.

    Quella volta le spiegai che volevo scrivere un libro sul campo, sperando di sentirmi dire qualcosa di più, ma lei mi guardò con orrore.

    «Oh, no», esclamò. «Non può farlo».

    Le chiesi perché. «È una cosa troppo orribile. Non potrebbe scrivere qualcos’altro? Cosa dirà che sta facendo ai suoi figli?», domandò lei in risposta.

    Riteneva che quella storia non dovesse essere raccontata? «Oh, no. Nessuno sa niente di Ravensbrück. Nessuno ha mai voluto saperne nulla, dal momento in cui siamo tornate». E guardò fuori dalla finestra.

    Quando mi congedai, mi diede un piccolo libro. Era un altro diario, con una sovraccoperta particolarmente mostruosa su cui spiccavano figure contorte in bianco e nero. Yvonne mi disse di non averlo letto, mentre me lo spingeva in mano. Era come se volesse levarselo dalla vista.

    Quando tornai a casa, la sinistra sovraccoperta scivolò via dalla copertina rigida, che si rivelò di un semplice blu. Lo lessi tutto d’un fiato. L’autrice era una giovane avvocatessa francese di nome Denise Dufournier, e aveva scritto un semplice e commovente racconto di resistenza a ogni costo. L’abominio non era l’unica parte della storia di Ravensbrück a essere stata dimenticata; era accaduto lo stesso anche con la lotta per la sopravvivenza.

    Qualche giorno dopo, una voce francese si fece sentire nella mia segreteria telefonica. Era la dottoressa Louise Le Porz (ora Liard), la sopravvissuta di Mérignac che credevo morta. Invece mi invitava da lei a Bordeaux, dove adesso viveva. Potevo stare quanto tempo avessi desiderato, perché c’era molto di cui parlare. «Ma sarà meglio che si sbrighi. Ho novantatré anni».

    Poco dopo, riuscii a mettermi in contatto con Bärbel Schindler-Saefkow, l’autrice del Libro della Memoria. Bärbel, figlia di una prigioniera comunista tedesca, stava compilando un database delle prigioniere; aveva viaggiato molto, raccogliendo liste di nomi nascoste in archivi sconosciuti. Mi inviò l’indirizzo di Valentina Makarova, una partigiana bielorussa sopravvissuta alla marcia della morte di Auschwitz. Valentina mi rispose, invitandomi a raggiungerla a Minsk.

    Quando raggiunsi la periferia di Berlino, la neve stava smettendo di cadere. Oltrepassai un segnale per Sachsenhausen, luogo del campo di concentramento maschile, il che significava che stavo andando nella direzione giusta. Sachsenhausen e Ravensbrück erano molto vicini. Nel campo degli uomini veniva perfino fatto il pane per le donne; i filoni venivano portati ogni giorno con i camion lungo quella stessa strada. Inizialmente, ogni donna riceveva mezzo filone di pane ogni sera. Ma alla fine della guerra ne ricevevano appena una fetta, e le bocche inutili, come i nazisti chiamavano coloro di cui volevano liberarsi, non ne ricevevano affatto.

    Gli ufficiali delle ss, le guardie e i prigionieri spesso venivano spostati tra i campi, mentre gli amministratori di Himmler cercavano di massimizzare le risorse. All’inizio della guerra, una sezione femminile era stata aperta ad Auschwitz, e più tardi accadde anche in altri campi maschili, e Ravensbrück forniva e addestrava le guardie donne. Più avanti nella guerra, diversi veterani delle ss che lavoravano ad Auschwitz furono trasferiti a Ravensbrück. Anche le prigioniere furono spostate spesso tra i due campi. Così, sebbene Ravensbrück avesse un distintivo carattere femminile, condivideva una cultura comune con i campi maschili.

    L’impero delle ss di Himmler era vasto: a metà della guerra c’erano almeno 15.000 campi nazisti, che includevano campi di lavoro temporanei e migliaia di campi secondari, collegati ai principali campi di concentramento, sparsi in tutta la Germania e la Polonia. I più grandi e mostruosi furono quelli costruiti nel 1942, secondo i termini della Soluzione Finale. Alla fine della guerra, si stimò che sei milioni di ebrei fossero stati sterminati. I fatti di questo genocidio sono oggi così conosciuti e terrificanti che molta gente suppone che il programma di sterminio di Hitler consistesse unicamente nell’Olocausto degli ebrei.

    Chi chiede di Ravensbrück spesso si sorprende a scoprire che la maggioranza delle donne che vi furono uccise non era di religione ebraica.

    Oggi gli storici differenziano i vari campi, ma queste etichette possono confondere. Ravensbrück è spesso descritto come un campo di lavoro, termine che diminuisce l’orrore di ciò che vi è accaduto, e potrebbe anche aver contribuito alla sua marginalizzazione. Di sicuro era un importante centro di lavori forzati ­– la Siemens, gigante dell’elettronica, aveva una fabbrica lì – ma i lavori forzati erano solo un passo verso la morte. Le prigioniere, al tempo, chiamavano Ravensbrück un campo di sterminio. La sopravvissuta ed etnologa francese Germaine Tillion lo definì un luogo di lento sterminio.

    Lasciando Berlino, la strada che conduceva verso nord tagliava in mezzo ai campi coperti di neve, prima di infilarsi tra gli alberi. Di tanto in tanto oltrepassavo fattorie collettive abbandonate, resti dell’epoca comunista.

    Nel mezzo della foresta, la neve si era accumulata e diventava difficile distinguere la strada. Le donne di Ravensbrück venivano spesso mandate fuori con la neve a tagliare alberi nei boschi. La neve si incollava ai loro zoccoli di legno, al punto da farle camminare su piattaforme di ghiaccio, con le caviglie che si piegavano a ogni passo. Pastori tedeschi tenuti al guinzaglio dalle guardie le attaccavano se cadevano a terra.

    I nomi dei villaggi in mezzo al bosco cominciarono a suonarmi familiari per le testimonianze che avevo letto. Altglobsow era il paese da cui veniva la guardia con i capelli biondi a caschetto, Dorothea Binz. Poi mi fu visibile il campanile della chiesa di Fürstenberg. Dal centro della cittadina, il campo era quasi invisibile, ma sapevo che si trovava lì, dall’altra parte del lago. Oltrepassai la stazione di Fürstenberg, capolinea di tanti orribili viaggi in treno. Le donne dell’Armata Rossa arrivarono dalla Crimea una notte di febbraio, stipate nei vagoni per il bestiame.

    Dall’altra parte di Fürstenberg, una stradina lastricata costruita dalle prigioniere conduceva al campo. A sinistra comparvero delle case dai tetti a punta; dalla mappa di Vera, sapevo che si trattava degli alloggi delle guardie. Una di esse era diventata un ostello della gioventù, dove avrei passato la notte. L’arredamento originario era sparito da tempo, sostituito da mobilia moderna nuovissima, ma i precedenti occupanti ancora infestavano le loro vecchie stanze.

    Il lago si apriva alla mia destra, enorme e di un bianco ghiacciato. Più avanti c’erano il quartier generale del comandante e un alto muro. Qualche minuto più tardi, ero davanti all’entrata del complesso. Di fronte a me si trovava un’altra vasta distesa bianca, punteggiata d’alberi. Alberi di tiglio, scoprii dopo, piantati all’epoca della costruzione del campo. Tutte le strutture un tempo sotto gli alberi erano scomparse. Nel corso della Guerra Fredda, i russi avevano usato il campo come base per una squadriglia di carri armati, eliminando gran parte degli edifici. I soldati russi giocavano a calcio su quella che un tempo era stata la Appellplatz del campo, dove le prigioniere venivano radunate per l’appello. Avevo sentito parlare della base russa, ma non mi ero aspettata una simile distruzione.

    Il campo della Siemens, a qualche centinaio di metri dal muro a sud, era stato assalito dalla vegetazione ed era ormai difficile da raggiungere, così come l’edificio adiacente, chiamato Campo Giovanile, dove erano state effettuate molte uccisioni. Avrei dovuto usare l’immaginazione, per ricostruire mentalmente quelle strutture, ma non avevo bisogno di immaginare il freddo. Le prigioniere venivano radunate nella piazza centrale del campo per ore, vestite di cotone. Cercai rifugio nel bunker, la prigione di pietra del campo, le cui celle, durante la Guerra Fredda, erano state trasformate in monumenti alla memoria delle prigioniere comuniste morte lì dentro. Liste di nomi erano iscritte su lastre di lucido granito nero.

    In una delle celle, degli operai stavano spostando le lapidi, ridipingendo i muri. Ora che l’Occidente era tornato in possesso di quei territori, storici e archivisti stavano lavorando su nuovi racconti e nuovi monumenti alla memoria.

    All’esterno delle mura del campo, trovai altri monumenti alla memoria, più intimi. Vicino ai forni crematori c’era un lungo corridoio buio dalle pareti alte, noto come vicolo del tiro a segno. Lì era stato posato un piccolo mazzo di rose; sarebbero morte, se non fossero state congelate. C’era un biglietto con un nome.

    Nella sala dei forni crematori c’erano tre piccoli mazzi di fiori, sopra ai forni stessi, e qualche rosa era stata sparsa sulle rive del lago. Da quando il campo era tornato accessibile, le ex prigioniere venivano a ricordare le compagne morte. Dovevo trovare altre sopravvissute, finché ero ancora in tempo.

    Ora sapevo cosa avrebbe dovuto essere il mio libro: una storia di Ravensbrück, dall’inizio alla fine, rimettendo insieme i pezzi sparsi meglio che potevo. Il libro avrebbe cercato di gettare una luce sui crimini dei nazisti contro le donne, mostrando, al tempo stesso, come la comprensione di quello che era accaduto nel campo di concentramento femminile potesse far comprendere meglio la storia del nazismo.

    Molte delle prove erano state distrutte, molte testimonianze erano state dimenticate o distorte. Ma molto era anche sopravvissuto, e nuove prove venivano fuori ogni giorno. Le trascrizioni dei processi inglesi erano state rese pubbliche molto tempo prima e contenevano numerosi dettagli; documenti relativi ai processi tenutisi dietro la Cortina di Ferro stavano cominciando a loro volta a riaffiorare. Dalla fine della Guerra Fredda, i russi avevano parzialmente reso pubblici gli archivi, e testimonianze mai esaminate stavano venendo alla luce in diverse capitali europee. Sopravvissute dell’est e dell’ovest iniziavano a condividere i ricordi. I figli delle prigioniere facevano domande, nel ritrovare lettere e diari nascosti.

    Fondamentali, per questo libro, sarebbero state le voci stesse delle prigioniere; sarebbero state la mia guida per scoprire quanto fosse realmente successo. Qualche mese dopo, in primavera, tornai per la cerimonia annuale della liberazione e conobbi Valentina Makarova, la sopravvissuta alla marcia della morte partita da Auschwitz che mi aveva scritto da Minsk. Aveva i capelli bianchi e un viso dai lineamenti affilati come la selce. Quando le domandai come fosse riuscita a sopravvivere, mi rispose: «Perché credevamo nella vittoria», come se fosse qualcosa che avrei dovuto già sapere.

    Il sole uscì brevemente dalle nuvole, mentre ero nelle vicinanze del vicolo del tiro a segno. I piccioni tubavano sulla cima dei tigli, facendosi sentire al di sopra dei rumori del traffico. Un pullman con degli studenti francesi si era parcheggiato nelle vicinanze, e ora quelli si aggiravano nei dintorni fumando sigarette.

    Quanto a me, stavo guardando al di là del lago ghiacciato, verso il campanile della chiesa di Fürstenberg. In lontananza, degli operai si affaccendavano intorno a un molo per le barche; i turisti se ne vanno in barca sul lago, durante l’estate, ignari delle ceneri sul suo fondo. Il vento faceva scivolare una rosa rossa sul ghiaccio.

    Parte prima

    n.b. Le note a piè di pagina sono esplicative, in fondo al volume sono invece raccolte le note che si riferiscono alla bibliografia e alle fonti. (n.d.r.)

    1. Langefeld

    «L’anno è il 1957¹. Qualcuno suona alla porta del mio appartamento», scrive Grete Buber-Neumann, ex prigioniera di Ravensbrück. «Apro la porta. Mi ritrovo davanti un’anziana donna dal respiro affannoso e con dei denti mancanti nell’arcata inferiore. La sento balbettare: Non mi riconosci? Sono Johanna Langefeld, la capoguardia di Ravensbrück. L’ultima volta che l’ho vista è stato quattordici anni fa, nel suo ufficio, nel campo. Lavoravo come segretaria per lei, quando ero prigioniera lì… Pregava Dio di darle la forza di fermare quell’orrore, ma se una donna ebrea entrava nel suo ufficio, il suo volto si riempiva d’odio…

    Dunque si siede al tavolo con me. Mi dice che avrebbe preferito nascere uomo. Parla di Himmler, che a volte chiama ancora Reichsführer. Parla per molte ore, perdendosi nei vari anni, e cercando di spiegare il suo comportamento».

    All’inizio di maggio del 1939, un piccolo convoglio di camion uscì dagli alberi per raggiungere la radura vicina al piccolo villaggio di Ravensbrück, nel folto dei boschi del Meclemburgo. I camion oltrepassarono un lago, dove le ruote iniziarono a slittare e ad affondare nella sabbia bagnata. Qualcuno scese a liberare i veicoli mentre altri scaricavano delle casse.

    Una donna in uniforme, vestita di gonna e giacca grigie, saltò giù con gli altri. I piedi le affondarono nella sabbia, ma li tirò fuori, risalendo leggermente l’argine e guardandosi intorno. Degli alberi caduti erano distesi vicino al lago scintillante. L’aria sapeva di segatura di legno. Faceva caldo, e non c’erano luoghi all’ombra. Alla sua destra, sull’altra sponda del lago, si trovava la piccola città di Fürstenberg. Case di pescatori erano sparse sulla riva. Si vedeva il campanile della chiesa.

    Dall’altra parte del lago, alla sua sinistra, si ergeva un ampio muro grigio, alto circa cinque metri. Il sentiero che attraversava il bosco conduceva ai torreggianti cancelli di ferro a sinistra della struttura. C’erano dei cartelli che avvertivano Vietato l’accesso ai non autorizzati². La donna, robusta, di altezza media, con i capelli castani e ondulati, avanzò con decisione verso i cancelli.

    Johanna Langefeld era arrivata lì con un piccolo gruppo di guardie e prigioniere per portare a destinazione dell’equipaggiamento e dare un’occhiata al nuovo campo di concentramento femminile; il campo doveva aprire entro pochi giorni, e la Langefeld ne sarebbe stata la Oberaufseherin, la capoguardia. Era stata in diverse carceri femminili, fino a quel momento, ma mai in un luogo simile.

    Negli ultimi anni, aveva lavorato come guardia di alto livello a Lichtenburg, una fortezza medievale nei pressi di Torgau, sull’Elba. Convertito in temporaneo campo di concentramento per donne mentre Ravensbrück veniva costruito, aveva stanze e umidi sotterranei troppo affollati e insalubri; non era il luogo adatto per le prigioniere. Ravensbrück era nuovo e costruito appositamente per quello scopo. Il complesso si estendeva su quasi sei acri di terreno, grandi abbastanza per ospitare le prime 1000 donne che ci si aspettava avrebbe contenuto, senza problemi di spazio.

    La Langefeld oltrepassò i cancelli di ferro e avanzò lungo la sabbiosa Appellplatz, la piazza principale del campo. Grande quanto un campo di calcio, era ampia abbastanza da contenere tutte le prigioniere insieme. Degli altoparlanti erano appesi ad alcuni pali, sopra di lei, sebbene al momento gli unici rumori nei dintorni fossero quelli di chiodi che venivano piantati. Le mura bloccavano ogni altra cosa all’esterno, tranne il cielo.

    Al contrario dei campi maschili, Ravensbrück non aveva torri di guardia lungo le mura, né torrette difensive. C’era tuttavia una rete elettrificata all’interno, intorno al perimetro delle mura, e cartelli con teschio e tibie incrociate che avvertivano dell’alto voltaggio. Solo oltre le mura a sud, alla destra della Langefeld, il terreno si sollevava abbastanza da permettere di vedere le cime degli alberi sulla sommità di una collina.

    Lunghi e pesanti blocchi di edifici grigi dominavano il complesso. Erano di legno, sistemati a griglia, con un solo piano e finestre molto piccole, asserragliati intorno alla piazza del campo. Due file di edifici identici, anche se in qualche modo più grandi, si trovavano ai lati della Lagerstrasse, la strada principale del campo.

    La donna ispezionò gli edifici uno a uno. Subito dopo i cancelli, il primo a sinistra era la mensa delle ss, al cui interno c’erano tavoli e sedie puliti di fresco. Sempre a sinistra della Appellplatz si trovava il Revier del campo, un termine militare tedesco che stava a indicare l’infermeria. Dall’altra parte della piazza, entrò nei bagni, con dozzine di docce. Degli scatoloni pieni di vestiti di cotone a righe erano stati ammucchiati da un lato, e delle donne sedute a un tavolo stavano tirando fuori mucchi di triangoli di feltro colorato.

    Accanto ai bagni, sotto lo stesso tetto, c’era la cucina del campo, piena di scintillanti, enormi pentole nuove in acciaio. L’edificio successivo era il magazzino dei vestiti delle prigioniere, o Effektenkammer, dove grosse buste di carta marrone erano state ammucchiate su un tavolo, e poi c’era la Wäscherei, la lavanderia, con sei lavatrici, anche se la Langefeld avrebbe preferito ce ne fossero di più.

    Lì accanto stavano costruendo una voliera. Heinrich Himmler, capo delle ss, che gestiva i campi di concentramento e molto altro nella Germania nazista, voleva che i campi fossero il più possibile autosufficienti. Ci sarebbero dovuti essere anche una conigliera, un pollaio e un orto, e inoltre un frutteto e un giardino. Cespugli di uva spina, portati lì dai giardini di Lichtenburg con i camion, erano già stati trapiantati nei dintorni. Anche il contenuto delle latrine di Lichtenburg era stato trasportato lì, per essere usato come fertilizzante. Himmler voleva inoltre che i suoi campi producessero risorse. Poiché Ravensbrück non aveva forni per cuocere il pane, quello sarebbe arrivato ogni giorno da Sachsenhausen, il campo maschile che si trovava cinquanta miglia a sud di lì.

    La Oberaufseherin percorse la Lagerstrasse, che iniziava dalla parte opposta della Appellplatz e conduceva sul retro del campo. Gli alloggi erano stati sistemati ai lati della Lagerstrasse con geometria perfetta, in modo che le finestre di un edificio dessero sulla parete posteriore del successivo. Le prigioniere sarebbero vissute lì, e c’erano otto strutture per ogni lato della strada. Cespugli di salvia dai fiori rossi erano stati piantati all’esterno del primo edificio, file di piccoli tigli negli spazi tra gli altri.

    Come in tutti i campi di concentramento, la struttura a griglia veniva utilizzata anche a Ravensbrück soprattutto per assicurarsi che le prigioniere fossero sempre a vista, necessitando di un minor numero di guardie³. A quel campo erano stati assegnati un gruppo di cinquantacinque guardie di sesso femminile e quaranta soldati delle ss, tutti sotto il comando dello Hauptsturmführer Max Koegel.

    Johanna Langefeld pensava di poter gestire un campo di concentramento femminile meglio di qualsiasi uomo, e sicuramente meglio di Max Koegel, di cui disprezzava i metodi. Himmler, comunque, aveva stabilito che Ravensbrück dovesse essere gestito, in generale, secondo le stesse linee generali dei campi maschili, il che significava che la Langefeld e le sue guardie avrebbero dovuto rispondere a un comandante delle ss.

    Sulla carta, né lei, né le altre guardie avevano un ruolo ufficiale. Le donne non erano soltanto subordinate agli uomini, ma non avevano neanche dei gradi specifici, ed erano semplicemente considerate ausiliarie delle ss. Per la maggior parte erano disarmate, anche se alcune di quelle che dovevano controllare i gruppi di prigioniere che lavoravano all’esterno avevano una pistola, e molte avevano dei cani. Himmler riteneva che le donne avessero più paura dei cani, rispetto agli uomini.

    In ogni caso, l’autorità di Koegel non sarebbe stata assoluta, lì dentro. Era soltanto il comandante designato, per il momento, e gli erano stati interdetti certi poteri. Per esempio, non ci sarebbe stata una prigione, o bunker in cui rinchiudere le prigioniere che creavano problemi, come succedeva nei campi maschili. Né avrebbe avuto l’autorità di ordinare punizioni corporali ufficiali. Offeso per quelle omissioni, l’uomo aveva scritto ai suoi superiori delle ss per ottenere l’autorità di punire le prigioniere, ma la richiesta era stata negata.

    La Langefeld, comunque, che credeva più nell’addestramento e nella disciplina che nelle punizioni corporali, era soddisfatta delle decisioni prese, soprattutto perché aveva ottenuto notevoli concessioni riguardo alla gestione quotidiana del campo. Era stato scritto nel Lagerordnung, il libro delle regole generali del campo, che la capoguardia avrebbe consigliato lo Schutzhaftlagerführer (vicecomandante) riguardo alle questioni femminili⁴, anche se queste ultime non erano state ulteriormente definite.

    Entrando in uno degli alloggi, la Langefeld si guardò intorno. Come tante altre cose, in quel luogo, anche quelli le erano nuovi; invece di celle condivise, o dormitori, come aveva sempre visto, più di 150 donne avrebbero dormito in ogni edificio. All’interno erano tutti uguali, con due grandi dormitori, A e B, ai due lati dell’area dei bagni, con una fila di dodici lavandini e dodici gabinetti, oltre a una sala comune dove avrebbero mangiato.

    I dormitori erano fitti di letti a castello a tre piani, fatti di assi di legno. Ogni prigioniera aveva un materasso imbottito di segatura e un cuscino, oltre a una coperta e a un lenzuolo a scacchi blu e bianchi ripiegati ai piedi di ogni branda.

    Il valore dell’addestramento e della disciplina le era stato insegnato fin dai primi anni. Figlia di un fabbro, era nata Johanna May, nella città di Kupferdreh, nella Ruhr, nel marzo del 1900. Lei e la sorella maggiore erano cresciute nella fede luterana; i genitori avevano instillato in entrambe l’importanza della parsimonia, dell’obbedienza e delle preghiere. Come ogni brava ragazza protestante, Johanna sapeva già che il suo ruolo nella vita sarebbe stato quello di una buona moglie e madre: "Kinder, Küche, Kirche, ovvero figli, cucina e chiesa", era un credo familiare in casa May. Tuttavia, sin dall’infanzia, Johanna aveva desiderato qualcosa di più. I suoi genitori le avevano raccontato anche del passato della Germania. Dopo la messa della domenica, spesso parlavano dell’umiliazione dell’occupazione francese della loro amata Ruhr, sotto Napoleone, e la famiglia si inginocchiava e pregava Dio perché la nazione tornasse alla sua grandezza di un tempo. Lei idolatrava la sua omonima, Johanna Prohaska, eroina delle guerre di liberazione, che si era travestita da uomo per combattere contro i francesi.

    Tutto questo, Johanna Langefeld lo raccontò a Grete Buber-Neumann, la sua ex prigioniera, alla porta della cui casa di Francoforte si presentò molti anni dopo, per «cercare di spiegare i motivi del suo comportamento». Grete, prigioniera per quattro anni a Ravensbrück, fu spaventata dalla ricomparsa, nel 1957, della sua ex capoguardia; ma fu anche colpita dal racconto della Langefeld e della sua odissea, e decise di mettere tutto per iscritto.

    Nel 1914, quando scoppiò la prima guerra mondiale, Johanna, al tempo quattordicenne, gioì con gli altri mentre i giovani di Kupferdreh marciavano fuori dal paese per inseguire il sogno di una Germania nuovamente grande, solo per scoprire che lei e le altre donne tedesche avevano ben poco da fare. Due anni dopo, quando fu chiaro che la guerra sarebbe presto finita, alle donne tedesche fu detto di colpo di mettersi a lavorare nelle miniere, nelle fabbriche e negli uffici; lì, sul fronte interno, le donne ebbero una possibilità di dimostrare che sapevano fare lavori da uomini, solo per essere scacciate da quegli stessi posti di lavoro quando i loro uomini tornarono a casa.

    Due milioni di tedeschi non tornarono dalle trincee, ma parecchi milioni sì, e Johanna guardò i soldati di Kupferdreh tornare, molti di loro mutilati, tutti umiliati. Secondo i termini della resa, la Germania dovette pagare un enorme risarcimento che avrebbe bloccato l’economia della nazione, facendo toccare all’inflazione livelli sconvolgenti; nel 1924, l’amata Ruhr della Langefeld fu di nuovo occupata dai francesi, che rubarono il carbone tedesco come riparazione per i risarcimenti non pagati. I suoi genitori persero tutti i loro risparmi e lei si ritrovò senza un soldo e alla ricerca disperata di un lavoro. Sempre nel 1924 si sposò con un minatore di nome Wilhelm Langefeld, che morì due anni dopo per una malattia ai polmoni.

    L’odissea di Johanna, a quel punto, sembrò farsi confusa; si «perse negli anni», scrisse Grete. La metà degli anni ’20 fu un periodo buio che non raccontò, tranne che per la relazione con un altro uomo, che la mise incinta, costringendola a dipendere dai gruppi d’aiuto protestanti.

    Mentre la Langefeld e milioni di altre persone come lei faticavano ad andare avanti, altre donne tedesche trovarono la libertà, negli anni ’20. Con il supporto finanziario americano, la Repubblica di Weimar, guidata dai socialisti, stabilizzò il Paese e iniziò un nuovo cammino liberale. Le donne ebbero diritto al voto, e per la prima volta le donne tedesche entrarono nei partiti politici, soprattutto a sinistra. Ispirate da Rosa Luxemburg, leader del movimento comunista Spartacus, le ragazze della classe media, tra cui anche Grete Buber-Neumann, si tagliarono i capelli, cominciarono a seguire il teatro di Bertolt Brecht e marciarono nei boschi con i compagni del Wandervogel, e altri movimenti giovanili, parlando di rivoluzione. Nel frattempo, in tutta la nazione le donne della classe operaia mettevano da parte soldi per il cosiddetto Aiuto Rosso, associandosi ai sindacati e distribuendo volantini che istigavano allo sciopero davanti ai cancelli delle fabbriche.

    Nel 1922, a Monaco, dove Adolf Hitler stava dando la colpa dei conflitti interni della Germania ai grassi ebrei, una precoce ragazza ebrea di nome Olga Benario fuggì di casa⁵ per unirsi a una cellula comunista, disconoscendo i suoi ricchi genitori facenti parte della classe media. Aveva quattordici anni. In pochi mesi, quella giovanissima studentessa dagli occhi neri guidava le compagne in marce attraverso le Alpi Bavaresi, tuffandosi nei torrenti montani e leggendo Marx intorno ai fuochi dei bivacchi, pianificando la rivoluzione comunista in Germania. Nel 1928, divenne famosa dopo aver assaltato un tribunale a Berlino, liberando un leader comunista tedesco che stava per essere ghigliottinato. Nel 1929, Olga aveva lasciato la Germania per andare a Mosca e addestrarsi insieme all’élite di Stalin, prima di puntare verso il Brasile per cominciare una rivoluzione.

    Nella poverissima Ruhr, nel frattempo, Johanna Langefeld era ormai una ragazza madre senza un futuro. Il crollo di Wall Street nel 1929 scatenò una depressione economica globale, precipitando la Germania in una nuova crisi ancora più profonda, che tolse il lavoro a milioni di persone e creò un vasto malcontento. La paura più grande della Langefeld era che suo figlio Herbert le venisse tolto, se fosse caduta nell’indigenza. Ma invece di unirsi ai poveri, scelse di aiutarli, affidandosi a Dio. «Fu la convinzione religiosa a convincerla a lavorare con i più poveri tra i poveri». Così Greta scrisse che le aveva raccontato, anni dopo, seduta al tavolo della sua cucina a Francoforte. Trovò lavoro nei servizi sociali, insegnando economia domestica alle donne disoccupate e «rieducando le prostitute»⁶.

    Nel 1933, Johanna Langefeld trovò un nuovo salvatore in Adolf Hitler⁷. Il programma di Hitler per le donne non sarebbe potuto essere più chiaro: le donne tedesche dovevano stare a casa, crescere quanti più figli ariani potessero e obbedire ai loro mariti. Le donne non erano adatte alla vita pubblica; la maggior parte dei lavori fu loro negato, come anche l’accesso all’università.

    Atteggiamenti simili si potevano ritrovare in qualsiasi Paese europeo degli anni ’30, ma il linguaggio nazista riguardo alle donne era velenoso senza pari; non solo l’entourage di Hitler insultava apertamente il sesso femminile, stupido e inferiore, ma richiese più volte la separazione tra uomini e donne, come se gli uomini non vedessero alcuna utilità nelle donne, a parte come occasionali ornamenti e, naturalmente, come generatrici di figli1. Gli ebrei non erano gli unici capri espiatori dei problemi della Germania: le donne che si erano emancipate durante gli anni della Repubblica di Weimar venivano accusate di aver fatto lavori da uomo e di aver corrotto la morale della nazione.

    Eppure, Hitler aveva il potere di sedurre i milioni di donne tedesche che desideravano un uomo d’acciaio capace di riportare orgoglio e ordine nel Reich. Tali ammiratrici, molte delle quali profondamente religiose, e tutte infiammate dalla propaganda antisemita di Joseph Goebbels, riempirono le strade al Raduno di Norimberga, dove il reporter americano William Shirer si mischiò alla folla. «Hitler è entrato⁸ in questa cittadina medievale, oggi, al tramonto, preceduto da solide falangi di nazisti in estasi… Decine di migliaia di bandiere con la svastica cancellavano le bellezze gotiche del luogo…». Più tardi, quella notte, al di fuori dell’albergo di Hitler: «Ero un po’ sconvolto dalle espressioni, soprattutto quelle delle donne… lo guardavano come se fosse il Messia…».

    Che la Langefeld avesse votato per Hitler sembra quasi certo. Desiderava salvare il suo Paese dall’umiliazione. Apprezzava anche il nuovo rispetto per la vita familiare proclamato da Hitler. E inoltre aveva motivi personali per essere grata al nuovo regime: per la prima volta, aveva un lavoro sicuro. Per le donne, in particolare per le madri senza marito, la maggior parte delle carriere era sbarrata, tranne quella che la Langefeld aveva scelto. Dai servizi sociali, era stata promossa a quelli carcerari. Nel 1935 fu promossa di nuovo, per il posto di Hausmutter di Brauweiler, una fabbrica per prostitute vicino Colonia. Il lavoro le garantiva anche un alloggio e cure gratuite per Herbert.

    Comunque, mentre era a Brauweiler, sembra che non accettasse facilmente le misure prese dai nazisti per aiutare i più poveri tra i poveri. Nel luglio del 1933 passò la legge per la prevenzione della prole con malattie ereditarie, legalizzando la sterilizzazione di massa come mezzo per eliminare i deboli, gli inutili, i criminali e i malati mentali. Il Führer riteneva che tutti questi degenerati fossero un peso sulle casse dello Stato, e che dovessero essere rimossi dalla catena dell’eredità, in modo da rafforzare il Volksgemeinschaft, la comunità dei tedeschi di razza pura. Il direttore di Brauweiler, Albert Bosse, dichiarò nel 1936 che il 95% delle sue prigioniere donne era «incapace di miglioramenti, e deve essere sterilizzato per motivi morali e allo scopo di mantenere la salute del Volk».

    Nel 1937, Bosse licenziò la Langefeld. Il motivo ufficiale rimasto nei documenti di Brauweiler era il furto, ma quasi sicuramente si trattava di una scusa, mentre la vera ragione era il dissenso della donna per i suoi metodi. Secondo i documenti, fino a quel momento la Langefeld non si era unita al partito nazista, dovere richiesto a tutti gli impiegati delle carceri.

    Il rispetto di Hitler per la vita familiare non aveva mai ingannato Lina Haag, moglie di un comunista membro del parlamento di Stato a Württemberg. Non appena seppe, il 30 gennaio 1933, che Hitler era diventato cancelliere, fu certa che la nuova polizia di sicurezza, la Gestapo, sarebbe venuta a prendere suo marito: «Nelle nostre riunioni, avevamo avvertito il Paese contro Hitler. Ci aspettavamo una rivolta popolare, ma non avvenne».

    Poi, infatti, il 31 gennaio, mentre Lina e suo marito dormivano nel loro letto, alle cinque del mattino, arrivò l’assalto. L’arresto dei Rossi era cominciato. «Corde, pistole, manganelli. Calpestarono le lenzuola pulite con un entusiasmo rivoltante. Non eravamo estranei, per loro: ci conoscevano, e noi conoscevamo loro. Erano uomini adulti, cittadini come noi: vicini, padri di famiglia. Persone comuni. E ci guardavano con odio, adesso, con le loro pistole».

    Il marito di Lina iniziò a vestirsi. Lina si chiese perché si fosse infilato tanto in fretta il cappotto. Se ne sarebbe andato così, senza una parola?

    «Che succede?⁹», gli chiese.

    «Ah, be’», rispose lui, stringendosi nelle spalle.

    «È un membro del parlamento di Stato», gridò lei ai poliziotti con i manganelli. Ma quelli scoppiarono a ridere.

    «Sentito? Comunisti, ecco cosa siete, ma ora stiamo eliminando la feccia come voi».

    Lina tirò via dalla finestra la figlia urlante di dieci anni, Katie, mentre suo padre veniva portato via. «Pensavo che la gente non l’avrebbe accettato a lungo», commentò poi.

    Quattro settimane dopo, il 27 febbraio del 1933, mentre Hitler ancora stava lottando per stabilire il potere del suo partito, il parlamento tedesco, il Reichstag, fu incendiato. Del misfatto furono incolpati i comunisti, anche se molti sospettarono che fossero stati i nazisti, per terrorizzare tutti gli oppositori politici nel Paese. Hitler fece passare subito un editto denominato di detenzione preventiva, che significava che chiunque poteva essere arrestato per tradimento e imprigionato a tempo indeterminato. A dieci miglia a nord di Monaco, stava per aprire un nuovo campo per incarcerare i traditori.

    Aperto il 22 marzo del 1933, Dachau fu il primo campo di concentramento nazista. Nelle settimane e nei mesi successivi, la polizia di Hitler arrestò ogni comunista o sospetto tale e lo portò lì per essere spezzato. Anche i socialisti furono arrestati, insieme ai sindacalisti e a tutti gli altri nemici dello Stato.

    Alcuni dei detenuti di Dachau, in particolare tra i comunisti, erano ebrei, ma nei primi anni della dittatura nazista, gli ebrei non furono arrestati in grandi numeri; coloro che si ritrovarono nei primissimi campi di concentramento erano lì, come gli altri, per aver resistito al regime di Hitler, non solo per la loro razza. L’unico scopo dei primi campi di concentramento di Hitler era quello di schiacciare l’opposizione interna; solo una volta che quel risultato fu raggiunto, si passò ad altri obiettivi. Quel compito fu affidato all’uomo più adatto allo scopo: Heinrich Himmler, capo delle ss, che ben presto divenne anche il capo della polizia, compresa la Gestapo.

    Heinrich Luitpold Himmler era un capo della polizia improbabile, piccolo e tozzo, con un viso pallido e dal mento sfuggente, con un paio di occhialetti dalla montatura dorata sistemati sul naso affilato. Nato il 7 ottobre del 1900, secondo di tre fratelli, era figlio di Gebhard Himmler, facoltoso insegnante in una scuola nei pressi di Monaco. Le serate, nella comoda casa della famiglia a Monaco, venivano trascorse aiutando Himmler senior con la sua collezione di francobolli, o ascoltando il racconto delle eroiche imprese del nonno soldato, mentre l’adorata madre, una devota cattolica, cuciva in un angolo.

    Il giovane Heinrich era molto bravo a scuola, ma era considerato un secchione e veniva spesso preso in giro e trattato male; in palestra, riusciva a stento a raggiungere le parallele, quindi gli insegnanti lo costringevano a effettuare tormentosi piegamenti, mentre i compagni lo guardavano e sghignazzavano. Anni dopo, nei campi di concentramento maschili, Himmler introdusse una tortura in cui i prigionieri venivano incatenati insieme in cerchio ed erano costretti a saltare facendo piegamenti sulle ginocchia finché non crollavano, solo per essere costretti a rialzarsi a calci, finché non perdevano i sensi.

    Dopo la scuola, il sogno di Himmler era di diventare un militare, ma nonostante fosse entrato in accademia come cadetto, la salute cagionevole e la vista debole gli impedirono di diventare ufficiale. Studiò allora agraria e iniziò ad allevare polli, sviluppando un nuovo sogno romantico, quello del ritorno alla Heimat, alla patria tedesca, impiegando il tempo libero in lunghe passeggiate tra le sue amate Alpi, spesso con la madre, o studiando astrologia e genealogia, appuntando sul suo diario ogni più insignificante dettaglio della sua vita quotidiana. «Pensieri e preoccupazioni si rincorrono nella mia testa», si lamentava.

    Alla fine dell’adolescenza, Himmler si sentiva profondamente inadeguato, nella vita sociale e in quella sessuale. «Sono un maledetto chiacchierone»¹⁰, scriveva, e, parlando del sesso: «Mi controllo con una morsa di ferro». Negli anni ’20, si era già unito alla Società di Thule di Monaco, gruppo unicamente maschile che discuteva delle radici della supremazia ariana e della minaccia degli ebrei. Venne anche accolto nelle unità paramilitari di destra di Monaco. «È così bello essere di nuovo in uniforme», scrisse in proposito. Tra le fila del partito nazionalsocialista (nazista) la gente iniziò a dire di lui: «Heinrich sistemerà tutto». Le sue capacità organizzative e la sua attenzione ai dettagli erano impareggiabili, e ben presto si dimostrò in grado di anticipare i desideri di Hitler. Era molto utile, come lo stesso Himmler scoprì, essere «ingegnoso come una volpe».

    Nel 1928, sposò un’infermiera di nome Margarete Boden, di sette anni più grande di lui. Ebbero una figlia, Gudrun. Anche la carriera di Himmler avanzò, e nel 1929 divenne capo delle ss (Schutzstaffel), la squadra paramilitare che inizialmente era nata come guardia del corpo di Hitler. Quando giunse al potere, nel 1933, Himmler le aveva trasformate in una forza d’élite, uno dei cui compiti era quello di gestire i nuovi campi di concentramento.

    Hitler propose l’uso dei campi per internare e spezzare l’opposizione, prendendo a modello le strutture utilizzate dagli inglesi per la carcerazione di massa durante la guerra in Sudafrica tra il 1899 e il 1902. Lo stile dei campi nazisti, tuttavia, sarebbe stato ideato da Himmler, che identificò personalmente il luogo per la costruzione del loro prototipo, a Dachau. Fu sempre lui a scegliere il comandante di Dachau, Theodor Eicke, che divenne il capo delle unità testa di morto, come venivano chiamate le squadre delle ss che controllavano i campi di concentramento (avevano sul berretto uno stemma con il teschio e le tibie incrociate, a indicare la loro lealtà sino alla morte). Himmler incaricò Eicke di trovare un modello per terrorizzare tutti i nemici dello Stato.

    A Dachau, Eicke fece proprio questo, creando una scuola di ss che lo chiamavano Papà Eicke, e che si premurò di indurire prima di mandarli in altri campi. Questo significava insegnare loro a non mostrare mai debolezze di fronte al nemico, limitandosi a «mostrare i denti»¹¹; in altre parole, imparavano a odiare. Tra le prime reclute di Eicke c’era anche Max Koegel, il futuro comandante di Ravensbrück, che andò a Dachau in cerca di lavoro dopo un breve periodo passato dietro le sbarre per appropriazione indebita.

    Nato nella città montana di Füssen, nel sud della Baviera, famosa per i liuti e i castelli gotici, Koegel era figlio di un carpentiere. Rimasto orfano a dodici anni, passò i suoi primi anni a badare alle greggi sulle Alpi, prima di cercare un altro lavoro a Monaco, dove si unì a gruppi völkische di estrema destra e si unì al partito nazista nel 1932. Papà Eicke trovò presto il modo di utilizzare un Koegel ormai trentottenne, e già piuttosto indurito dalla vita.

    A Dachau, Koegel si unì ad altri ss come Rudolf Höss, altra recluta del primissimo periodo, che poi divenne comandante di Auschwitz e che ebbe un ruolo anche a Ravensbrück. Höss avrebbe ricordato in seguito i suoi giorni a Dachau con affetto, parlando di un intero gruppo di uomini delle ss che avevano imparato a amare Eicke e non avevano mai dimenticato le sue regole, «che rimasero loro impresse, diventando parte di loro come carne e sangue».

    Tale fu il successo di Eicke che diversi altri campi furono ben presto costruiti sul modello di Dachau. Ma nei primi tempi nessuno, né Eicke, né Himmler, né chiunque altro, aveva mai pensato a un campo di concentramento per sole donne. Le oppositrici di Hitler non venivano prese sul serio abbastanza da essere considerate una minaccia.

    Nelle retate di Hitler, tuttavia, furono arrestate di certo migliaia di donne. Molte si erano emancipate durante gli anni della Repubblica di Weimar, ed erano sindacaliste, dottoresse, professoresse, giornaliste. Spesso erano comuniste, o mogli di comunisti. Quando venivano arrestate non venivano trattate bene, ma neanche portate nei campi di concentramento in stile Dachau, né si era pensato di aprire sezioni femminili nei campi maschili. Invece, erano rinchiuse in prigioni femminili, o in fabbriche convertite allo scopo, dove le condizioni erano severe, ma non intollerabili.

    Molte delle prigioniere politiche venivano portate a Moringen, una fabbrica convertita vicino a Hannover. Le 150 donne ospitate lì nel 1935 dormivano in stanze le cui porte non erano chiuse a chiave, e le guardie compravano loro della lana da lavorare a maglia. Nella sala comune della prigione c’erano delle macchine per cucire. Un tavolo di notabili era separato dagli altri, e lì sedevano le donne che facevano parte degli alti ranghi del Reichstag e le mogli dei padroni della fabbrica.

    Tuttavia, come Himmler aveva calcolato, le donne venivano torturate in modi diversi dagli uomini; il semplice fatto di sapere che i mariti erano stati uccisi e i figli portati via – di solito per essere cresciuti in orfanotrofi nazisti – era già abbastanza tragico per gran parte di loro. E la censura bloccava ogni tentativo di chiedere aiuto.

    Barbara Fürbringer, sentendo che suo marito, un membro comunista del Reichstag, era stato torturato a morte a Dachau, e che i suoi figli erano stati portati in un orfanotrofio nazista, tentò di avvertire la sorella¹² in America:

    Cara sorella,

    purtroppo qui le cose vanno molto male. Theodor, il mio amato marito, è morto improvvisamente a Dachau quattro mesi fa. I nostri tre figli sono stati portati nell’orfanotrofio di Monaco. Io sono nel campo femminile di Moringen. Non ho più niente.

    Il censore bloccò la lettera, dunque lei la riscrisse:

    Cara sorella,

    purtroppo le cose non stanno andando esattamente come vorremmo. Theodor, il mio amato marito, è morto quattro mesi fa. I nostri tre figli vivono a Monaco, al 27 di Brenner Strasse, e io a Moringen, vicino Hannover, al 32 di Breite Strasse. Ti sarei grata se potessi inviarmi una piccola somma di denaro.

    Himmler calcolò anche che, finché agli uomini fossero state inflitte torture terribili, tutti gli altri si sarebbero piegati. E questo si dimostrò in gran parte vero, come avrebbe notato anche Lina Haag, arrestata poche settimane dopo il marito e rinchiusa in un’altra prigione. «Nessuno si rendeva conto di dove stavamo andando? Nessuno notava la demagogia senza ritegno degli articoli di Goebbels? Io riuscivo a vedere tutto ciò anche attraverso le spesse mura della prigione; ma sempre più persone, all’esterno, oltrepassavano quella linea».

    Giunti al 1936, non solo l’opposizione politica era stata completamente eliminata, ma le associazioni umanitarie e le chiese tedesche avevano a loro volta oltrepassato la linea. La Croce Rossa tedesca era stata cooptata alla causa nazista; alle sue riunioni, la bandiera della Croce Rossa sventolava accanto alla svastica, mentre i custodi della convenzione di Ginevra, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, avevano ispezionato i campi di Himmler, o, perlomeno, le parti che ne venivano mostrate, approvandoli. Le capitali occidentali decisero che i campi di concentramento erano un affare interno della Germania e non una loro preoccupazione. A metà degli anni ’30, gran parte dei leader occidentali credeva ancora che la minaccia più grave per la pace nel mondo fosse il comunismo, non la Germania nazista.

    Nonostante la mancanza di opposizione reale, all’interno del Paese o all’estero, il Führer controllò sempre l’opinione pubblica con attenzione, nei primi tempi del suo governo. In un discorso fatto in un centro d’addestramento delle ss, nel 1937, si trovò a dire: «Sono perennemente consapevole¹³ di non dover mai compiere un singolo passo di cui poi dovermi pentire. Dovete saper annusare la situazione e chiedervi: Cos’è che posso fare cavandomela in ogni caso, e cosa no?».

    Anche la campagna contro gli ebrei tedeschi fu portata avanti con molta più cautela, all’inizio, rispetto a ciò che la maggior parte del partito avrebbe desiderato. Nei primi anni, Hitler fece passare delle leggi per escludere gli ebrei dal mondo del lavoro e dalla vita pubblica, facendo montare nel mentre l’odio e la persecuzione nei loro confronti, ma ci sarebbe voluto tempo, riteneva, prima che potesse fare qualcosa di più senza subire conseguenze. Anche Himmler sapeva annusare le situazioni.

    Nel novembre del 1936, il Reichsführer ss, che ormai era non solo capo delle ss, ma anche della polizia, dovette affrontare una tempesta internazionale che si scatenò intorno a una comunista tedesca che fu trascinata giù da un piroscafo nel porto di Amburgo per essere consegnata alla Gestapo. Era incinta di otto mesi. Si trattava di Olga Benario. La ragazzina di Monaco fuggita di casa per diventare comunista aveva adesso trentacinque anni, e stava per diventare un’eroina del comunismo in tutto il mondo.

    Dopo essersi addestrata a Mosca all’inizio degli anni ’30, Olga era stata scelta dal Comintern (l’Organizzazione Internazionale dei Comunisti) e nel 1935 era stata inviata da Stalin in Brasile per aiutare a organizzare un colpo di Stato contro il presidente Getúlio Vargas. Il capo delle operazioni era il leggendario leader ribelle brasiliano Luís Carlos Prestes. L’insurrezione avrebbe dovuto portare la rivoluzione comunista nella più grande nazione del Sud America, offrendo a Stalin una testa di ponte nel continente americano. Tuttavia, a causa di una segnalazione dell’intelligence britannica, il piano fallì, Olga fu arrestata e, insieme a un’altra cospiratrice, Elise Ewert, fu inviata in regalo a Hitler¹⁴-2.

    Dai moli di Amburgo, Olga fu condotta alla prigione di Barnimstrasse a Berlino, dove diede alla luce una bambina, Anita, quattro settimane dopo. I comunisti in tutto il mondo lanciarono una campagna per farle liberare. Il caso ebbe molta risonanza, soprattutto perché il padre della neonata era il famoso Carlos Prestes, leader del colpo di Stato fallito; i due si erano innamorati e sposati in Brasile. Il coraggio di Olga e la sua bellezza oscura e delicata aggiunsero altro peso a quella storia straziante.

    Una simile pubblicità negativa all’estero era assolutamente da evitare, soprattutto considerando che quello era l’anno delle Olimpiadi di Berlino, ed era stato fatto di tutto per ripulire l’immagine della nazione3. I capi della Gestapo di Himmler inizialmente tentarono di placare gli animi¹⁵ proponendo di dare la bambina alla madre ebrea di Olga, Eugenia Benario, che viveva ancora a Monaco, ma Eugenia non la voleva: aveva diseredato da tempo la figlia comunista, e non volle sapere niente neanche della nipotina. Himmler allora diede il permesso alla madre di Prestes, Leocadia, di prendere con sé Anita, e nel novembre del 1937, la nonna brasiliana venne a portare via la piccola dalla prigione di Barnimstrasse. Olga, ora rimasta sola, restò nella sua cella.

    Scrivendo a Leocadia, le spiegò che non aveva avuto tempo di prepararsi alla separazione: «Devi scusarmi¹⁶, per come ti ho dovuto lasciare Anita. Hai ricevuto la descrizione delle sue abitudini e la tabella del peso? L’ho messa insieme meglio che potevo. È in salute? Gli organi interni stanno bene? E che mi dici delle sue ossa, delle sue gambine? Forse ha sofferto per le circostanze straordinarie della gestazione e del primo anno della sua vita».

    Nel 1936, il numero di donne nelle prigioni tedesche era ormai cresciuto. Nonostante il terrore, le donne tedesche continuavano a operare in segreto, molte di loro ispirate dallo scoppio della guerra civile spagnola. Tra quelle che furono portate al campo femminile di Moringen a metà degli anni ’30, c’erano perlopiù comuniste ed ex membri del Reichstag, insieme a donne che operavano in piccoli gruppi o da sole, come l’artista grafica Gerda Lissack, che produceva volantini anti-nazisti. Ilse Gostynski, giovane ebrea che aiutò a stampare articoli contro il Führer nella sua tipografia, fu arrestata per sbaglio. La Gestapo voleva la gemella Else, ma lei era a Oslo, a organizzare vie di fuga per i bambini ebrei, così arrestarono sua sorella.

    Nel 1936, 500 casalinghe tedesche con la Bibbia in mano e foulard bianchi in testa arrivarono a Moringen. Erano Testimoni di Geova e avevano protestato quando i loro mariti erano stati chiamati alle armi. Hitler, secondo loro, era l’Anticristo; Dio doveva governare sulla Terra, non il Führer. I loro mariti, e altri Testimoni di Geova, erano stati condotti nel più recente campo di concentramento di Hitler, Buchenwald, dove subirono venticinque scudisciate. Himmler sapeva tuttavia che le sue ss non erano ancora pronte a fare del male anche alle donne tedesche, quindi a Moringen le Testimoni di Geova si videro soltanto portare via le loro Bibbie dal direttore del carcere, un gentile soldato in pensione rimasto zoppo.

    Nel 1937, una

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