Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

The Failing hours
The Failing hours
The Failing hours
E-book370 pagine4 ore

The Failing hours

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Zeke Daniels non è solo un cretino; è proprio uno stronzo, un idiota totale.
 Zeke tiene le persone a distanza. Non ha alcun interesse per le relazioni – come la maggior parte degli stronzi.
Frequentare qualcuno? Essere in una coppia? No. Non è roba per lui.
Non ha mai nemmeno pensato a cosa vorrebbe in una ragazza, perché non ha mai avuto alcuna intenzione di averne una.
Diavolo, ha a malapena una relazione con la sua famiglia, e sono imparentati; non piace nemmeno ai suoi stessi amici.
Quindi perché continua a pensare a Violet DeLuca?
La dolce e tranquilla Violet – il contrario di lui in ogni senso.
La luce contro la sua oscurità, anche il suo dannato nome richiama alla mente i raggi del sole, la gioia e stronzate del genere.
E anche questo lo fa incazzare.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788831980326
The Failing hours

Leggi altro di Sara Ney

Autori correlati

Correlato a The Failing hours

Titoli di questa serie (5)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su The Failing hours

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    The Failing hours - Sara Ney

    Sara Ney

    The Failing Hours

    HOW TO DATE A DOUCHEBAG

    vol. 2

    1

    Serie: HOW TO DATE A DOUCHEBAG vol. 2

    Titolo: The failing hours

    Autore: Sara Ney

    Copyright © 2018 Hope Edizioni

    Copyright © 2017 Sara Ney

    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    Progetto grafico di copertina: Angelice Graphics

    Immagini su licenza Bigstockphoto.com

    Cordeschi: 167674316 |Biglike: 117245270

    Traduttore: Carmelo Massimo Tidona

    Editor: Francesca Chiavarini

    Impaginazione digitale: Antonella Monterisi

    How to Date a Douchebag: The Studying Hours by Sara Ney 

    Published by arrangement with Brower Literary & Management

    INDICE

    Prologo

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    Ringraziamenti

    Hope edizioni

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, marchi, media ed eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autore o usati in maniera fittizia. L’autore riconosce lo stato e i detentori dei marchi commerciali dei vari prodotti menzionati in quest’opera di fantasia, che sono stati utilizzati senza permesso. La pubblicazione di tali marchi non è autorizzata, associata a o sponsorizzata dai detentori dei marchi stessi.

    Tutti i diritti riservati. Senza limitare i diritti derivanti dal copyright sopra indicato, nessuna parte della presente pubblicazione può essere riprodotta, archiviata o introdotta in un sistema di ricerca, o trasmessa in qualunque forma e con qualunque mezzo (elettronico, meccanico, fotocopia, registrazione o altro) senza previa autorizzazione scritta dal detentore del copyright del presente libro, sopra indicato.

    Grazie, Internet, per aver fornito l’ispirazione per le citazioni all’inizio di ogni capitolo. Sono tutte basate su vere conversazioni, flirt, avance e messaggi tra persone reali.

    Per ulteriori informazioni su Sara Ney e i suoi libri, visitate:

    www.facebook.com/saraneyauthor/

    Lo stronzo è ancora single.

    Figuriamoci.

    I miei genitori devono aver saputo fin dall’inizio che sarei stato un peccatore… per quello mi hanno dato il nome di ben due libri della Bibbia. Dio sa che non sono un santo.

    EZEKIEL DANIELS

    Prologo

    1

    Violet

    Non è difficile da individuare.

    Grosso, massiccio e imponente, Ezekiel Daniels starà anche dividendo un tavolo della biblioteca con gli amici, ma la sua presenza domina tutto lo spazio, come immagino farebbe un carro armato in un vialetto pieno di minivan. Troppo grosso e fuori luogo.

    La mia attenzione va dritta a lui.

    Getto un’occhiata alla scheda di tutoraggio che ho in mano e faccio una smorfia per quel nome scritto in grassetto.

    Ezekiel Daniels

    Biblioteca, Centro Servizi agli Studenti

    21:30

    La bocca dello stomaco mi si stringe più forte e do un’altra occhiata al tipo; deve essere lui. È ovvio dal modo in cui si guarda attorno impaziente che sta aspettando qualcuno. Poi, come se percepisse che lo sto esaminando, il diavolo in persona alza gli occhi: il suo sguardo imbronciato, cupo, minaccioso, scansiona il perimetro della stanza.

    In cerca.

    A caccia.

    La sua attenzione arriva a me. Mi fissa, l’espressione del tutto indecifrabile. Davvero. Priva di qualunque emozione, mentre mi prende le misure dietro il banco della biblioteca; gli scaffali non mi offrono alcuna protezione dal suo critico esame.

    È talmente bello che quasi mi dimentico di respirare.

    Capelli neri spettinati. Sopracciglia nere tracciate in barre iraconde su occhi notevolmente chiari. Ha un disperato bisogno di radersi.

    E di un tutor.

    Fa scivolare un foglio di carta oltre il tavolo e lo pizzica tra due dita titaniche. So cosa c’è scritto sopra perché è identico a quello che ho in mano. Anche se dovrebbero, i miei piedi non si muovono verso di lui per permettermi di presentarmi, nonostante sappia che è qui per una sessione di tutoraggio.

    Con me.

    I nervi mi inchiodano sul posto.

    Guardo Ezekiel Daniels gesticolare freneticamente verso i suoi amici; ha le sopracciglia aggrottate, le labbra formano parole di collera che non posso sentire da qui. Uno dei ragazzi ride, un altro scuote la testa e si appoggia allo schienale della sedia, le robuste braccia tatuate incrociate, divertito. L’intero gruppo mostra un’evidente irrequietezza e un’aria di noia che mi fanno preoccupare e, inorridita, guardo Ezekiel fare un gesto osceno con le mani mimando un pompino con la bocca.

    L’intero tavolo esplode in rauche risate. Ora fanno talmente tanto chiasso che riesco a sentire tutto ciò che dicono e mi sforzo di seguirli, fingendo di lavorare mentre li ascolto. Guardo il suo amico sollevare il corpo imponente dalla sedia troppo piccola e mettersi a gironzolare per la stanza.

    «Come si chiama la tua tutor?», lo sento chiedere.

    «Violet».

    «Ah, che carina».

    Così inizia il suo giretto per la biblioteca, attraverso l’intricato labirinto di tavoli, il mirino puntato su una ragazza che indossa un castigato cardigan nero, perle e occhiali scuri alzati sui capelli castani e lucidi.

    Lei sta studiando, la testa china, il naso sepolto in un libro di testo. La applaudo in segreto quando un attimo dopo lo respinge seccamente, rimandandolo di corsa dai suoi amici.

    Il colosso dalle braccia tatuate getta il foglio a Ezekiel Daniels con un sorrisino, lasciandosi ricadere sulla rigida sedia al tavolo.

    «Non è lei?», mi giunge la voce tonante di Ezekiel.

    «No». Il suo amico apre un libro di testo.

    Lo sguardo gli si fa più torvo e freddo e vedo le labbra piene formare un’altra frase, ripetendo il mio nome ancora e ancora, il timbro basso della voce furente che risuona nella stanza cavernosa.

    Fa un’altra scansione della biblioteca.

    «Qua dice che si chiama Violet. Dove cazzo è?».

    Si alza in piedi. Incontra il mio sguardo dal lato opposto della stanza. Quando con arroganza solleva le sopracciglia scure e gli angoli della bocca, indietreggio finché il mio sedere non urta il tavolo alle mie spalle. Ezekiel Daniels comincia la sua passeggiata verso il banco dei prestiti – verso di me – trascinando pigramente i piedi sul pavimento in parquet; la sua lenta camminata è un’opera d’arte.

    Pretende attenzione.

    E funziona, non riesco a staccargli gli occhi di dosso.

    Non posso distogliere lo sguardo, non prima di trovarmelo finalmente davanti, gli occhi che scintillano di cattivo umore. Cinismo.

    «È qui che trovo la tutor che mi è stata assegnata?», mi chiede senza preamboli, sbattendo il foglio di carta sul banco con uno schiaffo. «Non riesco a trovarla».

    I miei occhi fluttuano verso il basso. Vedono il mio nome scritto in grassetto nero.

    «S… sì».

    Le sue sopracciglia guizzano di nuovo quando balbetto. È compiaciuto. «Ti rendo nervosa?».

    «No».

    «Ne sei sicura?».

    Incrocio le braccia, poggiandole sul legno liscio, e ignoro la sua domanda per fargliene una io, nel mio tono più autoritario.

    «C… come p… posso aiutarti?».

    Lui mi esamina per alcuni sgradevoli istanti, lo sguardo scortese che mi squadra senza pudore, prima che le sue labbra splendidamente scolpite si aprano. «Violet è disponibile?».

    Lo sono?

    Sono disponibile per questo tipo?

    È il momento di prendere una decisione. Mi sottometterò a lui per il bene del mio lavoro? Lascerò che mini il rispetto che ho di me stessa per quei pochi soldi che mi porterà il tutoraggio? Mi obbligherò a star seduta per le innumerevoli ore che serviranno per aiutarlo a passare un corso?

    È vero che ho bisogno di questo lavoro, ma non so se riuscirò a obbligarmi a fare da tutor a Ezekiel Daniels.

    Chiunque capirebbe solo guardandolo che non è una brava persona.

    «Allora?», mi domanda, spingendo il foglio verso di me. «È disponibile?».

    Alzo lo sguardo, fissando il diavolo negli occhi.

    «No. Non lo è».

    1

    1

    Non guardarlo negli occhi: è come fissare il sole, ma invece di bruciarti la retina ti fa venire voglia di andare a letto con lui.

    Zeke

    «Mi sta ascoltando, Mr Daniels?».

    Alzo di scatto la testa verso la voce del mio coach; sono già irritato a morte perché ha deciso di farmi perdere tempo. Il suo ufficio è piccolo, ma del resto lo è anche lui, e le pareti di cemento di uno sbiadito blu spento gli gettano uno spettrale pallore sulla pelle.

    Le vene nel collo del coach si tendono mentre si sforza di mantenere il controllo di questo improvvisato incontro a cui mi ha convocato. Non sono dell’umore giusto per ascoltarlo.

    Così, non avendo niente da aggiungere, tengo chiusa la mia cazzo di bocca, limitandomi a un secco cenno del capo.

    «Ho detto: mi stai ascoltando, figliolo?».

    Vorrei ricordargli che non sono suo figlio… neanche lontanamente.

    Il mio vero padre neppure mi chiama figliolo.

    Né vorrei lo facesse.

    Mascella serrata, denti stretti. «Sì, signore».

    «Ora, non so da dove venga questo tuo atteggiamento, e non fingerò che mi freghi qualcosa di ciò che succede quando vai via da qui, ma che io sia dannato se me ne starò a guardare uno dei miei ragazzi che si autodistrugge nella mia palestra». La pelle rugosa si tende seguendo la piega severa della bocca.

    Continua: «Credi di essere il primo coglione che entra in questo programma pensando che la sua merda sia profumata? No di certo, ma sei il primo coglione a cui non riesco a togliere questo atteggiamento. E ti avverto: sei a un solo commento sarcastico dal prenderti un pugno dritto in quel bel faccino. Perfino ai tuoi stessi compagni di squadra non piaci. E io non posso tollerare discordia nella mia squadra».

    La mascella schiocca quando la stringo ma, non avendo niente da dire in mia difesa, tengo la bocca ben chiusa.

    Lui va avanti, risentito.

    «Cosa ci vuole per farglielo capire, Mr Daniels?».

    Niente. Non hai un cazzo di niente che possa farmi capire qualcosa, vecchio.

    Lui si fa indietro, inclinando la vecchia sedia di legno e mi esamina, le dita unite a formare una cuspide. Tenendosi in equilibrio, il coach si picchietta il mento con i polpastrelli.

    Sono sul punto di dirgli che se vuole convincermi può piantarla di chiamarmi Mister Daniels. Secondo, può smetterla con le stronzate e spiegarmi perché mi ha convocato nel suo ufficio, finito l’allenamento.

    Dopo un lungo silenzio, si sporge in avanti, le molle della sedia che emettono un forte raschio metallico, e appoggia le braccia sulla scrivania. Le sue mani scivolano su una risma di fogli e ne prendono uno dalla cima.

    «Ti dirò cosa faremo». Spinge il foglio verso di me sulla scrivania. «Il direttore del Big Brothers Mentorship Program mi deve un favore. Hai esperienza coi ragazzini, Daniels?».

    Scuoto la testa. «No».

    «Sai cos’è il Big Brothers?».

    «No, ma sono sicuro che stia per illuminarmi», ribatto, incapace di fermarmi. Incrociando le braccia, assumo una postura difensiva che molta gente trova intimidatoria.

    Non il coach.

    «Mi permetta di illuminarla, Mr Daniels. È un programma progettato per affiancare a un giovane un volontario più grande, come lei, che funga da mentore. Frequenti il ragazzo. Gli dimostri che non è solo. Sia una persona affidabile che non se la squaglierà. In genere si tratta di bravi ragazzi con un solo genitore, ma non sempre. A volte sono ragazzi trascurati, con padri fannulloni, quel genere di cose. A volte i loro genitori semplicemente non se ne interessano e li lasciano a cavarsela da soli. Hai presente, figliolo?».

    . «No».

    Il sadico continua a parlare, mescolando la pila di fogli sulla scrivania. «C’è un colloquio, al quale verresti brillantemente scartato, perciò stiamo prendendo una scorciatoia e tirando qualche filo. Sai perché? Perché hai il potenziale per il successo e lo stai mandando a puttane comportandoti come uno stronzetto».

    La sua sedia cigola in questa cella d’ufficio. «Forse ciò di cui hai bisogno è preoccuparti di qualcuno che non sia te stesso, per una volta. Forse hai bisogno di incontrare un ragazzo la cui vita faccia più schifo della tua. È finita l’ora di autocommiserarti».

    «Non ho tempo per fare volontariato, coach», gli dico a denti serrati.

    Lui mi sorride da dietro la scrivania, la luce dal soffitto gli si riflette sugli spessi occhiali. «Davvero un gran peccato allora, sai perché? O accetti le ore di volontariato, o sei fuori dalla squadra. Non mi serve una bomba a orologeria. Fidati, troveremo il modo di andare avanti senza di te».

    Attende la mia risposta e, visto che prendo tempo, mi fa pressione. «Pensi di potercela fare? Rispondi: Sì, coach».

    Annuisco bruscamente. «Sì, coach».

    «Bene». Soddisfatto prende una matita gialla N. 2 e me la lancia. «Compila quel foglio e portalo con te. Conoscerai il tuo Fratellino domani nei loro uffici del centro. L’indirizzo è sul modulo».

    Con riluttanza, prendo la matita e il foglio dalla scrivania, ma non lo guardo.

    «Non fare tardi. Non fare cazzate. Domani pomeriggio vedrai come vive l’altra metà, capito, figliolo?».

    Annuisco.

    «Bene, ora levati dalle palle».

    Lo guardo storto.

    Il suo risolino rauco mi prende alle spalle quando mi avvio verso la porta. «E, Mr Daniels?».

    Mi fermo ma mi rifiuto di voltarmi verso di lui.

    «So che sarà difficile, ma cerca di non fare troppo il coglione col ragazzo».

    *

    Il coach è un vero stronzo.

    Non che me ne freghi qualcosa, visto che lo sono anch’io, uno stronzo. Non c’è molto di cui mi importi di questi tempi, quindi non capisco perché creda che sarà diverso con questo cazzo di ragazzino. Soprattutto dato che sono costretto a occuparmi di lui.

    I miei amici dicono che sono spietato; affermano che nelle mie vene scorra sangue freddo, che sia impossibile avvicinarmi.

    Ma mi piace così. Mi piace tenere gli altri a distanza. Nessuno ha bisogno di me, e io ho ancor meno bisogno di loro. La felicità è un mito. A chi serve? Questa collera che mi monta dentro è più tangibile di qualunque felicità di cui neanche ricordo la sensazione, non essendo mai stato altro che solo.

    Mi è stato benissimo per quindici anni.

    Sto ancora fumando dalla rabbia quando entro nel supermercato, afferro un carrello e lo spingo su e giù lungo i corridoi, con decisione, gettandovi dentro del cibo senza rallentare il passo. Fiocchi d’avena. Nettare di agave. Noci.

    Raggiungo il reparto integratori e bio, le mani si muovono automaticamente verso le proteine in polvere, afferro il contenitore di plastica nera e lo infilo tra gli affettati, il pane e le bottiglie d’acqua.

    Giro l’angolo, spingendo il carrello verso il lato destro del passaggio, e mi fermo di colpo, finendo quasi addosso a una bambina sulle punte dei piedi che si allunga verso uno scaffale. Ha i capelli ricci e neri legati stretti in due codini, le braccia sottili tese verso una scatola che non raggiungerà mai.

    Nemmeno stando in punta di piedi.

    Ed è sulla mia strada.

    «Che cazzo, ragazzina, ti ho quasi investita», ringhio. «Dovresti fare più attenzione».

    Lei ignora il mio avvertimento.

    «Puoi prendermela?». Le sue piccole dita sporche si agitano verso una scatola rossa di cialde per il gelato, l’indice puntato verso lo scaffale più in alto. Noto che ha le dita dipinte di blu glitterato, e ci sono tracce di sporco incrostato sotto le unghie.

    «Non dovresti parlare con gli estranei», la rimprovero, ma le prendo comunque la scatola dallo scaffale, spingendola con fare scontroso tra le sue mani pronte ad afferrarla. Mi guardo intorno. Mi accorgo solo allora che non c’è nessuno con lei. «Gesù Cristo, ragazzina, dove sono i tuoi genitori?».

    «A scuola».

    «A scuola?».

    «Mio papà lavora e mia mamma è al college».

    «E chi cazzo c’è con te?».

    La mocciosa mi ignora, inclina la testa e mi guarda socchiudendo gli occhietti dallo sguardo fisso. «Stai dicendo brutte parole».

    Non sono dell’umore adatto per essere gentile, perciò socchiudo anch’io le palpebre. «Sono un adulto. Posso dire quel cazzo che voglio».

    «E io lo racconto a tutti!». La sua boccuccia si storce in una smorfia di disapprovazione e riesco a percepire che mi sta silenziosamente giudicando. Sono sicuro che averla come compagna di classe sia una vera gioia.

    «Va bene, ragazzina… fallo».

    «Summer?», chiama forte una voce femminile da qualche parte dietro un angolo. In un turbinio di grigio e bianco, la proprietaria della voce svolta l’angolo di corsa, annaspando in cerca d’aria quando ci vede.

    «Oh mio Dio, eccoti qui!».

    Cade in ginocchio.

    Stringe in un abbraccio la ragazzina smunta. «Oh mio D…Dio», ripete, balbettando. «Tesoro, non puoi allontanarti così! Mi hai quasi spaventata a m… morte. Non hai sentito che ti chiamavo?».

    La ragazzina, Summer a quanto pare, le tiene testa e cerca di divincolarsi. «Stavo prendendo i coni e gli zuccherini per il gelato».

    «Summer». La donna stringe la ragazzina in un altro abbraccio. Fa un respiro affannato. «Summer, quando n… non sono riuscita a trovarti, ho pensato che qualcuno ti avesse rapita. Ho pensato che stesse per venirmi un attacco di c… cuore».

    «Ero proprio qui, Vi», squittisce la ragazzina contro il giubbotto della donna, sforzandosi di respirare in quella lotta di abbracci. «Questo ragazzo mi ha preso i coni».

    Questo ragazzo?

    Alzo le mani. «Ehi, mocciosetta, non trascinarmi nel fango con te».

    È allora che la donna si accorge della mia presenza e solleva lo sguardo.

    Su. Su, fino ai miei occhi impassibili e irritati.

    I nostri sguardi si incrociano e mi sorprende rendermi conto che non è vecchia come pensavo. È una donna giovane, e mi sembra vagamente familiare.

    I suoi occhi sono di una brillante tonalità di nocciola, e si sgranano in un lampo di panico e riconoscimento mentre mi guarda, probabilmente perché le sto rivolgendo una fredda occhiataccia dall’alto in basso. Intimidisco molte persone, e ne vado fiero.

    Le sue labbra si schiudono ma non ne esce alcun suono, nulla a parte uno squittio spaventato. Si riprende in fretta, stringendo più forte la ragazzina e passandole le mani lungo i deboli avambracci. «Ha as… aspettato m… molto con lei?».

    Quando mi rendo conto che sta parlando con me, mi parte una risata nasale e ignoro la sua domanda, facendole invece notare l’ovvio.

    «Lei fa schifo come tata. La bambina avrebbe potuto venir rapita».

    Abbassa la testa e le spalle, piena di vergogna. «Lo so! M… mi creda, lo so».

    La bocca della giovane donna si serra di nuovo, il mento tremante. Fa qualche respiro profondo per ricomporsi, deglutisce nervosamente. «Grazie di averla aiutata».

    «Aiutata? Divertente. Non sono un buon samaritano». Non voglio che mi ringrazi né voglio prolungare questa litania di chiacchiere noiose. «Tutto quel che ho fatto è stato impedirle di ribaltare lo scaffale. È alta un cazzo e uno sputo».

    «Be’, g… grazie lo stesso». Un’altra piccola stretta attorno alle spalle della ragazzina, e la giovane donna si alza.

    Minuta, dev’essere attorno al metro e sessantacinque… poco rispetto al mio metro e ottantadue. Grandi occhi nocciola. Fitti capelli talmente biondi da sembrare bianchi, che le ricadono sulla spalla in una treccia spessa e intricata. Indossa una vissuta tuta dell’Iowa e il mio sguardo cade subito sulla scollatura della maglia per esaminarle il seno.

    Piatto.

    Che peccato, deve essere una rottura.

    Le studio il volto arrossato con occhi socchiusi, dubbiosi. «Ci conosciamo?».

    Lei deglutisce, guardando verso destra. «I… io non credo».

    Non sopporto i bugiardi.

    «Oh, sì, io ti conosco. Vivi in biblioteca».

    Si scosta un ciuffo di capelli, che neanche le ricadeva sul viso. «I… io lavoro in biblioteca, sì. Faccio anche la babysitter per gli studenti con figli piccoli e sono nel Servizio Studenti».

    È nervosa come il cazzo e mi chiedo quale sia il suo problema.

    Magari è sconvolta.

    O magari è sotto l’effetto di droghe.

    Mi sporgo in avanti per darle una bella occhiata alle pupille, controllando se siano dilatate, e colgo un profumo leggero. Sa di vergine e di come immagino odorerebbe il talco per bambini se sapessi di che cazzo odora.

    Mi avvicino ancora. «Dovresti dire a quei coglioni di tutor di presentarsi quando hanno un appuntamento di lavoro».

    Se vi chiedete se sia possibile per un essere umano diventare di una violenta sfumatura di rosa dalla punta delle dita alla radice dei capelli biondi, be’, questa ragazza c’è riuscita. Le mani le volano sul volto, i palmi premuti contro le guance.

    Fa un profondo respiro, afferra la mano della ragazzina. «R… riferirò il messaggio». Pausa. «Dovremmo andare».

    «Già, dovreste andare, perché mi state davvero tra i piedi». Do una spinta al mio carrello, facendolo avanzare perché si spostino e io possa aggirarle in quel poco di spazio che non stanno occupando. Prima di svoltare l’angolo successivo, punto loro contro un dito accusatore. «Per la cronaca, Tata Incapace, quella ragazzina non dovrebbe starsene in giro, dovrebbe essere a letto».

    *

    Scarico le buste della spesa sul piano della cucina dopo quel pomeriggio infernale, svuotandone senza cerimonia il contenuto e buttando i sacchetti di carta marrone. Riordino un paio di mobiletti per far spazio alla nuova roba e apro una bottiglia d’acqua mentre penso a cosa mangiare per cena.

    Petto di pollo magro e broccoli. Verdure saltate in padella e riso nero. O potrei buttar giù una ciotola di fiocchi d’avena con noci e frutti di bosco.

    Niente mi stimola.

    Non dopo lo schifo di pomeriggio che ho passato.

    Nelle profondità del corridoio, una porta si apre e si chiude, seguita dal silenzio. Qualche attimo dopo, sento lo scarico del bagno.

    Jameson Clark, la ragazza con cui il mio compagno di stanza Oz ha da poco iniziato a uscire, entra nella stanza. Indossa jeans su misura e una maglia pelosa celeste. Occhiali. Il sorriso soddisfatto che le allarga le labbra viene subito sostituito da un’espressione di sorpresa quando mi vede guardarla storto da vicino al lavandino.

    Non le piaccio.

    E me ne frega due cazzi, perché neanche a me lei piace. Con cautela, James si dirige verso il frigo, ma esita prima di aprirlo.

    «Ehi, come va?», cerca di intavolare una conversazione.

    «Bene».

    Fa un cenno verso il frigo. «Ti dispiace se…».

    Grugnisco. «Oh, ma certo. Ti prego, prenditi pure il nostro cibo e fa’ come se fossi a casa tua. Al solito».

    Invece di aprire il frigo, lei si appoggia al bancone, esaminandomi con aria interrogativa, come un puzzle che sta tentando di completare da mesi.

    «Sai che non sono il nemico, vero?».

    Stronzate.

    «Non so perché tu stia cercando di fare conversazione proprio ora. Non sono dell’umore», le dico a denti stretti.

    «Che sorpresa. Sei davvero una lagna». James prende una mela, una delle mie mele, dalla grande coppa sul bancone e ne morde un boccone. Lo mastica e lo ingoia. Poi dà un altro morso, riempiendo il silenzio con il suo sgranocchiare.

    «Si vede che c’è qualcosa che ti impensierisce, Zeke, e nonostante tutti i grugniti che mi rivolgi, so che non dipende da me».

    Con disinvoltura, James sporge una gamba, appoggiandola alla credenza. Abbasso lo sguardo, attratto dalle vivaci unghie blu dei suoi piedi. S’intonano al maglioncino.

    Mi sorprende a guardarle e agita le dita dei piedi facendo un sorrisino.

    Cazzo.

    «So che non siamo partiti nel migliore dei modi, ma mi piacerebbe che fossi a tuo agio con me. Magari potresti perfino considerarmi un’amica».

    Come no. Non succederà mai.

    Sorrido. «So che pensi di essere una gran figa perché ti scopi Sebastian Osborne, ma credimi, non lo sei. Ti tollero solo perché devo farlo, quindi piantala con queste stronzate».

    Spalanca la bocca e le mie spalle si rilassano per aver stroncato con successo il suo tentativo di psicanalizzarmi.

    «Perché sei così incazzato?», mormora lei in cucina, più a se stessa che a me, con una sfumatura di stupore nella voce.

    «Gesù Cristo, perché tutti continuano a chiedermelo?». Mi fa incazzare ancora di più.

    «Zeke, anche se non c’è niente che ti preoccupa, forse ti farebbe bene parlare con Sebastian…».

    «Esci con Oz da ben cinque minuti. Fai un favore a entrambi e smettila di cercare di psicanalizzarmi. Posso anche essere suo amico, ma non sarò mai amico tuo». Marcio verso la porta, afferro la mia roba e mi metto lo zaino in spalla.

    Jameson resta a guardare la mia scia, con gli occhi sgranati e l’espressione… un po’ ferita.

    Be’, che cazzo, non ho tempo per queste cose.

    «Ho un appuntamento in biblioteca e non ho tempo per discutere di qualunque illusione tu abbia sul fatto che siamo amici, quindi risparmiati le chiacchiere per qualcun altro».

    Apro la porta con uno strattone e non le do una seconda occhiata.

    «Non aspettatemi alzati».

    2

    1

    Guarda, ho cercato di farmelo piacere, ma il suo uccello sapeva di fallimento e delusione.

    Violet

    Non riesco a calmare il mio cuore che galoppa.

    Non appena ho superato la soglia della biblioteca per iniziare il mio turno, ha

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1