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The Coaching Hours
The Coaching Hours
The Coaching Hours
E-book366 pagine4 ore

The Coaching Hours

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Info su questo ebook

Non ci sono stronzi in questa storia.
Be’, ci sono, ma non è di loro che parla la mia storia.
La storia riguarda me, la figlia dell’allenatore.
Quando mi sono trasferita nell’Iowa per stare con mio padre, l’allenatore tutto d’un pezzo della squadra di wrestling dell’Università, pensavo che sarebbe stato come bere un bicchier d’acqua: ero convinta che vivere con mio padre sarebbe stata solo una cosa temporanea e che si sarebbe assicurato che quegli stronzi dei suoi lottatori mi lasciassero in pace.
Sbagliato su tutta la linea.
I pezzi di merda escono sempre allo scoperto quando la posta è alta.
Hanno fatto una scommessa e la posta in gioco sono io.
Dopo una serata umiliante, e troppo alcol, incontro l’ultimo bravo ragazzo del campus. E quando lui accetta di affittarmi la camera libera in casa sua, non ci penso due volte.
È ora che il bravo ragazzo trionfi.
Le chiacchierate notturne e le confidenze si trasformano in contatti prolungati, che poi diventano qualcosa di più. E l’ultimo bravo ragazzo ha la possibilità di causare più danni di qualsiasi altro stronzo.
LinguaItaliano
Data di uscita27 lug 2019
ISBN9788855310703
The Coaching Hours

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    Anteprima del libro

    The Coaching Hours - Sara Ney

    Sara Ney

    The Coaching Hours

    HOW TO DATE A DOUCHEBAG

    vol. 4

    1

    Serie: HOW TO DATE A DOUCHEBAG vol. 4

    Titolo: The Coaching hours

    Autore: Sara Ney

    Copyright © 2019 Hope Edizioni

    Copyright © 2018 How to Date a Douchebag: The Coaching Hours by Sara Ney

    Published by arrangement with Brower Literary & Management

    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    ISBN: 9788855310703

    Progetto grafico di copertina: Angelice Graphics

    Immagini su licenza Bigstockphoto.com

    Fotografo: Deagreez | Cod. immagine:161715185

    Fotografo: Dmitry_tsvetkov | Cod. immagine:244508239

    Traduttore: Marianna N.

    Editor: Done&Tail

    Impaginazione digitale: Cristina Ciani

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, marchi, media ed eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autore o usati in maniera fittizia. L’autore riconosce lo stato e i detentori dei marchi commerciali dei vari prodotti menzionati in quest’opera di fantasia, che sono stati utilizzati senza permesso. La pubblicazione di tali marchi non è autorizzata, associata a o sponsorizzata dai detentori dei marchi stessi.

    Tutti i diritti riservati. Senza limitare i diritti derivanti dal copyright sopra indicato, nessuna parte della presente pubblicazione può essere riprodotta, archiviata o introdotta in un sistema di ricerca, o trasmessa in qualunque forma e con qualunque mezzo (elettronico, meccanico, fotocopia, registrazione o altro) senza previa autorizzazione scritta dal detentore del copyright del presente libro, sopra indicato.

    Grazie, Internet, per aver fornito l’ispirazione per le citazioni all’inizio di ogni capitolo. Sono tutte basate su vere conversazioni, flirt, avance e messaggi tra persone reali.

    Per ulteriori informazioni su Sara Ney e i suoi libri, visitate:

    www.facebook.com/saraneyauthor/

    INDICE

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Epilogo

    Hope edizioni

    Prologo

    1

    Eric Johnson

    Avevamo sentito tutti delle voci su di lei, ma non sapevamo se fossero vere:

    Il Coach ha una figlia.

    Una ragazza, che non è cresciuta con lui ma che adesso vive in casa sua, una studentessa, che si è trasferita da un college più piccolo dell’est. Come faccio a saperlo? Dei ragazzi hanno sentito per caso alcuni membri dello staff tecnico parlare di lei, una sera in cui avevano dimenticato che anche i muri hanno le orecchie.

    «Avrà preso tutto dal padre.»

    «Finalmente potremo conoscerla dopo tutti gli anni che ha passato con la madre.»

    «Assomiglierà alla sua ex-moglie.»

    Speriamo sia così; il Coach è un bastardo dall’aspetto rude. Basso, incazzato e prematuramente grigio, mi piace paragonarlo a un troll vecchio e rugoso che vive sotto un ponte, uno che ha visto tempi migliori. Uno stronzo vecchio e infelice, che non ho mai visto fare un sorriso, nemmeno una volta.

    Comunque di sicuro mai rivolto a me.

    Faccio qualche altro squat, gocce di sudore mi scendono lungo la schiena, le ginocchia si piegano sotto i centocinquanta chili caricati sulla barra. Mi alleno duramente da quando sono entrato nel programma di wrestling dell’Iowa, adesso più che mai: la pressione emotiva di fare bella figura è forte visto che il nuovo arrivato, Rhett Rabideaux, sta minacciando il posto di tutti in squadra.

    Da quando i nostri due campioni se ne sono andati, cerco ogni occasione per entrare nelle grazie del Coach, per diventare il nuovo ragazzo d’oro, prendere il loro posto e raggiungere la vetta.

    Quei due ci facevano sembrare tutti scarsi.

    Dei rammolliti.

    Faccio altri tre squat prima di essere interrotto da Rex Gunderson, il mio compagno di stanza e

    manager della squadra di wrestling. Ha in mano un asciugamano e una bottiglia d’acqua, con il mio nome sbiadito scritto sopra con un pennarello.

    «Fermati.» Mi frusta il culo con l’asciugamano. «Riunione della squadra fra cinque minuti.»

    Sollevo di nuovo i pesi.

    Mi piego.

    Mi stendo.

    Squat. Lascio cadere la barra a terra, facendo un passo indietro mentre rimbalza sul pavimento della sala pesi con un tonfo soddisfacente.

    «Di cosa si tratta?» Gli strappo l’asciugamano bianco dalle mani prima che possa colpirmi una seconda volta.

    Gunderson scrolla le spalle sotto la polo nera della squadra di wrestling dell’Iowa. Con quegli stupidi pantaloni color kaki sembra una completa testa di cazzo.

    «Non lo so, non mi dicono più niente.»

    Non gli faccio notare che non gli dicono niente perché non si fidano più di lui; non riesce a tenere la boccaccia chiusa, e fa sempre un sacco di scherzi.

    Lui continua a blaterare, scrollando le spalle ossute. «Probabilmente informazioni sull’incontro con la Clemson di questo weekend.»

    Può darsi, anche se non c’è niente di eccezionale che riguardi la Clemson University al punto da dover indire una riunione di emergenza. Tuttavia mi tolgo la maglietta fradicia di sudore e mi asciugo il petto e il collo. Do una scrollata ai miei capelli biondi.

    Sto sudando come una prostituta in chiesa, magnifico!

    Ci vogliono tre minuti per raggiungere lo spogliatoio, e sedermi sulla panchina vicino al mio armadietto. Gunderson resta in piedi sulla soglia con il suo blocco, intento a prendere nota e ad assicurarsi che tutti siano stati avvisati e presenti per ascoltare quello che l’allenatore ha da dire.

    Deve essere importante, l’ho visto solo due volte controllare le presenze nei due anni della mia permanenza in squadra.

    «Signorine, ascoltate» dritto al punto, l’allenatore non perde tempo. «Domani voglio i vostri culi sull’autobus alle nove in punto, partiremo presto. Masters, ti voglio in palestra alle prime luci dell’alba ad allenarti, hai un aspetto di merda. Ultimamente ti stai rammollendo.» Donnelly si appoggia contro la scrivania di metallo davanti allo spogliatoio, incrociando le braccia grassocce. La sua pelle segnata testimonia che in passato ha avuto la sua parte di duro lavoro.

    Si sfrega il mento, la barba che ha iniziato a far crescere è grigia.

    «Signori, c’è un’altra cosa di cui voglio parlarvi prima di lasciarvi andare stasera. Una cosa che voglio chiarire: mia figlia, che finora sono riuscito a tenere lontano, molto lontano da voi ingrati, si è trasferita qui per studiare.» Questo gli fa guadagnare sguardi curiosi e sopracciglia inarcate da parte degli altri membri della squadra.

    L’allenatore continua. «Quando inizieranno i corsi, senza dubbio la vedrete entrare e uscire dal mio ufficio, di tanto in tanto. Userà questa struttura per allenarsi. Vi sto avvisando, state lontani da lei. Se beccherò qualcuno di voi a gironzolarle intorno, gli farò così male che quando si risveglierà, i suoi vestiti saranno andati fuori moda.»

    Alcuni ragazzi ridono.

    Il Coach socchiude gli occhi grigi e stanchi. «Non voglio che facciate amicizia con lei. Non voglio che vi offriate di farle da guida turistica. Non voglio che le chiediate di uscire.»

    Vedo Gunderson che solleva il blocco per coprirsi la bocca; il deficiente sta sorridendo.

    «Siate educati. Siate gentili. Ma lasciatela in pace. Siamo intesi?»

    La stanza rimane silenziosa.

    «Ho detto, siamo intesi?» Il Coach urla quando solo pochi ragazzi annuiscono. Alcuni borbottano.

    «Sì Coach» gridiamo in coro come dei bravi boy scout.

    Il Coach prende un quaderno a spirale dalla scrivania e si alza. «Vestitevi e andatevene da qui. Coprifuoco stasera alle undici, mi aspetto che siate tutti a casa.»

    Mi sfilo i pantaloncini e mi avvolgo un asciugamano intorno alla vita. Apro la doccia, l’acqua fresca si riversa sul mio corpo solido. Insapono, risciacquo. Non sono il membro più alto della squadra, né il più in forma o il più bello, ma me la cavo bene.

    Sinceramente, i miei risultati non sono dei migliori, ma non faccio nemmeno schifo, e almeno continuo a far parte della squadra, che è più di quanto si possa dire del mio compagno di stanza, che sguscia accanto a me quando torno verso il mio armadietto.

    La spalla ossuta di Gunderson colpisce l’armadietto in cui conservo tutta la mia roba, i suoi occhi piccoli e vivaci mi guardano con un luccichio malizioso.

    «Pensi anche tu quello che penso io?» inizia Rex mentre mi asciugo le cosce e il petto, per poi infilarmi un paio di pantaloncini puliti.

    «Non ho proprio idea di cosa stai pensando.»

    Non so se voglio saperlo.

    «A proposito della figlia del Coach.»

    «Intendi il fatto di starle lontano?» Tiro fuori la borsa, lasciandola cadere a terra. Butto dentro le scarpe da ginnastica. «Quella figlia del Coach?»

    «Sì.» Si avvicina, un po’ troppo per i miei gusti. «Scommetto che non hai le palle per scopartela.»

    Mi fermo e per la prima volta, da quando si è avvicinato, mi giro per affrontarlo. «Sei uscito di testa?»

    Perché fa queste stronzate? 

    Perché lo lasciamo parlare? Dovrei dirgli di stare zitto, mettere fine a questa conversazione, ma resistere non è mai stato il mio punto forte. Se ci fosse un grosso bottone rosso sul muro che dice NON PREMERE... Io lo premerei.

    «L’ultima volta che hai avuto un’idea, ci hai messo nei guai.»

    Me lo ricordo bene, avevamo tappezzato il campus di fotografie del brutto muso del nostro ex compagno di stanza per aiutarlo a trovare una ragazza da scopare. Aveva funzionato, un po’ troppo, perché se n’era andato con la sua fidanzata sexy, lasciandoci con la sua parte di affitto da pagare e una grande camera da letto vuota che non riusciamo ad affittare.

    Per non parlare del Coach, che ci sta col fiato sul collo per tutti gli scherzi che gli abbiamo fatto. Lo staff tecnico continuava a definirlo nonnismo, voglio dire, tecnicamente sì, forse lo è, ma nessuno si è fatto male, o è morto, o si è ritrovato con i pantaloni abbassati in pubblico.

    La parte merdosa di tutto ciò? Io e Gunderson abbiamo dovuto volare basso, lavorare sodo e stare fuori dai guai, visto che ci stanno tenendo d’occhio. Ho dovuto rompermi le palle con gli allenamenti in palestra e sui materassini, solo per provare di nuovo che sono degno di far parte della squadra e che vale la pena tenermi.

    Gunderson si avvicina. «Non dirmi che non ci hai fatto subito un pensierino quando l’ha nominata.»

    «No, non l’ho fatto.» Prendo una maglietta pulita dal mio armadietto. «Nemmeno mezzo.»

    Ma adesso che...

    «Perché no?» mi punzecchia, col fiato sul collo e abbassando la voce. «Non credi di riuscire a scoparti la figlia del Coach?»

    Controllo in giro per assicurarmi che nessuno ci stia ascoltando. «Cristo, potresti evitare di parlare di certe cose qui? Se qualcuno ti sentisse, saremmo fottuti entrambi.»

    Lui fa un passo indietro, colpendomi il bicipite. «Pensaci, amico. Se ti scopassi la figlia del Coach potresti vantartene per mesi

    La maglietta mi scivola giù per la testa. «Non sappiamo nemmeno com’è. Potrebbe essere un cesso.»

    «Forse sì o forse no, c’è solo un modo per scoprirlo.»

    Appallottolo l’asciugamano e lo tiro nel cesto posto all’angolo della stanza, mirando in alto e facendo canestro. Entra al primo colpo.

    «Devi smetterla con queste stronzate prima che ti buttino fuori dalla squadra.»

    «Non faccio parte della squadra» afferma. «Sono solo il manager. Nessuna pollastrella vuole mai scopare me.»

    È vero; nella scala sociale, come manager, Gunderson si trova sul gradino più basso, ben dopo la miriade di atleti e l’élite del corpo studentesco, con i quali le ragazze preferiscono spassarsela.

    Manager suona importante, ma in realtà è poco più di un portaborracce.

    «Inoltre» continua lui, arrampicandosi sui vetri, «sei molto più bello di me.»

    Anche questo è vero.

    «Dammi una buona ragione per cui dovrei continuare ad ascoltare le tue cazzate. Perché dovrei rischiare il mio posto in squadra per fare una cosa così stupida?»

    Eppure… sarebbe davvero bello, riuscire a convincerla a uscire con me e scoparmela... chiunque sia.

    «Perché non riesci a resistere a una scommessa?»

    Un altro punto a suo favore: non riesco mai a rifiutare una scommessa.

    Prendo la felpa dall’armadietto, chiudo lo sportello e inserisco la combinazione. «Qual è la posta?»

    Che cazzo sto dicendo?

    Gunderson appoggia una mano contro il muro. «Rendiamo le cose interessanti.»

    La mia risata è vuota. «Dovrebbe essere davvero interessante per convincermi ad accettare.»

    «Il primo di noi che si scoperà la pollastrella…»

    «Oh, vuoi provarci anche tu?» Che diavolo sta pensando di fare?

    «Ho avuto qualche minuto per pensarci un po’ mentre resistevi all’idea.»

    Giusto, come se avesse dei pensieri che attraversano quella testaccia dura.

    Rido.

    Aggrotta la fronte. «Non credi che possa farcela?»

    Rido di nuovo, sollevando la sacca. «So che non ci riuscirai.»

    Mi segue come un cagnolino smarrito. «Il vincitore si prenderà la camera da letto grande, quella che ha appena lasciato Rhett.»

    Mi fermo di botto. Muoio dalla voglia di trasferirmi in quella maledetta camera da letto, ma quando se n’era andato Rabideaux, Gunderson e io avevamo concordato che per quella potevamo far pagare di più dal momento che è la stanza più grande delle tre, e abbiamo bisogno di soldi più che di una camera da letto grande.

    «La stanza grande?»

    Ciliegina sulla torta? Ha il bagno personale.

    Lui annuisce. «Quella grande.»

    Be’ merda.

    L’intera stupida idea mi fa riflettere.

    Mi giro verso di lui, sul viso mi appare un sorrisetto compiaciuto, che rispecchia il suo.

    Gli tendo la mano.

    Gunderson allunga la sua.

    Voglio quella camera da letto.

    «Affare fatto.»

    Capitolo 1

    1

    Voglio che si ricordi per sempre di me come della vagina che gli è sfuggita.

    Anabelle

    Anabelle.

    I miei genitori non potevano scegliere per me nome più femminile, ma sapete una cosa, non l’hanno scelto perché era carino o femminile.

    No.

    Lo hanno scelto a causa del wrestling.

    Tutto è sempre ruotato attorno al wrestling.

    Prima che nascessi, mio padre desiderava un figlio maschio, come spesso fanno gli uomini, qualcuno che portasse avanti il nome di famiglia.

    La tradizione dei Donnelly: il wrestling.

    Lo sport scorre nel sangue della famiglia Donnelly dacché ho memoria. È il lavoro di mio padre.

    Il mio nonno irlandese era un wrestler.

    Mio padre era un wrestler.

    Invece di un figlio, ha avuto me, una Anabelle invece di un Anthony. Ana invece di Abe.

    Una bambina spaventata dalla propria ombra, che invece di interessarsi agli hobby di suo padre, si aggrappava alla sua gamba. Una bambina che portava in giro le sue bambole e piangeva cercando sua madre, nelle rare occasioni in cui il padre aveva pietà di lei e cercava di insegnarle alcune mosse di autodifesa.

    Ai tempi del college, in Mississippi, quando papà era un lottatore agli esordi, il suo migliore amico nella squadra si chiamava Lucien Belletonio. Belle, lo chiamavano, anche se era l’antitesi di un soprannome tanto femminile: duro e introverso, destinato a fare strada.

    Un campione.

    L’anno prima che nascessi, solo cinque mesi dopo che i miei genitori si erano incontrati, Belle e mio padre ricevettero un’ottima proposta.

    Allenare.

    Tutto andava bene e non faceva che migliorare, Belle era un astro nascente sul materassino e fuori, mio padre aveva una moglie e un bambino in arrivo. Poi il destino si intromise, insieme a cinque tonnellate di acciaio, che misero fine alla vita di Belle. Quel giorno mio padre perse il suo migliore amico.

    Belle.

    Anabelle.

    Femminile, intelligente e forte, sulla carta.

    Mio padre non voleva dimenticare Lucien Belletonio, e non lo avrebbe fatto, grazie a me.

    Mamma non mi rese le cose facili, se volevo vederlo o andare a fargli visita, dopo che ebbero divorziato. Tirava sempre fuori qualche patetica scusa: tuo padre è troppo impegnato con la sua carriera perché tu stia con lui; è la stagione del wrestling; si sta quasi avvicinando la stagione del wrestling; a lui importa più di quei ragazzi che di te.

    Ci avevo creduto.

    Fino a quando ero cresciuta e avevo capito che cosa intendeva veramente. Che lui teneva più ai suoi ragazzi che a lei.

    Io? Non mi ero mai sentita abbandonata da mio padre, non mi ero sentita esclusa.

    Diventata più grande e più saggia, avevo iniziato a guardare papà in televisione, sul canale ESPN. Sapevo che era un uomo importante, con un lavoro altrettanto importante, e lo rispettavo.

    Era mia madre che non rispettava il suo lavoro.

    Giovane e con un bambino piccolo, non era stata disposta a fare i sacrifici che molte mogli di allenatori invece fanno: i tagli di paga, gli aumenti, promozioni seguite da retrocessioni, trasferimenti dall’altra parte del Paese o comunque andare dove veniva offerto un posto di lavoro.

    Ripensarci non è piacevole.

    Mi muovo a passo svelto sul tapis roulant, i pensieri sul divorzio dei miei genitori mi spingono a continuare, ho impostato la macchina su salita ripida. Spingendomi al limite. Facendomi sudare. Imponendo alle mie gambe di salire e correre più veloce, battendo i piedi a ritmo con la musica: il mio allenamento è la metafora della mia vita.

    È ora di andare, Anabelle. È ora di andare. I piedi scandiscono il ritmo delle parole.

    È ora di cambiare. Le mie gambe si muovono al ritmo della cantilena.

    È ora di…

    «Ehi, hai quasi finito con questa macchina?» La domanda è seguita da un colpetto sull’avambraccio. Do un’occhiata, curiosa di scoprire chi sia la persona con il fegato di interrompere il mio allenamento.

    Non mi tolgo nemmeno gli auricolari, la mia coda di cavallo ondeggia mentre scuoto la testa. «Altri quindici minuti.» Controllo la stanza, la fila di tapis roulant liberi. «Potresti usare uno di quelli.»

    Cerco di essere più educata possibile, ma lui resta in piedi a guardarmi. Muove le labbra, ma con le orecchie tappate, riesco a malapena a capire cosa stia dicendo.

    Continua a muoverle.

    Tolgo un auricolare, tenendolo vicino alla testa. «Che c’è?»

    «Questo è il mio tapis roulant portafortuna.» Mi fa un sorriso enorme, convinto che mi farà sloggiare in un attimo.

    Si sbaglia. «Il tuo tapis roulant portafortuna? Ma non mi dire.»

    Seriamente, chi crede a una cosa del genere? È da stupidi.

    «Sì. Il numero sette mi porta fortuna.»

    Do una rapida occhiata, contando le macchine da destra a sinistra. Ha ragione; occupo il settimo tapis roulant.

    «Okay, bene, dammi altri tredici minuti, ed è tutto tuo.»

    Incrocia le braccia al petto. «Posso aspettare.»

    «Puoi, uhm, aspettare laggiù?»

    Lo trovo un po’ invadente e mi sta innervosendo.

    Decisa a ignorarlo, mi rimetto la musica nelle orecchie, aumentando il volume per sovrastare le sue chiacchiere. Muove di nuovo le labbra.

    Mi indico le orecchie. «La musica è troppo forte, non riesco a sentirti.»

    La bocca del ragazzo si incurva in un sorrisetto compiaciuto, e se non sapessi che è impossibile, giurerei che abbia detto Grazie a Dio non somigli affatto a tuo padre.

    Non può aver detto una cosa simile, vero? Questo tizio non mi conosce nemmeno.

    Non sa che mio padre è il Coach Donnelly, l’allenatore con più vittorie all’attivo in tutta la storia del wrestling universitario. Non sa che sono qui per vivere con lui e con la mia matrigna, finché non riuscirò a trovare un posto fuori dal campus, prima possibile, perché papà mi sta sempre addosso e rischia di farmi impazzire.

    Capisco il suo bisogno di vigilare su di me, davvero.

    Non mi vede da più di un anno, e ho vissuto ad almeno millecinquecento chilometri di distanza da lui da quando avevo otto anni, da quando mia madre aveva fatto le valigie e ci eravamo trasferite sulla costa orientale.

    Ma non sono più una bambina.

    Papà non ha bisogno di sapere dove sono e cosa sto facendo a tutte le ore del giorno. Mi prepara il pranzo come se andassi ancora all’asilo, mi lascia le luci accese all’ingresso di notte come si fa con un bambino che ha paura del buio. Sua moglie, la mia matrigna, Linda, è stata fantastica, e ha preparato la camera degli ospiti per il mio arrivo, arredandola con tutto ciò di cui avevo bisogno.

    O meglio, di cui avrei avuto bisogno se avessi avuto dodici anni.

    È tutto rosa.

    Il problema, un problema enorme a dire il vero, è che non sono più una studentessa del primo anno. Non voglio vivere con i miei genitori e sono assolutamente certa di non voler vivere in uno di quei maledetti dormitori.

    Voglio una casa o un appartamento mio. Voglio tornare a casa e sedermi sul divano in mutande, mangiare la pizza direttamente dalla scatola e guardare la TV fino alle due del mattino senza che mio padre entri nella stanza per spegnerla.

    Voglio quello che avevo prima di trasferirmi.

    Un appartamento. Una compagna di stanza.

    Amici.

    Adoro la mia famiglia, ma l’esperienza del college non è la stessa se vivi a casa dei tuoi.

    Sospirando, finalmente raggiungo il traguardo dei venti minuti e di un chilometro e mezzo all’attivo per quella mattina. Non troppo male.

    Premo il pulsante per il programma di raffreddamento sulla console dei comandi, lasciando che il tapis roulant rallenti da solo. Da una corsa sostenuta passa a una corsa leggera, fino a diventare una camminata. Mi guardo in giro e vedo il ragazzo con i capelli biondi e il sorriso arrogante appoggiato contro il muro ad osservarmi. Lo studio a mia volta.

    La maglietta senza maniche.

    I bicipiti. Il sudore sotto le ascelle che gli macchia la maglietta. I capelli umidi.

    Il logo della squadra di wrestling.

    Stringo le labbra.

    Non lo sto giudicando, semplicemente non voglio che sappia chi sono. Non ancora.

    Non se è un lottatore.

    C’è solo un modo per scoprirlo.

    Quattro minuti ancora.

    Due e mezzo.

    Diminuisco la velocità, continuando fino a quando la macchina non raggiunge due punti di pendenza. Passi lenti e stanchi.

    Il biondino si avvicina, con le cuffie appese al collo. «Finito?»

    Annuisco. «Finito.»

    Ha le mani posate sui fianchi stretti, che ovviamente non hanno un filo di grasso. Mi offre un sorriso accondiscendente. «Grazie per la comprensione.»

    Combatto l’impulso di scuotere la testa. «Bene.»

    «Vieni qui spesso?» mi domanda, avvicinandosi con una salviettina disinfettante e cominciando a pulire le maniglie del tapis roulant prima ancora che sia scesa.

    «No. Sono nuova qui.»

    «Terzo anno?»

    «Sì. Trasferita qui per il secondo semestre.»

    «Da dove?»

    Fa un sacco di domande, vero?

    «Un piccolo college dell’est.»

    Un college cattolico davvero piccolo, se vogliamo essere precisi. Lo stesso che aveva frequentato mia madre, nella città in cui a quel tempo aveva conosciuto mio padre, che stava iniziando la sua carriera da allenatore. Erano giovani ed eccitati e ancora non litigavano per tutto il tempo in cui lui era lontano e la lasciava da sola.

    Appena laureato e pieno di ambizioni, il suo primo incarico era stato quello di assistente allenatore al College Immacolata Concezione nel Massachusetts. Era finito addosso a mia madre mentre svoltava l’angolo vicino alla palestra, l’aveva fatta cadere, e quando si era mosso per aiutarla a rialzarsi… be’, il resto è storia.

    Finché era finita.

    Non so perché mamma avesse insistito tanto perché mi iscrivessi lì. Lei odia mio padre con la passione di mille soli splendenti, incolpa lui per il fallimento del loro matrimonio. E incolpa il sistema

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