Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

The learning hours
The learning hours
The learning hours
E-book434 pagine5 ore

The learning hours

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Lui non è uno stronzo, ma questo non impedisce ai suoi amici di provare a farlo diventare tale.
 
I MIEI AMICI VOGLIONO CHE IO FACCIA SESSO.
Al punto da tappezzare l’intero campus con la mia brutta faccia e la scritta a caratteri cubitali:
“Sei tu la donna fortunata che sverginerà il nostro coinquilino? Lui: un uomo socialmente impedito con un pene di medie dimensioni che cerca una partner sessuale consenziente. Tu: basta che respiri. Riccambierrà con sesso orale.
Messaggiatelo al: 555-254-5551”
   
Quegli idioti non sanno neanche scrivere. E i messaggi che sto ricevendo sono materiale per sogni erotici. Ma io non sono come quegli stronzi, non importa quanto si sforzino di farmi diventare come loro.
NON E' QUESTO IL GENERE DI ATTENZIONI CHE VOGLIO!
Un messaggio spicca tra centinaia di altri. Un numero che non riesco a convincermi a bloccare. Lei sembra diversa. Più sexy, perfino in bianco e nero.
Tuttavia, dopo averla incontrata di persona, so che non è la ragazza per me. Ma i miei amici non la smettono... proprio non ci arrivano.
Stronzi o no, c’è una cosa che non capiranno mai: le ragazze non mi vogliono.
Soprattutto lei.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2019
ISBN9788831980920
The learning hours

Leggi altro di Sara Ney

Autori correlati

Correlato a The learning hours

Titoli di questa serie (5)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su The learning hours

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    The learning hours - Sara Ney

    Sara Ney

    The learning hours

    How to date a douchebag Vol. 3

    1

    Titolo: The learning hours - How to date a douchebag Vol. 3

    Autrice: Sara Ney

    Copyright © 2019 Hope Edizioni

    Copyright © 2017 Sara Ney

    ISBN: 9788831980920

    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    Published by arrangement with Brower Literary & Management

    Progetto grafico di copertina: Angelice Graphics

    Immagini su licenza Depositphotos.com

    Fotografo: Jerzy Król | Cod. immagine: 78837280

    Fotografo: Evgenyataman | Cod. immagine: 147468257

    Traduttore: Carmelo Massimo Tidona

    Editing: Cleo

    Impaginazione digitale: Cristina Ciani

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale. 

    Senza limitare i diritti derivanti dal copyright sopra indicato, nessuna parte della presente pubblicazione può essere riprodotta, archiviata o introdotta in un sistema di ricerca, o trasmessa in qualunque forma e con qualunque mezzo (elettronico, meccanico, fotocopia, registrazione o altro) senza previa autorizzazione scritta dal detentore del copyright del presente libro.

    Tutti i diritti riservati.

    Grazie, Internet, per aver fornito l’ispirazione per le citazioni all’inizio di ogni capitolo. Sono tutte basate su vere conversazioni, flirt, avance e messaggi tra persone reali.

    Per ulteriori informazioni su Sara Ney e i suoi libri visitate il suo profilo su Facebook

    Indice

    Prologo

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    21

    22

    23

    24

    25

    26

    Epilogo

    Hope edizioni

    A Eliot, 

    lo sfortunato bastardo 

    che non ha un suo libro.

    Prologo

    1

    REX GUNDERSON 

    Manager della squadra dell’Università dell’Iowa

    Rhett Rabideaux è un brutto figlio di puttana.

    Robusto come una latrina di mattoni, lo vedo accovacciato sul tappetino da allenamento, la posa inamovibile, mentre Zeke Daniels lo afferra in una presa.

    Rabideaux è uno dei pochi nella squadra che possa battere Daniels nel suo sport.

    Mi porto il fischietto alle labbra e mi preparo a soffiare per mettere fine al loro scontro di allenamento, che si è trasformato in una gara a chi ce l’ha più lungo.

    Da ultimo arrivato, trasferito dalla Louisiana, Rabideaux sta ancora dando prova di sé, nonostante il suo impressionante primato. Quasi imbattibile, le sue statistiche sono degne del due volte campione della NCAA che è, e sono il motivo per cui è stato reclutato e portato via dalla sua università.

    I coach dell’Iowa lo volevano. Gli hanno fatto la corte.

    Lo hanno fatto firmare.

    Non so che promesse abbia fatto il coach al ragazzo – tutor, più soldi per la borsa di studio, la sua faccia sui cartelloni della scuola – ma sono state abbastanza attraenti da allontanarlo dalla sicurezza di una borsa di studio per un’altra, e portarlo nella tana da leone del suo rivale.

    E a casa mia.

    Rhett Rabideaux è il mio nuovo coinquilino.

    Si erge in tutto il suo metro e novanta quando stringe la mano a Daniels con un colpo rapido. Si allontanano l’uno dall’altro, voltandosi la schiena, senza un vincitore, e senza che tra loro corra buon sangue.

    Afferro qualche asciugamano, porgendone uno al nuovo arrivato.

    Me lo sfila di scatto dalle mani, passandoselo sulla faccia sudata. Giù lungo il naso leggermente storto, che è stato rotto una volta di troppo. Sull’occhio sinistro pesto. Sul sopracciglio su cui porta i punti per un taglio che si è fatto quando gli hanno premuto troppo forte la faccia sul tappetino durante l’allenamento della scorsa settimana.

    Questo tipo è un disastro.

    Un gigantesco disastro sudato

    Ciò nonostante… «Pivello, esci con noi stasera?»

    Si ferma, bloccando le zampe da mammut. «Dove andate?»

    Faccio spallucce. «Non so, usciamo. Per bar. Ha importanza?» Non è che lui conosca nessuno dei bar dei dintorni, cielo. Deve venire dove andiamo noi o starsene seduto sulle chiappe a casa da solo.

    «Non so. Forse.»

    «Un consiglio, Pivello: quando qualcuno ti tende la mano, prendila.»

    Non implorerò il tipo di uscire con noi, ma occasionalmente è divertente averlo accanto, ed è bello avere sangue fresco in giro per casa.

    Rhett rimugina sulle mie parole. «Chi viene?»

    Un’altra scrollata di spalle. «Non lo so, un po’ di noi ragazzi.»

    «Una festa del testosterone vuoi dire?»

    «Vaffanculo.»

    «Quindi è un sì?» Ride.

    «Io, Pittwell, Johnson. Magari Daniels e Osborne.» Anche se, a essere onesti, quei due sono talmente al guinzaglio delle loro fidanzate che è improbabile. Stanotte se ne staranno a casa, accoccolati sul divano, a guardare film da donnette, con il braccio infilato fino al gomito nelle mutandine delle loro ragazze, o a farsi le coccole, o quel che cazzo fanno.

    Mi tengo per me il fatto che probabilmente non usciranno con noi.

    Fortunati bastardi, faranno sesso piuttosto.

    «Allora, vieni o no? Non puoi startene rintanato in casa tutto il fine settimana, ti si avvizzirà l’uccello se non ti porti qualcuna a letto.»

    Lui inarca un sopracciglio malandato. «Chi dice che miri a portarmi qualcuna a letto?»

    Mirare a portarsi qualcuna a letto? Chi cazzo parla così?

    Alzo una mano per impedire a qualche altra strana stronzata di uscire dalla sua boccaccia. «Farò finta che tu non l’abbia detto.»

    «Come ti pare.» Si allontana, gettando l’asciugamano bianco intriso di sudore nel carrello della biancheria quando vi passa accanto e prendendone uno pulito dallo scaffale mentre si dirige agli spogliatoi.

    Gli vado dietro.

    Si ferma all’armadietto e si spoglia. Si abbassa i pantaloncini, si sfila la maglietta e si getta un’occhiata oltre la spalla. «Se vengo con voi stanotte mi lascerai in pace? Mi stai facendo diventare matto.»

    Si avvolge l’asciugamano attorno ai fianchi.

    «No, non ti lascerò in pace, sto cercando di spiegarti come vanno le cose, di insegnarti una cosa o due.»

    «Tu?» Ride. «Starai scherzando. Che cazzo dovrei imparare da te?»

    «Be’, per cominciare, sei troppo gentile. Alle ragazze piacciono gli stronzi. Con una faccia come quella, dovrai sforzarti di più perché vogliano il tuo uccello.»

    Arriccia le labbra in modo tutt’altro che attraente. «Oddio, grazie.»

    Lo seguo alle docce.

    Zeke Daniels è sotto un getto d’acqua, il vapore gli sale attorno mentre si lava i capelli neri. Aggrotta la fronte quando mi vede e si volta verso la parete piastrellata, rivolgendoci la massiccia barriera della sua schiena.

    Anche il suo tatuaggio, una fenice nascente circondata da luoghi geografici, mi guarda cupo.

    «Daniels, di’ al pivello qui che alle ragazze piace uscire con gli stronzi.» Lui mi ignora ma la prendo sul ridere, scherza sempre, quel ragazzo. «Vuoi almeno dirgli che è troppo gentile con le donne?»

    Silenzio.

    «Sai come sono le ragazze, gli piace quando…»

    Alla fine Zeke parla, grugnendo: «Gunderson, lascialo in pace, cazzo.»

    Gesù, quant’è scontroso questo ragazzo. «Esci stasera, Daniels?»

    Grugnisce di nuovo, strofinandosi le ascelle. «Probabilmente no.»

    «Perché? Devi guardarti L’A.S.S.O. nella manica

    Ha le braccia appena sollevate oltre la testa mentre si massaggia i capelli, e si volta per guardarmi di traverso a occhi socchiusi. «Gunderson, perché non ti fai i cazzo di affari tuoi?»

    «Be’, lo guardi?»

    «No, idiota. Guarderò quel che cazzo vorrò guardare.»

    Sì, come no. È rimasto a casa tre fine settimana di fila, a guardare film a raffica con la sua ragazza e a giocare alla famiglia coi due ragazzini a cui fanno da babysitter.

    Guarda oltre me verso Rhett e fa un risolino derisorio. «Fa’ un favore a te stesso, Rabideaux, non farti portare in giro da questo idiota. Sei troppo valido per metterti addosso la fama di essere la sua spalla.»

    Chiude l’acqua e getta irritato un altro sguardo nella mia direzione. «Se non devi farti la doccia, Gunderson, tirati fuori dal suo culo e levati dalle palle.»

    1

    1

    Hanno cercato di cenare e filarsela senza pagare il conto, ma il cameriere è saltato sul cofano della loro auto e ha rotto il parabrezza.

    RHETT

    «Brindiamo al pivello!»

    Oz Osborne, un veterano della squadra di wrestling, si alza in piedi al tavolo attorno a cui la squadra è riunita. Tutta la squadra, infilata nella sala da pranzo di un qualche ristorante a orario continuato fuori dal campus, per quella che definiscono una cena di benvenuto in squadra dopo l’allenamento.

    «Su, su! Un brindisi» urla qualcun altro ridacchiando.

    Osborne solleva il bicchiere d’acqua in aria, inclinando il corpo nella mia direzione e parlando direttamente a me. «Pivello, potremmo mettere in dubbio le decisioni della tua vita sulla base della tua scelta dei coinquilini,» lancia un’occhiata e un ghigno a Rex Gunderson ed Eric Johnson, «e alla tua capacità di vestirti, ma, in puro stile dell’Uni dell’Iowa, ti diamo ufficialmente il benvenuto in squadra.»

    Alza ancora di più il bicchiere. «Alcuni avevano delle riserve sul fatto di averti tra noi,» getta uno sguardo rapido in direzione di Zeke Daniels, che lo ricambia subito con un’occhiataccia, «ma ti guardiamo le spalle.»

    «E il davanti» giunge un urlo.

    «Finché non inizi a perdere» aggiunge qualcun altro sottovoce.

    Osborne ridacchia e mi indica. «Ha ragione. Se inizi a perdere, ti cacciamo a calci nel culo.»

    Altre risate. «Non dovremmo solo brindare al prenderlo a calci in culo?»

    «Alzate tutti il bicchiere per il Pivello e sbrigatevi. Io e Daniels dobbiamo filarcela, il suo fratellino ha una recita a scuola o qualche altra stronzata del genere.»

    La stanza si riempie di urla e grida di esultanza da parte dei miei nuovi ed eccessivamente turbolenti compagni di squadra che bevono entusiasti acqua, soda e tazze di caffè attorno al tavolo coperto di lino, i liquidi che si versano sulle tovaglie bianche. Un’enorme quantità di cibo invade il lungo tavolo da banchetti: pasta, hamburger, antipasti, patatine fritte, bottiglie di ketchup e senape. Alcuni hanno ordinato milkshake e caffè speciali, e c’è anche del gelato.

    Impreco sottovoce: che branco di lavativi. Abbasso lo sguardo sul ketchup accanto alla mia forchetta e al cucchiaio. «Torno subito» borbotto a Gunderson, spingendo indietro la sedia e alzandomi. «Devo pisciare.»

    Lui annuisce con un sorrisino, gli occhi che saettano attorno al tavolo. «Fa’ con comodo.»

    Mi sbrigo a fare una pisciata, mi lavo le mani e mi guardo allo specchio. Noto il mio volto cupo e senza sorriso. I lividi. I capelli a cui farebbe bene un taglio. Le orecchie che sono state schiacciate fin troppe volte dal caschetto negli ultimi anni.

    Afferro il ripiano con le mani e mi appoggio in avanti.

    «Che cazzo ci fai qui, Rabideaux?» si chiede il riflesso. «Che. Cazzo. Ci. Fai. Qui?»

    Che cazzo mi ha posseduto per farmi cambiare scuola quando avrei potuto restare in Louisiana? Concludere la stagione da campione, iniziare una carriera invece di far agitare e deludere i miei genitori, abbandonare le mie radici, trasferirmi mezzo paese più in là.

    Per cosa? Una borsa di studio più sostanziosa? Più spese pagate? Per avere una faccia che nessuno vorrebbe vedere stampata sui cartelloni universitari?

    Ne è valsa la pena?

    Mi do un’altra severa occhiata, disgustato, prima di raddrizzarmi.

    «Pazzo da legare, ecco cosa sei.» Impreco contro me stesso un’ultima volta prima di buttare l’asciugamani di carta nel cestino.

    Apro la porta metallica del bagno e la attraverso, spingendola.

    Torno verso il tavolo pieno di…

    Nessuno.

    Mi ritrovo in una sala da pranzo piena di tavoli vuoti, a parte un paio di tavolini laterali e passanti incuriositi, famiglie e altri clienti che mangiano, ma nessun lottatore di wrestling.

    Tutta la cazzo di squadra è sparita.

    Mentre mi avvicino con cautela al tavolo, la nostra giovane cameriera compare dal nulla, blocchetto in mano, matita dietro l’orecchio, spossata.

    Mi afferra dalla manica della maglietta e: «Grazie a Dio è ancora qui! Meno male! Pensavo ve ne foste andati tutti!»

    «In che senso pensavi ce ne fossimo andati tutti?» Do un’occhiata alla porta. «Un momento, i miei amici se ne sono andati?»

    Quasi mi strozzo con la parola amici, non mi sfugge l’ironia della situazione. Degli amici non ti farebbero una stronzata del genere, e questi tizi li conosco a stento.

    «Sì, sono scappati fuori; ero letteralmente sul punto di dare di matto, ho pensato che di sicuro ve ne foste andati senza pagare.» Continua a parlare, ignara della mia confusione.

    «Aspetta un attimo: che vuol dire che sono scappati fuori?» Ho bisogno che me lo spieghi senza mezzi termini.

    «Be’, uh, vuol dire… già. Sono, uh, scappati fuori.»

    «So cosa significa scappare, non dicevo in senso letterale.» Mi infilo le dita tra i capelli e li sento drizzarsi quando le ritiro. «Cazzo

    La ragazza sobbalza.

    «Mi hanno davvero mollato?» chiarisco. «Sei sicura che se ne siano andati?»

    Mi rifiuto di credere che mi abbiano lasciato qui. Dovremmo essere una cazzo di squadra. Ci contavo.

    Quel coglione di Brandon Ryder mi ha portato qui con la sua merda di macchina disastrata, e scommetterei cinquanta dollari che non è più posteggiata fuori ad aspettarmi per riaccompagnarmi alla casa che divido con Gunderson ed Eric.

    La minuta cameriera mi batte nervosamente un dito sulla spalla. «Uh, odio dover peggiorare la situazione, ma, uh… presumo che, dato che è ancora qui, sia lei quello che paga.»

    «Scusa, cosa

    «Pagare. Per tutto il cibo.»

    Ha appena detto pagare per tutto il cibo?

    Scuoto la testa involontariamente. «Che significa tutto il cibo?»

    «Non hanno pagato. Per, uh, niente di quello che avete preso.»

    «Scusa, cosa

    «Sta bene, signore?» chiede la cameriera, facendo un passo indietro. «Continua a ripetere le stesse cose. Sta avendo un ictus? O forse un attacco epilettico?»

    «Non hanno pagato?» Stringo i pugni. «Quei cazzo di…»

    Stronzi. Quei cazzo di stronzi mi hanno mollato col conto da pagare.

    «Quant’è?» Cerco di prepararmi a sentire il totale, calcolando che sarà attorno ai cento, magari duecento, massimo due e cinquanta.

    «Quattrocentot…»

    «Cosa!» urlo. So che è troppo forte e che il ristorante è pieno di gente, ma non me ne frega un cazzo al momento. Offeso e incazzato non si avvicinano nemmeno a descrivere le sensazioni che mi scorrono nelle vene al momento. Vorrei prendere qualcosa a pugni. «Perché cazzo hai lasciato che si alzassero e se ne andassero da qui?»

    So che sto facendo scaricabarile, ma non mi interessa. Non mi importa che non sia colpa sua. Mi serve qualcuno da incolpare, e lei è proprio davanti a me, a torcersi le mani con aria colpevole.

    «Signore, sono scappati, io…»

    «Shh, smetti di parlare. Lasciami pensare per un minuto.»

    «Sono così nervosa, mi dispiace: nessuno se ne è mai andato lasciando un conto così alto prima. Di solito è, insomma, molto meno di così. A volte la gente si porta perfino saliera e pepiera.»

    Il suo guardo saetta sulla porta d’acciaio che presumo sia della cucina, poi va alla cassa vicino alla porta dove abbiamo atteso per il tavolo quando siamo entrati. «Potrei andare a parlare con la direttrice e spiegarle la situazione, ma ho paura che chiamerebbe la polizia.»

    La polizia?

    Merda.

    Scuoto la testa, passandomi di nuovo la mano tra i capelli spettinati.

    «Lascia perdere, qualcuno deve pagare o ti licenzieranno.» Perché hai lasciato che si alzassero e se ne andassero senza pagare quel cazzo di conto.

    «Mi dispiace davvero.»

    «Anche a me.»

    «Allora…» Strascica i piedi, mi passa la cartellina nera che contiene il conto e una penna a sfera. «È tutto scritto in dettaglio.»

    Che pratico, ovvio che è tutto in dettaglio. «Per comodità?»

    Furente, le strappo il conto dalle mani, lo apro e lo esamino.

    Shake – 5

    Soda – 10

    Hamburger – 4

    Cheeseburger – 2

    Sandwich al pollo – 1

    Gamberi Alfredo con gamberi extra – 1

    Insalata di contorno – 4

    Zuppa – 3

    Spaghetti – 1

    Ali di pollo – 5

    Anelli di cipolla – 1

    Bastoncini di Mozzarella – 1

    Cetriolini fritti – 1

    Cestino di pane – 1

    Gelato – 1

    Crostata – 9

    Bistecca – 6

    Chi cazzo ordina bistecche in una Pancake House?

    Piego il conto in due, resistendo alla tentazione di strapparlo in un milione di pezzettini del cazzo.

    «Quei ragazzi erano suoi amici?» mi interrompe la piccola cameriera. «Magari non si sono resi conto che era ancora qui?»

    Le lancio un’occhiata: ma è couyon? Pazza? Non è possibile che creda che sia stato un incidente, e dico a voce alta quello che stiamo pensando entrambi: «È nonnismo.»

    Merda. Davvero è nonnismo.

    Non solo viola la politica del dipartimento di wrestling e atletica, ma anche il codice di condotta dell’università. In effetti infrange anche parecchie regole della scuola, e ci sono talmente tante cose sbagliate in tutto questo scenario che mi ci vorrebbe l’intera notte per elencarle. Se i nostri coach lo scoprissero, probabilmente la squadra verrebbe sospesa.

    La cameriera, Stacy stando alla targhetta col nome, si morde un labbro e mi guarda dal basso coi suoi ingenui occhioni da cerbiatta. «Mi è sembrato strano quando sono corsi via così in fretta. Un ragazzo è inciampato nei suoi lacci ed è caduto lungo sul tappeto.»

    Mi chiedo chi possa essere stato, idioti.

    «Già, be’, mi sta bene per essere andato in quel cazzo di bagno, eh?»

    «Come intende pagare?» La cameriera sposta a disagio il peso sulla punta dei piedi prima di allisciarsi i capelli. «Mi sento così male, ma ho altri tavoli da servire. Se non paga, probabilmente verrò davvero licenziata…»

    Gesù. Non posso neanche prendere fiato.

    «Carta di credito, immagino.»

    Prendo il telefono e sblocco l’app della carta di credito per poi passarlo alla cameriera.

    Lei lo guarda, confusa. «Non ha una vera carta di credito? Devo strisciarla, non credo di poter scansionare questo. Siamo piuttosto arretrati qui.»

    Sospiro rumorosamente, estraggo il portafogli dalla tasca posteriore e le piazzo la carta nel palmo aperto in attesa, pronto a prenderla nel culo… metaforicamente parlando, s’intende.

    Stacy sorride gioiosa. «Grazie! Torno subito!»

    Già, nessun cazzo di problema! Aspetterò proprio qui perché non sono un coglione del cazzo!

    E come niente fosse, quattrocentotrenta dollari e cinquantasette centesimi che non ho se ne vanno nella tazza del cesso; e non dimentichiamoci dei miei genitori, che mi uccideranno, specie dopo che ho litigato così tanto con loro per trasferirmi in Iowa.

    Dopo che il mio pagamento passa e firmo per l’addebito, esco con una ricevuta lunga quasi trenta centimetri e cerco di infilarmela nella tasca posteriore.

    La mancia era inclusa, visto che era un gruppo così numeroso.

    Inspira.

    Espira.

    Scarico tutta la mia frustrazione nel parcheggio, con una sequela di imprecazioni a volume abbastanza alto da svegliare mia nonna morta e farla far sotto a un’anziana coppia che sta entrando. La donna si stringe la borsetta al petto mentre il marito la spinge a entrare in fretta, entrambi mi guardano come se avessi perso la testa.

    «Coglioni!» urlo, dando pugni all’aria. «Stronzi di merda!» Do un calcio al cordolo, poi lascio andare un’altra serie di imprecazioni quando mi schianto le dita contro il cemento.

    «Cazzo. Cazzo. Putain de merde. Fanculo la mia vita!»

    Le imprecazioni mi escono dalla bocca come un’onda di marea ma non fanno niente per placare la tempesta che mi infuria dentro. Elenco un errore dopo l’altro: alla fine della fiera, devo ai miei genitori quattrocento dollari, fatto. Subisco atti di nonnismo dai miei stessi compagni di squadra, fatto. Sono in un college nel bel mezzo del nulla, fatto. Non conosco anima viva a parte gli stronzi che mi hanno appena preso per il culo, fatto.

    E mi hanno anche lasciato a piedi.

    Tic. Tac.

    Afferro il telefono dalla tasca posteriore per sparare un messaggio a quegli idioti dei miei coinquilini.

    Io: Riporta qui il culo e vienimi a prendere.

    Gunderson: LOL ti sei già calmato?

    Io: Vieni qui e scoprilo.

    Gunderson: Non se hai intenzione di litigare.

    Io: Dimmi solo una cosa: di chi è stata l’idea?

    Gunderson: Non te lo dirò.

    Io: Allora posso solo presumere che sia stata tua.

    Gunderson: No, amico, fidati.

    Io: Com’è che non ti credo?

    Gunderson: Perché avrei dovuto farti una stronzata simile quando mi tocca VIVERE con te?

    Io: Be’, hai PERMESSO CHE MI LASCIASSERO QUI.

    Gunderson: Già, perché l’ultima cosa che voglio è che facciano la stessa cosa a ME.

    Io: Grazie mille, stronzo

    Gunderson: Quando vuoi, amico. Fammi rimettere i pantaloni. Sono lì tra dieci minuti.

    LAUREL

    «Ehi, hai visto quei ragazzi?»

    Sono seduta in una tavola calda a leggere il programma di Letteratura Inglese per assicurarmi di non essermi fatta sfuggire nessun elemento chiave per il compito che dovrei star scrivendo: non posso permettermi di perdere neanche un punto.

    Appoggiandomi allo schienale del divanetto in vinile, poso l’evidenziatore e alzo la testa, inarcando un sopracciglio verso il mio coinquilino, Donovan.

    «Che ragazzi?»

    «Se mi dici che non li hai notati ti dirò che sei una bugiarda.» Ride e si mette in bocca una cucchiaiata di waffle. La panna gli si appiccica al labbro inferiore e lui la lecca prima di prendere un altro boccone. «Dio sa che io l’ho fatto.»

    «Non sono qui a cercare appuntamenti.»

    «Giusto, ma a volte gli appuntamenti trovano te. I ragazzi non riescono a non caderti ai piedi.» Fa un occhiolino, cacciandosi altro waffle in bocca. «Quello è un bel gruppetto di muscolosi maschi eterosessuali, se ne ho mai visto uno.»

    «Ohhh, povero Donovan» lo prendo in giro. «Sbavare su un gruppo di ragazzi etero.»

    «La storia della mia vita.» Spinge un sospiro teatrale fuori dalle labbra imbronciate, rigirando la cannuccia nel bicchiere d’acqua. «Ma questo non mi impedirà di guardarli.»

    «Non ci provi nemmeno.»

    «Senti chi parla.» Si interrompe per cacciarsi dell’altro cibo in bocca. «Oh cavolo, ragazza, qui si inizia a fare sul serio.»

    Ho ancora la testa china, l’evidenziatore che vola lasciando striature fluorescenti sul programma. Il mio coinquilino commenta come un giornalista sportivo, dandomi una cronaca minuto per minuto degli eventi che si stanno svolgendo dall’altra parte della stanza.

    «Eccoli che vanno signori, dieci… no, dodici ragazzi vigorosi che schizzano fuori dalla porta. In coda al gruppo c’è il numero sette, dalla partenza lenta e dalle cosce impeccabili. Capelli castani, questo campione è una star ma non riesce a stare in piedi.»

    Alzo lo sguardo, divertita. Vedo un ragazzo con una maglietta rossa inciampare sulla porta, ruzzolando all’ingresso. Miagola vicino al distributore di chewing-gum. Si lancia nel parcheggio.

    «Ecco che vanno, signore e signori, e a proposito scommetterei che se la stanno filando, o sono inseguiti dall’esattore delle tasse o non hanno pagato il conto. Quale delle due potrebbe essere…»

    Allungo il collo, guardando la tavola calda ora vuota e poi fuori dalla finestra, verso il parcheggio, dove i robusti ragazzi, tutti atleti, si stanno infilando come clown da circo in tre auto. Partono in volata, senza lasciarsi dietro altro che polvere.

    Inarco le sopracciglia rosse. «Mordi e fuggi?»

    «Oh sì, assolutamente.»

    Mi batto il tappo dell’evidenziatore giallo sul mento. «Non avevo mai visto nessuno farlo davvero.»

    «Sul serio? Non sei mai scappata senza pagare il conto?»

    Lo guardo fisso, incredula. «Ma parli sul serio? No! Tu sì?»

    «Una volta.» Ride. «Va bene, due volte, ma ero giovane e stupido e non avevo soldi. Ho anche rubato il menù e le posate.» Ridacchia. «Che stupido.»

    A questo non posso obiettare, perciò mi concentro sul mio cibo prima che si raffreddi: una bassa pila di pancake, salsicce, pane tostato e tè freddo, con ghiaccio extra.

    Scarto una tavoletta di burro avvolta in carta dorata, la metto tra due strati di pancake e aspetto che si sciolga.

    «Merda.» La forchetta di Donovan è sospesa sopra il piatto.

    «E adesso che succede?»

    Mi giro sul divanetto, gettandomi i capelli rosso ruggine dietro una spalla prima di appoggiare il braccio sullo schienale. Assieme, io e il mio coinquilino guardiamo un ragazzo uscire dal bagno in fondo al ristorante.

    Esamina la stanza, le mani sui fianchi.

    Alto e in qualche modo slanciato, si infila le mani nelle tasche di una felpa della squadra di wrestling dell’Iowa mentre osserva la stanza, le sopracciglia severe aggrottate in una smorfia. Si avvicina con cautela ai tavoli, fermandosi quando la minuta cameriera gli si avvicina e gli batte un dito sul bicipite. Gli porge quello che è evidentemente il conto, gesticolando con le mani verso tutta la stanza. Indica le vetrine e il parcheggio in cui i suoi amici sono scomparsi.

    «Porca puttana.» Donovan si strozza col waffle e ne deglutisce a fatica un boccone. «Pensi che quegli atleti abbiano lasciato quel tipo col conto da pagare?»

    «Oh, sembra decisamente che l’abbiano fatto.»

    «Che teste di cazzo.» I suoi occhi hanno un accenno di luccichio, molto probabilmente per aver menzionato un cazzo. «Sono quasi certo che fosse la squadra di wrestling.»

    «Come fai a dirlo?»

    Donovan esamina velocemente il ragazzo, passando gli occhi blu su e giù lungo la sua struttura robusta. Ha la testa china e sta firmando una ricevuta che poi ridà alla cameriera, accigliato.

    Marcia verso la porta e la attraversa per poi fermarsi fuori. Guardandosi attorno, il golia esamina il parcheggio con le mani sui fianchi: guarda a sinistra, guarda a destra.

    «Be’, per cominciare, quasi tutti avevano addosso qualche capo di vestiario dell’Iowa Wrestling.»

    «Capo di vestiario, Donovan?»

    «Shhh, non interrompere le mie riflessioni.»

    «In tal caso, ti prego, non lasciare che ti interrompa, procedi.»

    «Tutto qui. Erano quelle le mie riflessioni.»

    Alzo gli occhi al cielo, spostando l’attenzione sul parcheggio. Il suono di imprecazioni attutite mi solletica le orecchie e mi sforzo per sentirle. Le parole potranno anche essere smorzate dai doppi vetri, ma, da dove sono seduta, riesco a leggerle perfettamente sulle sue labbra: «Cazzo, cazzo, cazzo. Cazzo. Fanculo la mia vita.» Divertita, ridacchio tra me, nascondendo il sorriso dietro un bicchier d’acqua. Dio, a volte sono una tale idiota.

    Il ragazzo fa un profondo respiro. Stringe i pugni ai fianchi.

    Lo guardo mentre le sue spalle larghe e robuste si curvano sul telefono e batte furiosamente le dita sullo schermo. Poi urla ancora un po’, agitando le braccia, prendendo l’aria a pugni. Dovrebbe davvero calmarsi, la faccia tutta rossa non gli sta per niente bene.

    «Pensi che dovremmo offrirgli un passaggio? Sembra che lo abbiano anche lasciato qui.»

    Donovan appare così speranzoso che inizio a ridere. «Oh mio Dio, no! Guarda quant’è incazzato, non esiste che lo lasci salire in auto con noi. Potrebbe essere un violento.»

    Donovan agita un sopracciglio depilato. «Rilassati. Non ci ucciderà.»

    Taglio una fettina di pancake e mi infilo la delizia al burro in bocca. Mastico. Ingoio. «Già, no. Non gli daremo un passaggio.»

    «Sei davvero stronza.» Ride, tornando al suo waffle. «Lo sai che gli daresti sicuramente un passaggio a casa se fosse sexy.»

    Il mio collo si muove di sua iniziativa e mi ritrovo a fissare il ragazzo attraverso la finestra: i fianchi stretti e i jeans fuori moda un po’ troppo alti in vita, il maglione largo, i capelli incolti che continua ad allontanarsi dagli occhi, le barre colleriche che chiama sopracciglia.

    È enorme, dinoccolato e ha i capelli troppo lunghi. La faccia sembra ammaccata e il naso è storto.

    Non è carino.

    Per niente.

    Agitato, saltella nelle sue sneakers sulla punta dei piedi un paio di volte prima di tirarsi il cappuccio sulla testa: somiglia a un lottatore di MMA che smania per una zuffa.

    È incazzato e sta facendo una paternale al nulla, cosa che lo fa sembrare un tantino pazzo.

    Donovan ha ragione: probabilmente gli darei un passaggio se fosse di più bell’aspetto.

    Ma non lo è.

    Quindi non lo farò.

    «Sono certa che troverà il modo di arrivare a casa» concludo, infilandomi una salsiccia in bocca. «Sembra che sappia cavarsela.»

    Il campus non è lontano, può andare a piedi.

    «No, per niente.» Donovan ride. «Sembra che riesca al massimo a contare fino a nove con le dita.»

    Per quanto la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1