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L'inciampo degli déi. La crisi della Germania
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E-book922 pagine7 ore

L'inciampo degli déi. La crisi della Germania

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Le capitali Europa sono sferzate da raffiche violente di paura, amarezza, odio, disincanto e nemmeno la locomotiva Germania, del quarto governo Merkel, è al sicuro. Anzi.
Questo libro non convenzionale sulla nazione che più di altre rappresenta stabilità e sicurezza, è stato scritto da un insider, che da anni vive a Berlino. Il lettore italiano entra per la prima volta in un’atmosfera ben diversa da quella edulcorata descritta dai media nazionali: milioni di nuovi tedeschi emarginati, tra cui molti pensionati costretti ancora a lavorare; un bambino su sette a rischio povertà; cittadini indebitati più delle presunte cicale italiane; banche sull’orlo del crollo; militarizzazione della società; gravi tensioni razziali; mafie che dominano come e più che a Palermo.
In Germania, considerata la leader economica d’Europa, rischiano di crollare le mura di cinta intorno a Berlino…
 
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2020
ISBN9788832281460
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    Anteprima del libro

    L'inciampo degli déi. La crisi della Germania - Matteo Corallo

    edizioni

    © Copyright Argot edizioni

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    Lucca, maggio 2020

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 978-88-32281-46-0

    Introduzione

    Mentre le ultime pagine di questo libro vengono scritte, fuori dalla finestra della mia casa berlinese infuriano diversi venti provenienti da lidi lontani, e che spesso si intrecciano tra di loro formando dei piccoli vortici, i quali però permangono per intere settimane. E possono diventare dei tornado. Il vento più forte che dagli ultimi mesi a questa parte sta spirando sull’Europa intera e che ha raggiunto anche la capitale Berlino, dove vivo dal 2013, proviene da Sud, dalle lontane province ex europeiste dell’Italia e della Spagna. È uno scirocco di dolore, protesta, mesta tristezza, rabbia mal soppressa e financo scandalo per come l’Unione Europea, con in testa la Germania, poco o nulla abbia fatto per aiutare economicamente quelle due nazioni flagellate dalla tempesta perfetta del coronavirus proveniente dall’Estremo Oriente. Anche nella stessa Germania quel forte vento batteriologico da Levante ha causato danni non indifferenti alla salute sanitaria dei propri ricchi abitanti − almeno così si narra dal Brennero in giù − e a quella economica delle proprie aziende, anch’esse una volta colme di fatturati e profitti, seppur distribuiti a man bassa tra pochi azionisti privilegiati.

    Dicevo appunto che, mentre questo libro sta per essere ultimato, fuori dalla finestra del mio studio, dalla quale entrano pochi e timidi raggi di sole, spirano furiosi venti violenti. Cadono alberi della cuccagna che sembravano incrollabili, si piegano perfino alti edifici d’acciaio e vetro; anche la Torre di Babele della BCE a Francoforte rischia di franare con dentro le migliaia di impiegati europei, che da tempo non si capiscono nelle loro numerose lingue. Eppure non è la prima volta che i venti infuriano anche qui, anche se il Fortino Germania, situato a sua volta ben protetto dentro la Grande Fortezza Europa, sembra si sia trovato ancora una volta impreparato. Già ciclicamente dal 2009 al 2011, e poi nell’anno di grazia 2015, forti raffiche di odio e protesta giunte fin qui dall’Ellade contemporanea detta Grecia, si erano limitate a far cadere dei cappelli a tesa larga e a scompigliare le acconciature dei politici tedeschi, lambendo appena le vite di molti ignari cittadini. La grave crisi dei debiti sovrani che, oltre alla Grecia massacrata da lì a qualche anno dalle misure di austerity targate UE e FMI, aveva coinvolto altre nazioni come la Spagna, l’Irlanda ed ovviamente anche noi italiani, non aveva infatti fatto cambiare rotta alla Capitana Angela Merkel e alla sua ordinata ciurma, composta da socialdemocratici e cristiano-democratici, con dietro i velieri della Confindustria tedesca a controllare che il tragitto seguito fosse quello prestabilito in precedenza in cabina di regia. Il timone doveva e deve tuttora essere tenuto dritto nella prosecuzione del proprio export, il più grande al mondo assieme a quello cinese, unito all’implacabile obbligo per gli altri Paesi europei di fare i compitini a casa e di seguire le ricette macro-economiche concepite nei think tanks di Bruxelles e Berlino. Per compiti da svolgere, pena punizioni anche corporali, si intendono le privatizzazioni dei propri beni nazionali e demaniali, i tagli di salari e pensioni, i licenziamenti di massa, soprattutto per i dipendenti pubblici, i contratti precari a termine e pagati poco, l’emigrazione selvaggia dei propri giovani migliori soprattutto, guarda caso, in Germania, oltre alla svendita dei propri assets nazionali come aeroporti e porti, la tassazione aumentata a dismisura per inseguire il mitico pareggio di bilancio e via discorrendo. Per maggiori dettagli si consiglia di chiedere agli amici greci.

    Nel frattempo, come si accennava nelle prime righe, altri vènti hanno continuato a flagellare il Vecchio Continente, termine quanto mai azzeccato. Prima la grave crisi dei profughi siriani nell’estate del 2015, fatti entrare unilateralmente dalla Germania senza consultare gli altri Paesi, poi la Brexit nel giugno del 2016, che ha segnato la prima e decisiva crepa del progetto europeo, la vittoria di Trump sempre nel 2016, che ha subito dichiarato la volontà di scatenare una guerra commerciale contro l’export tedesco, le cicliche emergenze migratorie, nelle quali i Paesi europei sono andati in ordine sparso, per poi arrivare alla crescita dei cosiddetti populisti o sovranisti anti-Europa; infine, la recente crisi sanitaria ed economica da coronavirus, che ha definitivamente mostrato come il re europeo fosse nudo nella sua mancanza di strategia politica, figuriamoci in quella di solidarietà tra gli appartenenti al club. Eppure, complice anche una stampa italiana a stragrande maggioranza univoca nell’elogio sperticato della cosiddetta locomotiva d’Europa, il mito di una Germania benestante, granitica, sicura di sé, stabile, calma, efficiente e razionale ha fin qui tenuto. Uno degli scopi di questo libro, concepito dopo anni di osservazione in presa diretta del mito teutonico da Berlino e da altre città tedesche, è proprio quello di analizzare se questa narrazione possa reggere ad una seria prova dei fatti. Non sussiste pertanto nessun astio né livore da emigrante italiano verso la Germania, anche se alcune parti del libro potrebbero sembrare impregnate di questi ed altri sentimenti negativi nella durezza delle critiche. L’unica curiosità è di appurare se la locomotiva d’Europa sia ancora così efficiente e veloce, o se magari di nascosto manchino delle scorte di carbone ed i sapienti macchinisti non ci abbiano detto nulla, oppure se invece il vagone tedesco abbia da tempo intrapreso la strada del binario morto, senza accorgersene.

    Questo libro, scritto interamente a Berlino, quella capitale glamour del Quarto Reich economico di stampo merkeliano, si intitola L’inciampo degli dèi. Chiaro il mio intento ironico, quello cioè di sdrammatizzare in un certo senso, ma anche di rifarmi in maniera ideale al ben più drammatico film di Luchino Visconti del 1963, La caduta degli dèi. Per chi non l’avesse mai visto, il film narra le vicende violente della Germania del 1933, l’anno in cui Hitler andò al potere. I fiumi di sangue scorsero copiosamente e per dèi il regista intendeva anche quella classe sociale privilegiata, rappresentata nel film viscontiano da una ricca famiglia dell’acciaio, caduta appunto di fronte all’ascesa delle camicie brune prima, sterminate a loro volta in una violenta lotta di potere, ed in seguito delle SS. Una doverosa precisazione: il mio libro non è ovviamente così drammatico e, invece delle rovinose cadute dell’allora élite economica, preferisco narrare dei continui inciampi nei quali sta incappando l’odierna classe politico-dirigenziale della Germania contemporanea, col rischio però di cadere definitivamente, trascinando con sé quella parte d’Europa che pende ancora dalle sue labbra.

    Per fornire alcuni piccoli lampi al lettore, sappia per esempio che nelle prossime pagine scoprirà come un’intera parte del Paese locomotiva d’Europa a 30 anni dalla riunificazione abbia al suo interno regioni povere come il nostro Mezzogiorno; come i dati ufficiali sulla disoccupazione siano gravemente falsati; che vi siano milioni di pensionati costretti a lavorare per arrivare a fine mese; che 1 bambino su 7 sia a rischio povertà; di come l’indebitamento privato dei tedeschi sia maggiore di quello di noi italiani; che i cantieri spesso durino più che in Italia; come i rischi di una guerra civile siano concreti; che il multiculturalismo abbia fallito; che le mafie anche qui, come in Italia, dominino interi settori dell’economia; come la violenza politica stia aumentando a vista d’occhio; come nei prossimi mesi milioni di persone rischino di perdere il loro lavoro, per non riacquistarlo mai più; come le due maggiori banche nazionali siano di fatto fallite e vadano perciò salvate con i soldi dei contribuenti; che la Germania, caso forse unico in Europa, da anni stia assoldando soldati minorenni nel proprio esercito; che la militarizzazione della società sia un dato di fatto; di come nella stessa Germania si discuta se avere la propria bomba atomica; ed infine di come la capitale Berlino non sia proprio quell’esempio di alternatività e libertà che viene fatto credere ai molti italiani infatuati di questa città.

    Questa lista è solo un assaggio. Il libro, diviso in 12 capitoli, come fossero delle stazioni di un improvvisato Golgota tedesco, un breve epilogo ed una piccola appendice di 2 racconti, può essere letto in senso inverso od anche in ordine sparso, se vogliamo. Ho cercato di seguire comunque una logica, partendo dalla situazione economica e politica interna alla Germania, per poi via via alzare lo sguardo oltre i confini tedeschi ed analizzare i rapporti del Paese con quelli degli altri, Stati Uniti e Russia in special modo, anche se non poteva certo mancare un riferimento importante all’Europa e alla Brexit, cui ho voluto dedicare un intero capitolo. Nell’ultimo capitolo si ritorna invece nel cuore della Germania, con una serie di approfondimenti su Berlino, città in cui vivo da oramai 7 anni e nella quale ho concepito l’idea stessa di questo manoscritto. Si potrebbe infine dire, usando un termine caro agli inglesi, che il lettore possa leggere questo report sulla Germania, scritto da un insider, attraverso la tattica del "cherry picking", ossia di selezionare solo quelle ciliegie che più gli aggradano, ignorando le altre.

    L’unica mia speranza è che alcune di quelle scoperte, riportate nelle prossime pagine e spesso volutamente nascoste in Italia, non abbiano un sapore troppo amaro.

    Berlino, 31.03.2020 Matteo Corallo

    DEDICA

    Dedicato a Paolo Barnard

    e a Michele di Udine

    e a tutti gli altri combattenti

    senza voce

    CAPITOLO 1. LA GERMANIA MERKELIANA TRA VECCHIE RICCHEZZE E NUOVE POVERTÀ

    1.1 L’infatuazione sinistra per il modello tedesco

    Politicamente parlando, uno dei problemi più sentiti nella Germania contemporanea è la lenta ma costante crescita del partito di destra dell’AfD, in special modo nelle sue regioni orientali, ed il parallelo calo di consensi per i socialdemocratici della SPD. Quest’ultima forza politica, che negli ultimi anni ha fedelmente governato attraverso la grande coalizione assieme alla Signora Merkel, non è un partito qualsiasi. Stiamo infatti parlando del più antico partito socialdemocratico ancora esistente al mondo, essendo stato fondato nel 1875. Ma come ha fatto questo glorioso movimento politico tedesco, per tradizione difensore degli interessi dei lavoratori (almeno a parole), a scendere stabilmente sotto la soglia del 20%?¹ E cosa ha a che vedere il suddetto declino sia con la crescita dei tassi di povertà sia con l’avanzata dei cosiddetti populisti di destra in Germania? Per tentare di capirne le cause, dovremmo iniziare con una disamina profonda delle riforme del mercato del lavoro e del sistema di protezioni sociali, iniziate proprio con un governo di sinistra. Per fare ciò, è necessario tornare indietro di almeno 20 anni.

    Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni Duemila la Germania, da nemmeno 10 anni riunificata, è in crisi economica profonda. Oltre alle migliaia di miliardi di marchi trasferiti dalle regioni occidentali più ricche verso quelle orientali più povere, facenti una volta parte della Germania Est socialista ed ora in difficoltà, vi sono ben altri problemi. In primo luogo il mercato del lavoro risulta farraginoso con tutti i lacci e lacciuoli burocratici che impediscono alle aziende di licenziare liberamente, anche quando sarebbe necessario; la popolazione sta invecchiando drammaticamente; il livello delle università sta scendendo pericolosamente verso il basso, mentre sono presenti milioni di disoccupati senza prospettive. La situazione è così grave che il quotidiano finanziario Economist nell’estate del 1999 se ne esce con un’eloquente copertina² dal titolo "Germania, il grande malato d’Europa. Nel 1998 il partito socialdemocratico della SPD vince nettamente le elezioni, dopo più di 15 anni di dominio incontrastato del cristianodemocratico Helmut Kohl, padre politico della riunificazione tedesca, il quale all’inizio degli anni ’90 si era dovuto dimettere sull’onda lunga di uno scandalo legato a finanziamenti illeciti ricevuti da un mercante d’armi, nel quale il cancelliere era rimasto appunto coinvolto³. A succederle alla guida della CDU fu una giovane, quanto sconosciuta tedesca dell’est chiamata ironicamente da Kohl la ragazza", il cui nome è Angela Merkel.

    Ma torniamo alle elezioni del 1998: la SPD vince grazie al suo candidato di punta Gerard Schröder, già avvocato nonché primo ministro della regione della Bassa Sassonia dal 1990 al 1998. Schröder vince sì le elezioni, ma non ha la maggioranza assoluta di seggi al Reichstag, il Parlamento tedesco; pertanto decide di tentare un governo di coalizione con i verdi – i Grüne – che sarebbe durato fino al 2005. Con lui la SPD, attraverso un’operazione politica di maquillage eguale e parallela a quella portata avanti dal laburista Tony Blair nel Regno Unito, svolta decisa verso il centro. Sono gli anni infatti del Nuovo Centro – Die Neue Mitte – tramite i quali la sinistra socialdemocratica tedesca si imbarca volontariamente su una linea moderata, a tutto vantaggio delle riforme neoliberali che di lì a poco avrebbero smantellato il possente – fino a quel momento − welfare state tedesco. Da quegli anni si decide infatti di dare la precedenza ai mercati, alla flessibilizzazione dei contratti lavorativi, allo smantellamento dello stato di protezione sociale, ai salari sottopagati, con grande gioia dei nuovi ricchi delle metropoli urbane, ponendo inoltre al primo posto i desiderata della finanza e l’export delle grandi imprese multinazionali, che anche in Germania, proprio grazie alle esportazioni verso i mercati internazionali, iniziano a macinare profitti da favola. Faro ideologico della nuova politica macroeconomica della SPD di Schröder è la cosiddetta Agenda 2010, riforma neoliberistica entrata in vigore nel 2002, la quale modifica profondamente sia il sistema dei sussidi sociali sia l’intero mondo del lavoro in Germania. Prima della riforma del 2002⁴ qualunque lavoratore − tedesco o straniero non importa − impiegato per almeno 1 anno e trovatosi d’improvviso senza lavoro, avrebbe avuto diritto ad un sussidio di disoccupazione fino ad un massimo di 2 anni, dopo i quali, qualora non avesse trovato ancora un’occupazione − cosa improbabile se non quasi impossibile in alcune ricche regioni tedesche, visti anche i tempi di vacche grasse che c’erano in Germania occidentale prima della riunificazione − avrebbe avuto diritto ad un reddito minimo di sussistenza alquanto generoso dalla durata potenzialmente infinita.

    Con la riforma del governo Schröder, che repetita iuvant viene portata a compimento da un esecutivo di centrosinistra, le cose cambiano radicalmente. Innanzitutto, a prescindere da quanto una persona avesse lavorato, avrebbe avuto diritto ad un sussidio di disoccupazione pari al 60% netto della sua ultima busta paga, e al 67% se avesse avuto dei figli, che sarebbe durato perentoriamente per un massimo di 1 anno senza alcuna proroga. Prerequisito tuttora essenziale per ottenere questo sussidio, detto in tedesco ALG I, è quello di aver pagato per almeno 12 mesi, anche non necessariamente consecutivi, i contributi previdenziali. Qualora invece un lavoratore avesse lavorato meno di un anno, sarebbe scattato un secondo sussidio, che in italiano potrebbe essere definito come reddito minimo di cittadinanza (da non confondere però con quello italiano, voluto dai grillini), detto ALG II. Questa seconda forma di sussidio prevede l’erogazione statale di circa 424 euro⁵ (all’inizio della riforma erano 354 euro) al mese, con l’aggiunta della copertura, sempre da parte dello Stato tedesco, dell’assicurazione sanitaria, del canone televisivo, di parte dell’affitto e di alcune spese vive come il riscaldamento e le bollette dell’acqua. Invece le bollette elettriche non vengono coperte. In Germania questo secondo sussidio viene comunemente conosciuto con il nome di Hartz IV, dal cognome del consulente economico Peter Hartz che lo ha ideato.

    Le conseguenze sociali sono state dure per le classi meno abbienti. Le riforme Hartz hanno contribuito a cristallizzare le povertà esistenti in Germania, tanto che nemmeno i bambini che vivono in famiglie, dove uno od entrambi i genitori percepiscono il sussidio, sono stati risparmiati. A data 2017, secondo l'Istituto di scienze economiche e sociali (WSI), il 20,4% di tutti i bambini residenti in Germania vive in condizioni di povertà. Nello specifico il suddetto tasso di povertà si divide così: tra i poveri tedeschi si ferma al 12,8% di bambini e adolescenti senza un background migratorio, mentre arriva a ben il 54,3% tra i bambini nati all’estero ed emigrati con le proprie famiglie in Germania; infine, il 28,2% dei bambini nati in Germania ma con entrambi i genitori stranieri, vive sotto la soglia di povertà. L’Agenzia federale per il lavoro ha fissato il numero di bambini e giovani che vivono solo grazie all’Hartz IV a 1,95 milioni di unità. Tra di loro vi sono quasi 600.000 bambini di famiglie straniere⁶. Tradotto altrimenti: in Germania 1 bambino su 7⁷ riesce a vivere solo grazie al sussidio sociale, l’ormai conosciuto Hartz IV, percepito da uno od entrambi i genitori disoccupati (o lavoratori poveri con paghe troppo basse). La cifra sale per Berlino e Brema, due metropoli nelle quali il numero di bambini che vive solo grazie ai sussidi è di ben 1 su 3⁸. Molti dei bambini e dei giovani colpiti dalla povertà hanno scarse prospettive educative e di vita, indipendentemente dal fatto che abbiano un passaporto tedesco o straniero. Ciò aumenta la frustrazione, la rabbia, l’apatia, l’odio degli adulti di domani, che in non pochi casi sfocia nell’illegalità spicciola e financo nella criminalità organizzata.

    Tornando al governo di centrosinistra di Schröder, probabilmente l’introduzione più importante della Riforma, o Controriforma, del mercato del lavoro e del welfare tedeschi è stata quella dei cosiddetti mini jobs. Essi altro non sono che lavori pagati al massimo 450 euro netti al mese e nei quali il committente può svolgere la propria mansione per un massimo inderogabile di 15 ore la settimana e, cosa fondamentale, senza l’obbligo di versare i contributi previdenziali. Altro dettaglio rilevante è che i mini jobs non vengono tassati; pertanto i 450,00 € mensili sono netti, essendo esentasse. Prima di fare una panoramica degli effetti concreti sulla popolazione tedesca di queste riforme, ricordiamo nuovamente che esse hanno preso il nome da Peter Hartz, all’epoca capo dell’ufficio personale o, per usare un termine moderno, delle human resources della Volskwagen. È proprio grazie alla sua esperienza, ma soprattutto alla mentalità aziendale che Peter Hartz viene chiamato da Schröder in persona a dirigere le riforme. Per gli appassionati del gossip può essere interessante sapere che Hartz sarebbe stato coinvolto da lì a qualche anno in una storiaccia di mazzette a manager Volkswagen, prostitute pagate direttamente da lui, e addirittura pastiglie di Viagra prescritte⁹ dal servizio medico dell’azienda per i manager stressati e bisognosi di sfogo. Il fautore della storica riforma del mercato del lavoro tedesco sarebbe stato poi condannato¹⁰ in via definitiva a 2 anni di carcere, in seguito condonati al pagamento di una maximulta di 576.000 euro¹¹.

    Ad ogni modo tornando al contenuto delle riforme Hartz, possiamo riepilogare le loro linee guida generali dicendo che vengono sostanzialmente creati i lavori interinali da 15 ore e 450 euro mensili¹², i fantomatici mini jobs, che sarebbero dovuti essere l’arma letale per combattere la galoppante disoccupazione di massa¹³, mentre i sussidi sociali vengono drasticamente ridotti al fine di eliminare quelli che all’epoca vengono definiti degli abusi o, peggio ancora, dei privilegi da estirpare. Inoltre vengono creati dei centri di collocamento, denominati con il solito anglicismo di circostanza Job Center, che avrebbero svolto la funzione principale di indirizzare i disoccupati e i giovani nel mercato del lavoro. L’Unione Europea approva così tanto lo smantellamento del mercato del lavoro e dello stato sociale in Germania, da condonare al governo tedesco lo sforamento¹⁴ della famosa regola del 3% del deficit, approvata con il Trattato di Maastricht nel 1992. Mentre anche i successivi governi italiani avrebbero sempre avuto sulle loro teste la spada di Damocle dell’apertura di una pratica di infrazione da parte della Commissione Europea anche per minimi sforamenti del deficit, tali da superare seppur di poco la fatidica soglia del 3%, in Germania non succede nulla, dal momento che il governo rosso-verde in carica è molto abile nel giustificare lo sforamento come necessario per poter riformare completamente l’assetto strutturale del Paese. Ad ogni modo dopo 18 anni e diversi governi rossi, verdi e di grandi coalizioni tra la CDU, i liberali o i socialdemocratici, che si sono succeduti fino ai giorni odierni, la Germania viene considerata ancora oggi il Paese leader in Europa in fatto di crescita del proprio Pil e con un invidiabile tasso di disoccupazione fermo al 5,3%¹⁵. Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così?

    Stando alle stesse statistiche governative, il numero di lavoratori impiegati in uno o più mini jobs in Germania ammonta a quasi 8 milioni di unità, 7,6 milioni¹⁶ di persone per la precisione. Il lettore non ha capito male: nella lista di chi un lavoro ce l’ha, vi sono quasi 8 milioni di persone che lavorano 15 ore alla settimana per portarsi a casa la notevole cifra di 450 euro netti al mese, ossia i sopraccitati mini jobs. Da questa massa enorme di lavoratori precarizzati e sottopagati, bisogna specificare che 4,9 milioni di loro vivono soltanto di un mini job, mentre altri 2,7 milioni svolgono un mini job come seconda attività rispetto al loro lavoro principale¹⁷, altrimenti non avrebbero le risorse necessarie per poter vivere dignitosamente. Se da una parte i mini jobs hanno ridotto il lavoro nero e la disoccupazione, dall’altra hanno incentivato ed istituzionalizzato il lavoro precario, a part-time e a bassi salari, con l’ulteriore grave conseguenza che la mancanza di contributi previdenziali da parte dei mini jobbers renderà il sistema pensionistico tedesco alquanto instabile, per usare un eufemismo, negli anni a venire.

    Altra figura lavorativa molto cresciuta negli ultimi decenni è stata quella dei cosiddetti Aufstocker, termine un po’ arduo da rendere in italiano ma che potrebbe essere tradotto come integratori. Nella sostanza gli Aufstocker sono dei lavoratori che percepiscono un salario così basso da rendere necessaria un’integrazione economica da parte dello Stato, altrimenti avrebbero anche in questo caso serie difficoltà a far fronte alle loro spese correnti e ad arrivare a fine mese. Nella maggior parte dei casi gli Aufstocker sono lavoratori a part-time, ma si sono registrati non pochi episodi di lavoratori a tempo pieno richiedere un aiuto economico allo Stato per poter sbarcare il lunario; sono per esempio padri di famiglia con figli e moglie a carico che, seppur lavorando 40 ore alla settimana, non riescono con i loro magri salari a garantire un’esistenza dignitosa a sé stessi e ai loro cari. Il numero degli Aufstocker in Germania è di circa 1,1 milioni di unità¹⁸.

    Altro dato interessante, che molti estimatori del modello tedesco (all’estero) ignorano completamente, è che in Germania il numero di pensionati over 65 costretti a lavoricchiare per arrotondare la loro magra pensione è di circa 1,4 milione di persone¹⁹. Parliamo dunque di vecchi pensionati che decidono di svolgere un’occupazione part-time, il sempre verde mini job, per poter avere un’entrata extra di 450 euro al mese. Si è calcolato che in Germania 1 pensionato su 7 decida²⁰, o si senta costretto, di continuare a lavorare perché la sua pensione è troppo bassa. Per i neopensionati entro 3 anni dall’ottenimento della pensione la cifra si alza ad 1 pensionato lavoratore su 3. Infine va detto che la pensione media netta per più di 18 milioni pensionati tedeschi ammonta a soli 906,00 euro mensili, con gli uomini (8 milioni) che percepiscono un importo di 1.148 euro netti al mese. Le donne pensionate invece, sebbene siano 10 milioni e quindi di più, ricevono una pensione molto più bassa rispetto agli uomini: 711 euro²¹.

    Infine andrebbe chiarito che in Germania, i dati sulla disoccupazione, che il governo tedesco ciclicamente ed orgogliosamente espone al resto d’Europa, sono viziati da un grave difetto, che secondo i più critici assumerebbe quasi il contorno di una truffa contabile. Infatti tra le persone che risultano per le statistiche come ufficialmente occupate, vi sono anche quei disoccupati di fatto che si differenziano da chi ufficialmente un lavoro non ce l’ha solo perché svolgono un corso di formazione professionale. In Germania il sistema dei corsi di formazione è del tutto diverso da quello vigente in Italia: un corso di formazione professionale per disoccupati, detto Ausbildung, può durare fino a 3 anni ed è interamente finanziato dai Job Center, quindi con i soldi dei contribuenti. Per onestà intellettuale bisogna comunque ammettere che il sistema di formazione tedesco viene considerato tra i migliori al mondo e determina un’entrata concreta nel mondo del lavoro. Tuttavia il problema è che anche un semplice corso linguistico di tedesco per un disoccupato, che può durare anche solo qualche mese, viene considerato alla stregua di un Ausbildung. Ciò significa che il disoccupato, che svolge tale corso, durante l’intera durata del medesimo non viene considerato dal Ministero del Lavoro tedesco né come inoccupato né come iscritto alle liste di collocamento. Si capisce bene come un sistema di questo genere manipoli le statistiche sul tasso di disoccupazione: si tenga inoltre conto che i disoccupati fantasma che svolgono corsi di formazione sono almeno 1 milione e 300mila persone²². Di conseguenza il tasso di disoccupazione fantasmagorico del 5,3%, che in Italia ed altri Paesi europei viene considerato come un qualcosa di quasi utopico, è in verità gravemente viziato dalla presenza di milioni di disoccupati di fatto, i quali tuttavia non vengono conteggiati come tali solo perché partecipanti a dei corsi di formazione professionale, oltre che da una massa composta da milioni di lavoratori, o perfino pensionati, come si è visto, costretti a salari da fame e ad umilianti integrazioni statali solo per poter sopravvivere. È questo il vero dark side del mito tedesco.

    1.2 Il sonno della riunificazione tedesca genera i populismi di destra

    "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due²³."

    Giulio Andreotti all’indomani della riunificazione tedesca, 1990

    Per dare un senso completo ai dati esposti nel paragrafo precedente, non risulta in fondo così sorprendente notare come il numero di poveri e di lavoratori precari presenti in Germania abbia subìto una crescita costante, e nemmeno così lenta in verità, proprio a partire dalle riforme Hartz, messe a segno dal governo di sinistra del cancelliere Gerard Schröder sul finire degli anni ‘90. A ciò si aggiunge la precaria situazione politica interna degli ultimi anni: anche a chi non è appassionato delle cronache politiche teutoniche non sarà infatti sfuggito come il partito di destra populista e xenofoba dell’AfD (Alternative für Deutschland), che in italiano risulta traducibile come "Alternativa per la Germania", sia dato in crescita ovunque. Tra settembre ed ottobre del 2019 si sono svolte in ordine cronologico le elezioni locali nelle regioni orientali del Brandeburgo, della Sassonia e della Turingia, nelle quali l’AfD ha ottenuto rispettivamente il 22%, il 24% ed il 23% dei consensi, collocandosi così al secondo posto dietro la SPD, la CDU e la Linke (estrema sinistra). È stato un risultato storico se si pensa che appena 5 anni prima il medesimo partito si era fermato appena al 10-12% dei voti nelle 3 regioni in questione. La stragrande maggioranza dei commentatori nazionali ha dato per assodato che il successo dei razzisti e xenofobi dell’AfD, come abitualmente vengono definiti dai media mainstream tedeschi, sia dovuto solo ed esclusivamente alla protesta diffusa contro la politica di accoglienza totale della Merkel verso i profughi siriani nel 2015, oltre al rigurgito nazista evidentemente mai sopito tra una parte non indifferente della popolazione tedesca. La narrativa ufficiale ha spiegato che le paure irrazionali nei confronti dello straniero siano stati gli elementi decisivi per l’affermazione di questo movimento. Tuttavia sarebbe altresì significativo porre a confronto i tassi di disoccupazione delle regioni – in tedesco Länder − tedesche più povere, le quali si situano tutte nella parte est, oltre che ex socialista del Paese, ed i tassi locali di consenso per l’AfD.

    Ricordiamo ancora una volta che i Länder del Brandeburgo, della Sassonia e della Turingia, nei quali nell’autunno dell’anno scorso si sono tenute le elezioni regionali, facevano anch’essi parte della Repubblica Democratica Tedesca (comunista) e sono tuttora tra le regioni con tassi di disoccupazione maggiori rispetto alla media nazionale. Facciamo altresì notare come i sondaggi attuali diano il consenso per l’AfD intorno al 14-15% a livello nazionale²⁴, mentre il tasso generale di disoccupazione in Germania è del 5,3%. A gennaio 2020 ecco i dati²⁵ (a sinistra tasso di disoccupazione della regione orientale e a destra consenso locale per l’AfD) che confermerebbero questa correlazione:

    Sassonia-Anhalt (elezioni svoltesi il 13 marzo 2016) → 7,6% / 24,2%²⁶

    Meclemburgo-Pomerania anteriore (ultime elezioni regionali svoltesi il 04 settembre 2016) → 7,7% / 20,8%²⁷

    Brandeburgo (ultime elezioni regionali svoltesi il 01 settembre 2019) → 6,0% / 22,2%²⁸

    Sassonia (ultime elezioni regionali svoltesi il 01 settembre 2019) → 5,3% / 27,5%²⁹

    Turingia (ultime elezioni regionali svoltesi il 31 ottobre 2019) → 5,7% / 23,4%³⁰

    Complessivamente il tasso medio di disoccupazione nelle regioni orientali è del 6,8% (se si tiene conto anche dell’ex parte orientale di Berlino), maggiore di quello del 5,3% su base nazionale e ben più alto rispetto a quello del 5,0%, che invece caratterizza quelle occidentali. Come si può ben notare, c’è un dato di fondo incontrovertibile: l’AfD sfonda nelle regioni facenti una volta parte della DDR, le quali si caratterizzano tuttora per un tasso di disoccupazione superiore alla media nazionale. Inoltre anche le percentuali di persone che vivono con redditi più bassi di quelli medi nazionali rispetto al resto della popolazione locale, sono da riscontrare soprattutto nelle regioni orientali, con picchi del 21% in Sassonia-Anhalt e Meclemburgo-Pomerania anteriore³¹. Senza contare che il numero di persone che rischiano di vivere sotto la soglia di povertà è maggiore in tutte le regioni orientali ex DDR ad eccezioni del Brandeburgo. In Germania il tasso di rischio di povertà è un indicatore per misurare la povertà relativa, ed è definito come la percentuale di persone con un reddito inferiore del 60% rispetto al reddito medio nazionale, riscontrato tra la popolazione che vive in nuclei familiari.

    In Germania il 15,5% della popolazione totale, quasi 13 milioni di persone, vive sulla soglia della povertà; viene considerato a rischio povertà chiunque guadagni meno di 13.152 euro (lordi) l’anno³². In regioni orientali, come le sopraccitate Sassonia-Anhalt e Meclemburgo-Pomerania anteriore, le quote di povertà si alzano rispettivamente al 19,5% e 20,9% sul totale della popolazione locale. Anche in altre due regioni ex DDR, dove nell’ottobre scorso si era votato alle regionali e nelle quali l’Afd si era collocata al secondo posto nelle preferenze, come la Sassonia e la Turingia, i tassi locali di povertà sono del 16,6% e 16,4%, leggermente superiori alla media nazionale³³. Anche in termini di salari la situazione per i lavoratori tedeschi orientali non è rosea. Secondo una ricerca della Fondazione Hans-Böckler-Stiftung, vicina al sindacato unitario della DGB, nei Länder orientali ex DDR i lavoratori a parità di mansione, qualificazione, età e sesso, guadagnano in media il 16,9% in meno rispetto ai colleghi occidentali. Nella Sassonia, regione nella quale l’Afd alle ultime elezioni regionali aveva raggiunto il secondo posto col 27,5% di voti, i salari sono più bassi rispetto all’Ovest del 18,4%. Al danno sembra aggiungersi la beffa: con 1.351 ore lavorative, contro invece le 1.295 conteggiate ad Ovest, si è dimostrato che all’Est si lavori di più ma, come visto, si guadagni di meno³⁴.

    L’adagio, ripetuto come un mantra dai media mainstream tedeschi, secondo il quale i cosiddetti razzisti stiano sfondando, soprattutto ad Est, per un diffuso sentimento di rabbia e paura di fronte all’ondata di migranti, regge fino ad un certo punto. La politica di apertura della Merkel di fronte ai profughi siriani (o presunti tali) nell’estate del 2015 può essere comunque considerata come l’ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso colmo di promesse mancate, che risalgono alla riunificazione della Germania, di disoccupazione cronica, di lavoretti precari, di pomeriggi passati al Job Center e soprattutto di un senso di frustrazione legato alla mancanza di rappresentanza politica per un tale disagio sotterraneo. La sinistra socialdemocratica tedesca è quella medesima che da Schröder in poi ha abbracciato in toto l’ideologia del libero mercato, delle conseguenti privatizzazioni e del necessario restringimento dello Stato sociale. L’impoverimento di larghi strati della popolazione, anche qui in Germania, è stato causato in primis dalle riforme del mercato del lavoro, messe a punto non già da un governo di falchi reazionari o di eredi della Thatcher, bensì da un partito di sinistra che a parole si proclama ancora oggi il rappresentante dei lavoratori, ma che di fatto ne ha tradito le aspettative.

    A testimoniare la gravissima crisi che continua ad interessare la parte orientale della Germania è poi il declino demografico, in realtà un vero e proprio crollo. A fine 2019 la popolazione nei cinque Länder orientali tedeschi, che fino al 1990 componevano la Repubblica Democratica Tedesca, è allo stesso livello di 144 anni fa. Alla viglia del 15mo anno di governo di Angela Merkel, i tedeschi dell’est sono 13,9 milioni, mentre nel 1905 erano 13,6 milioni. Nel 1948 erano 19 milioni. Nello stesso periodo, all'ovest la popolazione è più che raddoppiata, passando da 32,6 milioni del 1905 ai 68,3 milioni, calcolati dai demografi alla fine del 2019³⁵. C’è da tenere comunque conto che il declino demografico della Germania Est è stato dovuto non solo alla svolta (la Wende) del 1990 con la riunificazione tedesca, che ha spinto milioni di neo disoccupati orientali ad emigrare nelle regioni occidentali, bensì anche alla continua osmosi di cittadini della DDR che fino al 1962, anno della costruzione del Muro di Berlino, hanno continuato a fuggire ad ovest. Dall’altra parte tuttavia è sintomatico come a 30 anni dalla riunificazione delle due Germanie nessun governo tedesco sia ancora riuscito ad invertire la rotta.

    A mettere un dito nella piaga nel disagio del profondo Est, si colloca anche uno studio che ha misurato la felicità dei cittadini tedeschi a seconda della regione di provenienza. La narrativa dominante, riportata all’unisono da tutti i media mainstream tedeschi, è che la stragrande maggioranza dei residenti, uomini e donne, stranieri e nativi non importa, non sia mai stata così felice nella storia della Germania. Eppure in questo studio il problema continua a chiamarsi Far East: in una scala da 0 a 10 le regioni di quella che una volta era la DDR si situano infatti ben al di sotto della media nazionale. Basti vedere i seguenti dati sui tassi di felicità per ogni regione ex DDR (Berlino inclusa) per farsi un’idea più precisa del malessere orientale³⁶:

    Turingia –> 6,94

    Sassonia –> 6,88

    Berlino –> 6,85

    Brandeburgo –> 6,80

    Sassonia – Anhalt –> 6,78

    Meclemburgo – Pomerania anteriore –> 6,77

    Se consideriamo che la media della felicità per i cittadini dell’intera Germania ammonta ad una quota di 7,4, allora è chiaro come il Paese più stabile d’Europa continui ad essere spaccato al suo interno. Il Land che presenta il tasso di felicità più basso, ossia il Meclemburgo-Pomerania anteriore, è quella stessa regione di nascita della cancelliera Merkel, oltre a quella nella quale alle ultime elezioni regionali del settembre 2016 il l’AfD aveva ottenuto un exploit inaspettato con il 20,8%, affermandosi anche là come il secondo partito solo dopo i socialdemocratici della SPD.

    Non c’è perciò da stupirsi se soprattutto nelle regioni orientali tedesche, che più delle altre da anni stanno pagando il conto di quelle politiche neoliberistiche inaugurate dai socialdemocratici, vi sia in questo momento un esodo dei cittadini impoveriti verso i cosiddetti partiti di estrema destra o populisti, che dir si voglia. Il recente fattore migratorio non è stato altro che una miccia che ha fatto esplodere un disagio, che sta durando in realtà da più 30 anni, ossia da dopo che la caduta del Muro avrebbe dovuto garantire standard di vita americanizzati ed occidentali a milioni di grigie esistenze, sconvolte da decenni di socialismo reale (almeno da quanto la persuadente propaganda occidentale ci ha fatto credere). Basti pensare che subito dopo la riunificazione il cancelliere cristianodemocratico Helmut Kohl proclamò che nessuno sarebbe stato peggio di prima, mentre molti altri sarebbero stati meglio. Ed invece cos’è avvenuto nella realtà dei fatti dopo il 1989? Ad est migliaia di fabbriche vennero svendute ai grandi gruppi industriali ed agli investitori dell’ovest, in non pochi casi vennero chiuse con la scusa che inquinavano troppo, ma in verità col fine di distruggere per sempre dei pericolosi concorrenti, milioni di persone si trovarono letteralmente da un giorno all’altro disoccupate e perciò costrette ad emigrare nella Germania Ovest per stipendi più bassi rispetto ai colleghi occidentali, e con la perenne stigma di provenire dall’Est totalitario e statalista. E come ciliegina sulla torta, tutte le promesse su un miglioramento degli standard di vita per i tedeschi orientali sono finora cadute nel vuoto, ed anzi hanno avuto come conseguenza l’esplodere dei sussidi sociali e

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