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Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania
Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania
Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania
E-book569 pagine7 ore

Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania

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Deutchland, un nome che suscita timore e rispetto.
In effetti la Germania è un Paese strutturalmente problematico; situata nel cuore geografico dell’Europa, essa appare allo stesso tempo “troppo grande per essere amata e troppo piccola per essere temuta”, per parafrasare una celebre espressione del cancelliere Helmut Schmidt. Questi fattori critici che caratterizzano la Patria di Goethe hanno sempre esercitato una pressione fortissima sui delicati equilibri europei in ragione del loro combinarsi con ambizioni di tipo imperiale, una crescita industriale assolutamente straordinaria e con una spiccata vocazione mercantilista.
Weltpolitik si propone di ricostruire la storia tedesca degli ultimi due secoli mettendo in luce la straordinaria continuità economica, geopolitica e strategica che caratterizza l’approccio della Germania verso il resto del mondo.
LinguaItaliano
EditoregoWare
Data di uscita17 apr 2019
ISBN9788833632001
Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania

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    Anteprima del libro

    Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania - Giacomo Gabellini

    weltpolitik_cover_1024px.jpg

    © 2019 goWare, Firenze, prima edizione

    ISBN 978-88-3363-200-1

    Copertina: Ida Innocenti

    Redazione: Andrea Cartolano

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

    goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing

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    Copertina

    Presentazione e Autore

    Prefazione di John Laughland

    Inizia a leggere

    Lista dei nomi

    Indice dei contenuti

    Grazie per aver acquistato l’ebook di Giacomo Gabellini

    Weltpolitik.

    La continuità economica e strategica della Germania

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    Indice dei contenuti

    Copertina

    Frontespizio

    Colophon

    Presentazione

    Prefazionedi John Laughland

    1 – Assalto all’Europa

    L’ascesa della Prussia

    Friedrich List e l’importazione del modello americano

    Il Deutscher Zollverein

    L’unificazione economica tedesca

    Bismarck

    Il crollo dell’ordine metternichiano

    Kultur vs Zivilization

    La nascita del Reich

    L’avanzata dell’industria tedesca

    Il ruolo centrale delle banche

    Economicizzazione del conflitto e nazionalizzazione delle masse

    Il fragile equilibrio bismarckiano

    Il guglielminismo

    Le origini dell’espansionismo tedesco

    La svolta colonialista e l’egemonia economica del Reich

    Il confronto con la Gran Bretagna

    Gli effetti destabilizzanti del gold standard

    La polveriera balcanica

    Il Septemberprogramm

    I tentativi tedeschi di frantumare il fronte nemico

    La risistemazione tedesca dell’Europa orientale

    La discesa in campo degli Stati Uniti e la disfatta del Reich

    2 – Da Weimar a Hitler

    Il trattato di Versailles

    La stretta collaborazione russo-tedesca

    Il contributo del capitale Usa alla ripresa economica tedesca

    Il crack del 1929 e le politiche deflazioniste di Brüning

    L’agonia della Repubblica di Weimar e l’ascesa di Hitler

    La luna di miele tra il Führer e il grande capitale

    L’appoggio ai franchisti nella guerra civile spagnola

    La politica economica di Schacht

    Il riarmo tedesco

    Lebensraum e gerarchizzazione dell’Europa su basi razziali

    La riorganizzazione economica del grande spazio"

    L’offensiva diplomatica hitleriana

    L’ascesa del Terzo Reich come potenza finanziaria

    Il patto Molotov-Ribbentrop

    I timori anglo-statunitensi

    L’Unione Sovietica nel mirino di Hitler

    La sistemazione del fronte occidentale e dei Balcani

    Attacco a oriente

    La disfatta tedesca

    3 – Tra Westbindung e Ostpolitik

    Che fare della Germania?

    La Germania nel quadro della Guerra fredda

    L’economia della Bundesrepublik

    Il processo di integrazione europea

    L’internazionalizzazione dell’economia tedesca

    Il rilancio del mercantilismo tedesco

    La riorganizzazione del capitalismo renano

    La Germania come avanguardia dello schieramento occidentale

    L’Ostpolitik

    Gli euromissili e la riabilitazione

    La Germania nel contesto post-bipolare

    Il ritorno della geopolitica

    Maastricht

    Il progetto Schäuble-Lamers

    L’offensiva regionalista

    Lo smembramento della Jugoslavia

    Il recupero dell’egemonia economica sui Balcani

    4 – Ritorno alla Mittellage

    La riunificazione

    La conversione del sistema bancario tedesco

    La mezzogiornificazione dell’ex Ddr e le sue conseguenze

    La deflazione come traiettoria strategica imposta all’Europa

    La ristrutturazione del modello economico tedesco

    L’egemonia economica tedesca sull’Europa orientale

    Il ruolo dell’euro e la gestione tedesca della crisi

    Il pugno di ferro contro l’Europa mediterranea

    L’Unione europea come strumento egemonico della Germania

    L’impatto geopolitico del mercantilismo tedesco

    Il rapporto con la Russia

    L’equilibrismo strategico tedesco

    La controffensiva statunitense

    L’irrequietudine tedesca

    Il rilancio dell’euronucleo

    La crescita delle tensioni sociali

    Il consolidamento del direttorio franco-tedesco

    L’indebolimento del legame transatlantico

    L’attacco statunitense

    L’immaturità (geo)politica della Germania

    Il Piano Industria 2030

    Conclusioni

    Bibliografia

    Lista dei nomi citati

    Presentazione

    Deutchland, un nome che suscita timore e rispetto.

    In effetti la Germania è un Paese strutturalmente problematico; situata nel cuore geografico dell’Europa, essa appare allo stesso tempo troppo grande per essere amata e troppo piccola per essere temuta, per parafrasare una celebre espressione del cancelliere Helmut Schmidt. Questi fattori critici che caratterizzano la Patria di Goethe hanno sempre esercitato una pressione fortissima sui delicati equilibri europei in ragione del loro combinarsi con ambizioni di tipo imperiale, una crescita industriale assolutamente straordinaria e con una spiccata vocazione mercantilista.

    Weltpolitik si propone di ricostruire la storia tedesca degli ultimi due secoli mettendo in luce la straordinaria continuità economica, geopolitica e strategica che caratterizza l’approccio della Germania verso il resto del mondo.

    ***

    Giacomo Gabellini (1985) è ricercatore di questioni economiche e geopolitiche. Collabora con il quotidiano telematico L’Indro (www.lindro.it) e con il giornale cinese Global Times (www.globaltimes.cn). È stato redattore di Eurasia, rivista di studi geopolitici. È inoltre autore di numerosi volumi, tra cui Ucraina. Una guerra per procura (Arianna Editrice, 2016), Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza (Arianna, 2017) e Burro e cannoni. Le radici economiche della potenza statunitense (Zambon, 2019).

    Prefazione

    di John Laughland

    La prima mossa che, all’inizio de L’anello del Nibelungo, Alberich compie dopo essersi impadronito dell’oro del Reno è quella di obbligare suo fratello Mime a forgiare un Tarnhelm (elmo magico) per lui. Il termine Tarnung indica camuffamento o travestimento, e si adatta perfettamente alle caratteristiche di questo elmo magico che conferisce a chi lo indossa il potere di scomparire completamente, o addirittura di trasformarsi in qualsiasi altra cosa a proprio piacimento: all’interno del dramma, tale copricapo viene usato da vari personaggi a fini di inganno o accentramento del potere. È leggendo Weltpolitik di Giacomo Gabellini che mi è balenata alla mente l’emblematica opera che Wagner ha dedicato al tema della brama di potere, perché l’autore del presente libro dipinge l’immagine di una Germania moderna fortemente incline a celarsi alla vista, o meglio, a camuffarsi per perseguire con successo la sua eterna strategia geopolitica ed economica finalizzata ad accreditarsi come potenza dominante in Europa.

    Attualmente, sono pochi i commentatori che si soffermano sui problemi sollevati da Gabellini. Forse perché l’argomento è politicamente scorretto. È come se gli osservatori fossero in preda a un incantesimo che li rende incapaci persino di formulare interrogativi riguardanti l’interesse nazionale tedesco e la strategia nazionale portata avanti da Berlino. È possibile che una simile ritrosia nasca dalla paura di trovare risposte adeguate, segno che gli infiniti avvertimenti lanciati dalla Germania circa la necessità dell’Europa unita per il mantenimento della pace nel continente sono ormai stati pienamente interiorizzati. A differenza degli altri, Gabellini non teme di porsi le domande giuste, ma le risposte che dà sono spaventose. Se, come proclamato dalle autorità di Berlino, la Germania dovesse dedicare al riarmo una quota corrispondente al 2% del proprio Pil e i preventivati 130 miliardi di euro nei prossimi 15 anni per il potenziamento della Bundeswehr dovessero essere realmente stanziati, la Germania supererebbe la Russia per quanto concerne la spesa militare gettando così le basi per l’estensione al comparto bellico della supremazia tedesca in Europa, già esistente per quanto riguarda gli aspetti economico e politico.

    Naturalmente, come dichiarato da Angela Merkel in occasione della cerimonia con cui si è commemorato il centenario della fine della Prima guerra mondiale, il rafforzamento della potenza militare tedesca avverrà nel quadro dell’esercito europeo di imminente realizzazione. Ma è proprio questo il principale successo della Germania: l’essersi calata in maniera così abile nel contesto europeo, modellato sulla base delle esigenze tedesche, le ha permesso di scomparire. È come se il vecchio concetto hegeliano di Aufhebung fosse stato trasferito sul terreno della politica: la Germania sembra essersi dissolta nel corpo dell’Europa, ma solo nella misura in cui questa dissoluzione le consente non solo di continuare a esistere, ma anche di innalzare la propria soglia di potenza. In altre parole, è solo diluendo se stessa in un’Europa sotto controllo tedesco che la Germania è finalmente riuscita ad affermarsi per quel che è veramente, un impero.

    A volte, la realtà diventa di nuovo visibile, ma solo se si è disposti a osservarla. Al termine del discorso pronunciato da Merkel a Strasburgo nel 2018, i leader di ciascun gruppo politico si sono alzati per risponderle, uno dopo l’altro. Gli stessi uomini politici che si rivolgono invariabilmente all’assemblea in un inglese impeccabile, in questo caso si sono espressi nel loro idioma tedesco; la realtà è così riapparsa all’improvviso. Non meno di quattro degli otto gruppi politici presenti al Parlamento europeo sono guidati da tedeschi: Manfred Weber per il Partito popolare (217 seggi); Udo Bullmann per i socialisti (190 seggi); Gabi Zimmer per la Sinistra unita (52 seggi) e Franziska Keller per i Verdi (51 seggi). Ciò significa che 510 dei 751 deputati al Parlamento europeo (cifra corrispondente a poco più dei due terzi del totale) appartengono a partiti guidati da rappresentanti tedeschi, i quali tendono – peraltro – istintivamente a guardare a Merkel come alla leader politica sia tedesca che europea.

    La stessa situazione si ripresenta nell’ambito dell’Unione europea, visto e considerato che ben cinque delle sue istituzioni fondamentali sono gestite da tedeschi. Martin Selmayr è segretario generale della onnipotente Commissione europea; Klaus Welle è segretario generale del Parlamento europeo, a sua volta presieduto per molti anni da un tedesco (gli unici due presidenti del Parlamento europeo rimasti in carica per due mandati sono entrambi tedeschi); Helga Schmid è segretario generale del Servizio europeo per l’azione esterna (seae); Werner Hoyer è presidente della Banca europea per gli investimenti (bei); Klaus Regling è direttore generale del Meccanismo europeo di stabilità (mes). Naturalmente i nomi cambieranno nel tempo, ma rimane il fatto che i tedeschi si trovano perfettamente a proprio agio nel gestire una struttura federale europea modellata sulla falsariga dell’antica costituzione germanica, la quale garantisce ai singoli Stati un certo Landeshoheit (sovranità territoriale) pur sottoponendoli, in ultima analisi, alla suprema autorità centrale.

    La consolidata prassi tedesca consistente nel celare la propria strategia dietro la maschera europea raggiunse l’apice al momento della morte di Helmut Kohl, nel 2017. La cerimonia non si svolse a Berlino, la capitale del Paese che il vecchio cancelliere aveva guidato verso la riunificazione, ma a Strasburgo; il pretesto fu che il cancelliere tedesco aveva anche contribuito a unificare l’Europa. A prescindere dalla decisione piuttosto macabra e discutibile di tenere un servizio funebre all’interno di una camera deputata a ospitare un’assemblea politica – quasi che il Parlamento europeo fosse diventato una sorta di chiesa; valido esempio di come l’europeismo si sia trasformato in una nuova religione -, a destare maggiore sorpresa era il fatto che la bara di Kohl fosse stata avvolta nella bandiera europea e non in quella tedesca.

    Non è un caso che questo processo, avviato sotto Kohl, sia stato ripreso e portato avanti con notevole successo da Merkel. Il genio politico di Angela Merkel risiede nella sua capacità di incarnare il centrismo. In tutte le fotografie di famiglia dei congressi del Partito popolare europeo, la cancelliera appare sempre in mezzo e in prima fila. È la figura centrale della politica europea, il canale indispensabile attraverso cui transita tutto. Il suo indefettibile contegno, le sue origini borghesi, il suo cerchiobottismo politico (tre dei suoi quattro governi sono stati formati in coalizione con i socialdemocratici), la sua rotondità fisica; tutto concorre a rafforzare la sua centralità. Nel frattempo, lo spettacolo di mediocrità e seraficità inscenato dalla donna che i tedeschi chiamano Mutti, quasi che trascorresse la sua vita in cucina e ad accudire i suoi figli, ha fornito una copertura perfetta alla politica economica più aggressivamente mercantilista mai vista nella Storia. Con Angela Merkel al timone, l’opinione pubblica semplicemente non si è resa conto di cosa sta succedendo: proiettando di sé un’immagine tanto noiosa e rassicurante, nessuno ha paura di lei. Lei è il Tarnhelm della Germania.

    Gabellini, al contrario, mostra come la chiave interpretativa per comprendere la natura del potere tedesco non sia data solo dalla tendenza della Germania a piegare l’economia a fini squisitamente politici – lo Zollverein del 1834, alla base della creazione dell’Impero tedesco nel 1871, ne è un esempio lampante – ma anche dalla sua capacità di imporsi come potenza centrale dell’Europa, sia in senso metaforico che letterale. Oggi, tutte le strade portano a Berlino. Questa centralità che la Germania è riuscita a ricavarsi in Europa ritorna di volta in volta nei piani tedeschi focalizzati sul Vecchio continente; dalla Kerneuropa di Wolfgang Schäuble a Führung aus der Mitte di Ursula von der Leyen, i disegni tedeschi riflettono la medesima inclinazione geopolitica che portò Bismarck a evitare l’incubo delle coalizioni e altri a ricordare il retaggio di Richelieu riguardo all’indebolimento dell’Europa centrale. Il fatto stesso che la Germania abbia sviluppato la Mitteleuropa come concetto geopolitico è indice del suo percepirsi come potenza eminentemente centrale.

    Nel corso dei secoli, la geopolitica europea è stata segnata dall’alternanza tra un centro che dominava la periferia e una periferia che dominava il centro. Agli occhi dei tedeschi, l’immagine della pace di Westfalia appare particolarmente nefasta perché designa quest’ultima condizione. Dopo la loro sconfitta nel 1945, i tedeschi furono sottoposti al dominio delle potenze periferiche come mai in passato: i quattro Alleati occuparono Berlino e l’intero territorio del Paese. Una volta chiusa quella parentesi, la Germania è riuscita a invertire l’equilibrio del potere, allontanando i poteri periferici dalla sua strada e affermandosi come centro di gravità attorno al quale sono finite per ruotare tutte le altre orbite. La creazione dell’euro e l’installazione della sede della Banca centrale europea presso la città (Francoforte) in cui venivano incoronati gli imperatori tedeschi ha trasformato la Germania non solo nel cuore industriale, ma anche monetario, e quindi politico, dell’Europa. Il mercato unico è diventato il nuovo impero economico della Germania. Mittellage più Mittelstand equivale a Mitteleuropa.

    L’obiettivo, oramai raggiunto, è sempre stato questo. Gabellini ci illustra i progetti tedeschi, la loro storia e il modo in cui si sono sviluppati nel corso del tempo. Le sue previsioni sono tutt’altro che rassicuranti, ma la storia è raccontata con grande brio e professionalità.

    . . .

    John Laughland

    è un giornalista, saggista e accademico britannico specializzato in filosofia e politica internazionale. È autore di numerosi volumi, tra i quali The death of politics. France under Mitterrand (Viking Pr., 1994), The tainted source. Undemocratic origins of the European idea (Little, Brown and Co., 1997), A history of political trials. From Charles

    i

    to Saddam Hussein (Peter Lang Ltd., 2008), Travesty. The trial of Slobodan Milošević and the corruption of International justice (Pluto Press, 2015) e Schelling versus Hegel. From German idealism to Christian metaphysics (Routledge, 2016).

    1

    Assalto all’Europa

    L’ascesa della Prussia

    L’unificazione tedesca del 1871 costituisce indubbiamente un evento di rilevanza epocale, giunto a coronamento del processo di integrazione politica ed economica avviato con le riforme tariffarie introdotte dalla Prussia nel 1818 e accelerato con il Deutscher Zollverein, l’Unione doganale del 1834. Si tratta di un risultato assolutamente straordinario, alla luce della rapidità con cui fu conseguito e dalle sfavorevolissime condizioni su cui andò a innestarsi. Squallore urbano, mancanza di organizzazione e superstizione diffusa erano tratti comuni a tutti i piccoli Stati di cui si componeva l’area tedesca dopo la pace di Westfalia del 1648, associati a una corruzione delle élite di cui il diplomatico sovietico Vladimir Potëmkin ha dato un’idea ben precisa ricordando che:

    I principi della Germania, che in virtù della Pace di Westfalia avevano ricevuto il diritto di condurre una politica autonoma, cedevano i loro eserciti al miglior offerente. In soli cinquant’anni, i principi tedeschi guadagnarono in questo modo almeno 137 milioni di lire in Francia e 46,7 milioni di sterline in Inghilterra! L’affare si rivelò talmente redditizio che i principi tedeschi organizzarono retate tra i loro sudditi per arruolarli con la forza e vendere interi eserciti ai loro ricchi alleati. Così, il langravio d’Assia vendette all’Inghilterra [su suggerimento del celeberrimo banchiere Meyer Amschel Rothschild] un esercito di 17.000 uomini, mentre in Prussia la classe dominante, la nobiltà, viveva sfruttando il lavoro dei contadini e dei servi della gleba, i cui prodotti vendevano con facilità sui mercati dell’Europa occidentale[1].

    Questo dissesto favorì indubbiamente la fioritura di un’attività intellettuale – dalla musica alla poesia, dal teatro alla filosofia, dalla matematica alla fisica – straordinaria sul piano dell’originalità e della profondità di pensiero, ma agevolò anche le guerre di conquista napoleoniche risoltesi con l’assoggettamento di tutti i territori collocati a oriente del fiume Reno. La dominazione francese ebbe tuttavia l’effetto di spazzare via il regime feudale vigente negli Stati soggiogati e alimentare allo stesso tempo la nascita di un sentimento nazionale nelle popolazioni che li abitavano. Il problema è dato proprio dal fatto che la Francia si configurava simultaneamente come la portatrice degli ideali progressisti affermatisi con la rivoluzione del 1789 e come il Paese invasore dal quale era necessario liberarsi. Ne scaturì un primo embrione di patriottismo il cui più illustre rappresentante fu indubbiamente il filosofo Johann Fichte, che nell’inverno a cavallo tra il 1807 e il 1808 indirizzò alla nazione una serie di discorsi in cui si invocava la costituzione di un movimento di liberazione ispirato ai principi rivoluzionari ma rivolto a contrastare il disegno egemonico di Napoleone. Un processo di rigenerazione nazionale della cui necessità aveva già parlato Hegel nel sostenere una riforma della Costituzione imperiale tedesca finalizzata a valorizzare il ruolo dello Stato, inteso come massima espressione della volontà divina e dell’eticità sociale nonché come necessaria cerniera geopolitica. Il grande filosofo tedesco invocava l’avvento di una sorta di principe-tiranno (Zwingherr) che incarnasse l’inconscia volontà del popolo tedesco guidandolo verso l’unificazione nazionale. Hegel nutriva profonda ammirazione per Napoleone, ma evitò sempre di nominare esplicitamente il nome della guida carismatica che, a suo giudizio, avrebbe dovuto rigenerare la Germania.

    Il candidato in possesso delle credenziali necessarie a realizzare le aspirazioni hegeliane era indubbiamente lo stato-caserma prussiano edificato da Federico Guglielmo I e perfezionato da suo figlio Federico il Grande, forte di una formidabile organizzazione militare e burocratica. Aspetti rivelatisi entrambi decisivi per consentire alla Prussia non solo di resistere all’assedio cui gli altri Stati europei l’avevano cinta negli anni caldi di Federico il Grande, ma anche di incorporare parte della Polonia e l’intera Slesia, estendendo i confini nazionali fino alle aree più orientali affacciate sul Mar Baltico. Nelle regioni assoggettate, Federico i di Hohenzollern portò avanti la meticolosa opera di colonizzazione inaugurata secoli prima dai Cavalieri teutonici, curandosi allo stesso tempo di introdurre una legislazione e una struttura di insegnamento particolarmente avanzate per l’epoca. La novità di maggiore rilievo introdotta da Federico il Grande fu tuttavia quella di rafforzare l’autorità regale declinando in forma laica la concezione luterana della monarchia di diritto divino, che tendeva a incardinare il regime politico sul potere assolutistico dell’ordine costituito, al quale il cittadino era chiamato a sottomettersi disconoscendo «altra morale all’infuori dello stretto compimento del proprio lavoro, della propria missione (Beruf), dell’integrazione nei quadri di un’austera disciplina»[2]. Per quanto illuminato, cioè influenzato dal pensiero dei grandi filosofi francesi suoi contemporanei, Federico il Grande sviluppò una struttura di comando dispotica, gerarchicamente rigida e socialmente stratificata secondo un sistema a compartimenti stagni. Al vertice della piramide si trovavano i nobili, ai quali spettava il compito di condurre le operazioni belliche e di assistere il sovrano in tempo di pace in cambio di vasti possedimenti terrieri in cui esercitare le funzioni amministrative e di polizia. Dalle fila della nobiltà Junker doveva anche provenire il principe, inteso come primo servitore del monarca la cui legittimazione era direttamente proporzionale alla capacità di soddisfare i bisogni dei sudditi e di ingraziarsi il loro consenso. La borghesia, dal canto suo, era incaricata unicamente di provvedere alla produzione manifatturiera, mentre i contadini

    Erano ridotti per la maggior parte ad uno Stato di servitù, così verso la corona come verso la nobiltà; legati alla terra, sottomessi alla servitù obbligatoria, essi obbediscono in caserma agli stessi ufficiali che devono, nei loro villaggi, rispettare come signori. È così che, inquadrato in un’armatura sociale solida e precisa, l’individuo non conoscerà che la propria funzione, il proprio servizio da compiere con onestà meticolosa. In questa Prussia, dove non si è ancora formata una classe media cosciente delle proprie responsabilità, il centro di gravità dello Stato riposa sull’alleanza tra la regalità e la classe dirigente, la nobiltà[3].

    Grazie al peculiare modello organizzativo messo a punto da Federico il Grande, la Prussia gettò i semi da cui sarebbe germinata l’unità nazionale tedesca.

    Friedrich List e l’importazione del modello americano

    Paradossalmente, il conseguimento di questo obiettivo fu agevolato proprio dagli effetti provocati dalle misure introdotte sotto il dominio napoleonico, a partire dalla semplificazione del sistema doganale che favorì un incremento di manodopera e capitali di entità tale da cementare le relazioni tra le aree orientali e occidentali dell’area tedesca. L’altro provvedimento cruciale imposto agli Stati tedeschi da Napoleone fu la chiusura del mercato interno ai prodotti industriali inglesi; nell’ottica francese, la misura era chiaramente rivolta a privare il nemico britannico di un cospicuo mercato di sbocco, ma la sua conseguenza più immediata fu quella di stimolare la nascita di un tessuto manifatturiero autoctono. Il notevole del giro d’affari che in quel periodo conobbero le industrie cotoniere della Sassonia e le acciaierie di Magdeburgo fu in buon parte dovuto proprio alla protezione dalla concorrenza inglese decretata dai francesi, così come l’arricchimento degli agricoltori locali che ebbero buon gioco ad introdurre la barbabietola da zucchero in sostituzione della canna da zucchero che in passato veniva acquistata da mercanti britannici.

    Come notava Friedrich List, padre teorico del Deutscher Zollverein, era indubbiamente «in conseguenza della chiusura [del mercato tedesco che] le fabbriche tedesche di ogni genere cominciarono a svilupparsi notevolmente»[4]. Questo giovane economista tedesco aveva elaborato una dottrina che si poneva agli antipodi rispetto al liberoscambismo incentrato sulle teorizzazioni di Smith e Ricardo, secondo cui il motore dell’economia è costituito non dalla competizione tra individui mirata all’ottimizzazione del benessere personale, ma dalla tendenza degli uomini a costituirsi in comunità caratterizzate dalla capacità di far remare i membri nella stessa direzione. List, che a differenza dei suoi avversari britannici era molto meno interessato alla messa a punto di ricette di carattere universalistico (cioè valide in tutti i tempi e per tutti i luoghi), riteneva che la Germania dovesse dedicarsi alla massima valorizzazione dell’industria manifatturiera poiché in grado di garantire rendimenti esponenzialmente crescenti al variare della scala di produzione. L’agricoltura dei Paesi europei a clima temperato, di converso, era sottoposta al vincolo della rendita estensiva e ciò offriva prospettive diametralmente opposte.

    Ne discende che i Paesi dell’Europa temperata che vogliano raggiungere un grado di sviluppo elevato, devono specializzarsi nella produzione manifatturiera. E, dato che in questa la Gran Bretagna, per il suo passato di oculata politica protezionista, è riuscita ad ottenere uno smisurato vantaggio sul resto del mondo, gli altri Paesi devono, se vogliono svilupparsi, adottare misure protezionistiche la cui severità deve graduarsi in due fasi: nella prima, la necessità di importare le tecniche dell’industria manifatturiera allo scopo di apprenderle renderà necessario importare prodotti industriali dalla Gran Bretagna. Si dovrà quindi moderare il protezionismo. Nella seconda, quando l’apparato industriale del Paese è stato costituito, ma è ancora incapace di sostenere la concorrenza inglese, il protezionismo dovrà raggiungere il suo massimo di severità[5].

    La potenza industriale tedesca fu costituita piuttosto fedelmente al processo di sviluppo indicato da List.

    All’inizio del xix secolo, i progressi realizzati in campo economico nel periodo di sottomissione a Parigi furono vanificati dalla sconfitta di Napoleone a opera dell’Inghilterra, in conseguenza della quale il Vecchio continente fu riorganizzato secondo un assetto politico ispirato alla necessità di instaurare un equilibrio delle forze. Furono l’acume politico e l’abilità diplomatica di Talleyrand a dissuadere il governo britannico dall’imporre alla Francia condizioni di pace punitive che avrebbero messo in ginocchio il Paese e permesso alla Russia di colmare il vuoto di potere che ne sarebbe scaturito. Ciò a cui Londra non rinunciò fu invece il recupero dell’egemonia politica ed economica sui 38 Stati tedeschi, ai quali fu imposto di rimuovere le barriere tariffarie che erano state erette da Napoleone. Per l’Inghilterra, la Germania costituiva infatti sia un fornitore di materie prime indispensabili all’industria britannica che un rilevantissimo mercato di sbocco per le proprie merci, altamente concorrenziali e di elevata qualità. Come spiega List:

    Durante le reciproche chiusure dei mercati le industrie inglesi si svilupparono molto di più di quelle tedesche, grazie alle nuove invenzioni e a un grande smercio, quasi esclusivo, verso altri continenti; per questa ragione, oltre che per i benefici dei loro capitali, le industrie inglesi furono in grado di praticare prezzi molto migliori, di offrire prodotti assai più perfezionati e concedere crediti a più lunga scadenza rispetto alle industrie tedesche che ancora dovevano superare le difficoltà iniziali[6].

    In tali condizioni, non stupisce che l’invasione di prodotti inglesi di elevata qualità e concorrenzialità mandò letteralmente in rovina la manifattura tedesca sviluppatasi sotto il regime protettivo napoleonico, innescando un processo di deindustrializzazione e conversione della Germania in economia rurale rivolto ad attribuire al Paese il ruolo di produttore di materie prime che aveva svolto nel periodo pre-napoleonico.

    Il dissesto economico tedesco fu indubbiamente favorito dalla fede acritica nell’ortodossia liberoscambista teorizzata da Adam Smith professata in tutta la Germania e in particolare nella Prussia dei cancellieri Stein e Hardenberg, perché confacente agli interessi della potente aristocrazia agraria degli Junker i cui guadagni – un po’ come per i latifondisti del sud degli Stati Uniti – dipendevano dalla possibilità di esportare liberamente i propri prodotti (legname e derrate agricole) verso l’Inghilterra. Un contributo fondamentale alla diffusione delle idee di Smith fu garantito dalle sovvenzioni che Londra distribuiva a giornalisti e professori universitari affinché promuovessero i principi del liberalismo economico deputati alla divisione internazionale del lavoro secondo i dettami inglesi. È ancora List a denunciare il fenomeno:

    Un’immensità di circolari e volantini che partirono da Amburgo, Brema, Lipsia e Francoforte venne messa in circolazione: in essi si attaccava l’irrazionale desiderio dei commercianti tedeschi per una protezione doganale, e il loro consigliere, al quale soprattutto veniva rinfacciato con parole crude e derisorie di ignorare i principi fondamentali dell’economia politica riconosciuti da tutti gli studiosi o di non essere in grado di comprenderli. Questi sostenitori degli interessi inglesi ebbero tanto più facile gioco in quanto potevano contare sull’aiuto della teoria corrente e sulla convinzione degli studiosi tedeschi [...]. Evidentemente la battaglia venne condotta con armi disuguali: da una parte una teoria perfezionata in tutti i particolari e dotata di indiscusso prestigio [...] con organi in tutti i corpi legislativi, ma che aveva soprattutto la forza motrice del denaro; dall’altra, miseria e povertà, divergenze d’opinione, discordie interne e mancanza di una base teorica[7].

    La clamorosa disparità di mezzi a disposizione non riuscì tuttavia a evitare la formazione di un piccolo ma agguerrito gruppo anti-egemonico di intellettuali e imprenditori che si rifacevano alle elaborazioni teoriche di List, maturate dopo aver constatato con i propri occhi lo spettacolare processo di industrializzazione realizzato negli Stati Uniti – dove egli stesso aveva risieduto durante il periodo d’esilio – grazie al modello dirigista e protezionista messo a punto dal segretario al Tesoro Alexander Hamilton. Rivolgendosi ai componenti della Dieta federale, il giovane economista tedesco sottolineò nel 1819:

    Le numerose barriere doganali bloccano il commercio interno e producono gli stessi effetti degli ostacoli che impediscono la libera circolazione del sangue. I mercanti che commerciano tra Amburgo e l’Austria, o Berlino o la Svizzera devono attraversare dieci Stati, devono apprendere dieci tariffe doganali, devono pagare dieci successive quote di transito. Chiunque viva al confine tra tre o quattro Stati è ancora più sfortunato, perché costretto a destreggiarsi quotidianamente tra esattori fiscali e ufficiali della dogana. È un uomo senza patria [...]. Solo la rimozione delle barriere interne e l’istituzione di tariffe generali esterne potrà favorire il rilancio dell’industria e l’intensificazione del commercio nazionali, con conseguenti benefici di cui godrebbero le classi lavoratrici[8].

    Per List, la valorizzazione delle potenzialità tedesche passava per l’integrazione del mercato interno associata all’istituzione di barriere protezionistiche atte a proteggere la nascente industria interna dalla concorrenza esercitata della più avanzata concorrenza britannica, nonché per la costruzione di efficienti reti di trasporto (a partire dalle ferrovie). Il primo passo verso la realizzazione delle sue idee fu compiuto con l’introduzione delle misure economiche messe a punto dal ministro delle Finanze prussiano Friedrich von Motz, che sancivano l’applicazione di un moderato protezionismo verso l’esterno – rivolto a valorizzare le potenzialità scientifiche e industriali della nazione – e la liberalizzazione del mercato interno finalizzata a intensificare il commercio tra gli Stati di cui si componeva la Confederazione tedesca. Tali provvedimenti furono frutto di un compromesso tra l’aristocrazia terriera degli Junker, culturalmente egemone e fedele al regime liberoscambista che favoriva l’export dei loro propri prodotti agricoli, e una borghesia produttiva che aveva cominciato più o meno inconsapevolmente a recepire la lezione di List pretendendo dazi che salvaguardassero quel che restava della manifattura locale.

    Il Deutscher Zollverein

    Nel 1827, l’Assia-Darmstadt e la Prussia raggiunsero poi un accordo che preluse all’unione tariffaria (formalizzata l’anno successivo) da cui ebbe origine il nocciolo duro del futuro Deutscher Zollverein. La potenza economicamente, politicamente e militarmente soverchiante di cui era dotato trasformò rapidamente il blocco assiano-prussiano in una sorta di polo magnetico attorno al quale sarebbero via via gravitati gli altri Stati membri della Confederazione, e ciò finì per minare irrimediabilmente la stabilità dell’ordine europeo fondato sull’equilibrio di potenza che era stato riaffermato con il Congresso di Vienna dopo la sconfitta di Napoleone, il quale aveva a sua volta messo in crisi l’equilibrio di potenza stabilito a Westfalia nel 1648. Il problema aveva in realtà un carattere strutturale, perché gli Stati di cui si componeva la macroregione germanica rimanevano troppo deboli se divisi o troppo forti se uniti. Nel primo caso, come aveva ben compreso l’acuto cardinale Richelieu, essi finivano inesorabilmente nelle mire espansionistiche di qualche potenza straniera (Francia in primis), come accaduto durante la Guerra dei trent’anni; nel secondo caso erano invece destinati a suscitare timore presso i vicini (sempre la Francia, ma anche la Russia), terrorizzati dalla prospettiva di trovarsi di fronte una Germania unita ai confini. Come rileva Carl Schmitt:

    I numerosi Stati tedeschi [...] del

    xviii

    e

    xix

    secolo furono gettati, quali pesci piccoli e medi, ora sull’uno ora sull’altro piatto della bilancia, in modo da mantenere intatto l’equilibrio tra le grandi potenze. Una potenza politica forte nel centro dell’Europa non poteva che distruggere un diritto internazionale costruito su simili basi[9].

    In questo caso, l’Unione doganale appariva agli occhi di Napoleone III come uno stratagemma attraverso cui la Prussia ambiva a strappare gli Stati tedeschi del sud all’egemonia francese e riunire in un’unica area economica imperniata sulla nazione degli Hohenzollern tutta l’area geografica che si estendeva a nord del fiume Meno. La seconda rivoluzione francese del 1830 – culminata con il rovesciamento della monarchia di Carlo X Borbone in favore di Luigi Filippo d’Orléans – e i gravi problemi interni che determinò costrinse tuttavia la Francia a distogliere l’attenzione dall’attivismo dei prussiani, i quali ottenevano così campo libero per la realizzazione del loro progetto.

    A colmare il vuoto strategico creatosi con la passività della Francia fu l’Austria, che ravvisava nel progetto degli Hohenzollern il tentativo di imporre la Prussia alla guida dell’area germanofona a scapito della monarchia asburgica. Il confronto tra i due Stati, risalente al regno di Federico II, era tornato ad accentuarsi dopo il breve periodo di riconciliazione coinciso con la vigorosa irruzione dei rivolgimenti napoleonici proprio a causa della decisione, formalizzata al Congresso di Vienna del 1815, di conferire all’Austria la presidenza della Confederazione tedesca. L’attrito fece sì che sull’antagonismo dinastico tra gli Hohenzollern e gli Asburgo andasse progressivamente a innestarsi una rivalità di carattere strutturale, contrassegnata cioè dal confronto tra due diversi modi di intendere le soluzioni da adottare per risolvere il fondamentale problema dell’unificazione tedesca. Le divergenze tra Vienna e Berlino riguardavano infatti gli ambiti religiosi (rispettivamente, cattolici contro luterani), politico-economici (liberalisti contro conservatori), polemologici (scuola austriaca contro scuola prussiana) e persino identitari (sostenitori di una Germania unita attorno al carattere tedesco contro restauratori del Sacro Romano Impero). Per molti anni, il mantenimento del precario equilibrio sancito dal Congresso di Vienna fu garantito dall’acume di Metternich, il cui obiettivo era quello di evitare la costituzione di un Impero tedesco egemonizzato dalla Prussia.

    L’unificazione economica tedesca

    Dinnanzi ai progressi realizzati dalla Prussia in ambito di economia e politica estera, la diplomazia austriaca decise quindi di entrare in gioco benedicendo – in maniera discreta ma palese agli occhi prussiani – la nascita della Mitteldeutscher Handelsverein, un’unione doganale centrale alternativa a quella assiano-prussiana di cui entrarono a far parte Hannover, Assia-Kassel, Brunswick, Nassau, Sassonia, Turingia e le città di Francoforte e Brema. La nuova intesa impegnava gli aderenti a non innalzare barriere doganali nei confronti degli altri membri, ma soprattutto a bocciare qualsiasi prospettiva di adesione al blocco assiano-prussiano fino al 1834, anno in cui anche l’accordo doganale tra Prussia e Assia-Darmstadt sarebbe decaduto. La Mitteldeutscher Handelsverein, che si configurava come un tentativo di obbligare la Prussia a ridimensionare le sue mire egemoniche sulla futura unione doganale allargata, incassò l’appoggio di Metternich, il quale interpretava il disegno mirante a coalizzare gli Stati tedeschi di peso minore attorno al nucleo prussiano in funzione antifrancese come una minaccia agli interessi dell’Austria, non ancora preparata sotto il profilo economico ad aderire a un’unione commerciale con gli Stati tedeschi. Sotto la guida del ministro degli Esteri Christian Günther von Bernstorff, i dirigenti prussiani reagirono alle manovre viennesi istituendo canali diplomatici bilaterali con i rappresentanti di ciascuno Stato tedesco, compresi i membri dell’Unione doganale centrale, contando di far valere in sede negoziale il peso soverchiante della regione che controllavano e di persuaderli così a decretare l’adesione al blocco assiano-prussiano. Rispetto ai tedeschi del sud costretti a barcamenarsi in mercati fortemente contratti dalla chiusura opposta dal blocco prussiano, gli Stati settentrionali godevano infatti dell’enorme vantaggio competitivo garantito dal controllo dei grandi porti sul Baltico e sul Mare del Nord. I leader prussiani non esitarono a far valere queste condizioni di privilegio nel corso delle trattative, e fu grazie a questa abile strategia diplomatica che gli Stati meridionali di Baviera e Württemberg accettarono annullare la lega doganale che avevano costituito nel 1828 in favore dell’adesione al blocco prussiano. Come contropartita, ottennero il riconoscimento della facoltà di stringere accordi con Stati stranieri indipendentemente dalla volontà del nucleo centrale. Non era certo l’idealismo a motivare l’apparente cedevolezza prussiana (queste regioni avrebbero verosimilmente potuto secedere o comunque varare una cambiamento di campo a favore della Francia), quanto la considerazione che, come scrisse Motz nelle sue memorie, solo «in alleanza con la Baviera il fianco della Prussia renana che si estende dalla bocca della Saar di Bingen può essere adeguatamente difeso contro la Francia»[10].

    Parallelamente, la realizzazione di una rete di strade che, attraversando le località turingiane di Coburgo e Meiningen, collegava gli Stati del sud a quelli del nord rese la Mitteldeutscher Handelsverein molto meno accattivante e vantaggiosa rispetto all’Unione doganale egemonizzata dalla Prussia, specialmente alla luce del trattato di libera navigazione del Reno raggiunto tra Olanda e Prussia nel 1831. L’Assia-Kassel, imbottigliata tra i possedimenti occidentali e orientali prussiani, ufficializzò a sua volta il proprio ingresso nell’Unione doganale nel 1831 assicurando alla Prussia una continuità territoriale dall’elevatissimo valore strategico. Grazie agli sforzi diplomatici del nuovo ministro delle Finanze prussiano Georg Maassen, le trattative si conclusero nel 1833 con l’istituzione del Deutscher Zollverein, l’Unione doganale definitiva che sarebbe entrata in vigore all’inizio dell’anno seguente includendo Prussia, Assia (nella sua semi-totalità), Baviera, Württemberg, principati turingi e anche Sassonia, che si distaccava così dall’agonizzante Mitteldeutscher Handelsverein infliggendo un colpo micidiale alla sua sopravvivenza. Di grande importanza risultò il successivo inglobamento nell’Unione doganale tedesca del Granducato di Baden, crocevia commerciale tra la Francia, la Svizzera e gli altri Stati tedeschi, nonché Francoforte, che alla luce della perdita dello sbocco alla regione renana causato dall’adesione di Nassau al Deutscher Zollverein decise di revocare l’accordo commerciale che aveva sottoscritto con la Francia per timore di subire l’esclusione dai mercati tedeschi.

    Tra il 1834 e il 1838, Hannover, Brunswick, Oldenburg e principato di Schaumburg-Lippe si riunirono in una lega doganale alternativa, appoggiata da Londra e denominata Steuerverein, in risposta ai successi prussiani, ma l’accordo decadde nel 1842 a causa della defezione di Brunswick, che passò al Deutscher Zollverein per spezzare l’isolamento in cui era stata confinata seguita a poca distanza temporale da Hannover e da Oldenburg. L’adesione generalizzata all’Unione doganale fece sì che l’intera Confederazione tedesca venisse investita dal processo di liberalizzazione del mercato interno che era stata attuata dalla Prussia, con conseguente uniformazione dei sistemi di misurazione tra i Paesi membri e adozione di una tariffa unica sulle importazioni i cui proventi sarebbero stati ridistribuiti all’interno della confederazione in proporzione alla popolazione dei vari Stati. Sul piano politico, l’unione doganale poneva le premesse per la risoluzione del problema segnalato dall’economista Lorenz von Stein nel 1856, secondo cui «quella che noi chiamiamo Germania è un complesso di territori, la cui principale qualità sta in ciò, che essi sono parti, senza poter costituire un tutto»[11].

    D’altro canto, come scrive in proposito lo storico inglese John Laughland:

    La Prussia modellò lo Zollverein a sua immagine e somiglianza ed esercitò pressione sugli altri Stati affinché armonizzassero le loro economia con la sua. L’ulteriore potenziamento dello Zollverein [...] permise alla Prussia di consolidare progressivamente la propria influenza. Ad ogni stadio, la Prussia convinse gli altri Stati tedeschi ad aderire ai nuovi trattati insistendo sul fatto che sarebbe stato nel loro interesse: restandovi fuori, avrebbero semplicemente subito le decisioni della Prussia. All’interno dell’Unione doganale, al contrario, sarebbero stati in grado di far valere i propri interessi. In questo modo la Prussia stabilì una relazione egemonica con gli altri Stati tedeschi. In teoria la nuova costruzione avrebbe dovuto contenere il potere della Prussia; nei fatti lo rafforzò[12].

    Bismarck

    La Francia, in altre faccende affaccendata, non comprese appieno la valenza strategica del grande disegno prussiano, e continuò a mantenere elevate le tariffe doganali ostacolando l’accesso sul proprio mercato di merci prodotte negli Stati tedeschi meridionali che erano contrari a sottostare all’egemonia prussiana. A questi ultimi, non rimase altra scelta che aderire

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