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Israel Jihad in Tel Aviv
Israel Jihad in Tel Aviv
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E-book379 pagine4 ore

Israel Jihad in Tel Aviv

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Info su questo ebook

"In Israele nessuno muore veramente, in Israele nessuno vive realmente".

Ariel Lilli Cohen è nata il 6 dicembre 1988 a Haifa (Israele) ed è la terza di tre fratelli. Suo padre Darius Cohen è stato un ex agente dell' Ha'Mossad e sua madre Noha Avner è un alto ufficiale di Shin Bet, l'agenzia di sicurezza israeliana. È stata in passato una leonessa del Magav, la polizia di frontiera israeliana a Gerusalemme. Proviene da una famiglia ebrea.
Ariel parla correntemente ebraico, inglese, francese, arabo, russo, urdu e italiano. Ariel è diventata un soldato all'età di sedici anni. Dopo il suo sedicesimo compleanno, l'esercito grazie al suo alto quoziente d'intelligenza (Qi164) ha preso parte ad una squadra speciale chiamata "Genius", con l'obiettivo di risolvere i problemi in modo non convenzionale. Ariel è stata una operativa delle unità speciali delle forze di sicurezza israeliane (IDF). Ha aderito con la sua squdra a varie azioni militari "sottocopertura", vivendo molte vite in una.

Per evitare di impazzire e ritrovare se stessa, ha deciso di scrivere questo libro. Per raccontare tutte le sue esperienze, le paure, le speranze, gli amori e le verità non dette, ha scelto la forma del romanzo. Ha iniziato a scrivere la sua storia nel 2014, prima dell'ultima guerra a Gaza. Questo romanzo è stato pubblicato in ebraico, inglese, arabo, russo, francese e italiano. In breve tempo è diventato virale con più di duemila download.
Lei è preoccupata del suo Paese e crede che il desiderio del popolo israeliano è di vivere in pace, ma purtroppo devono sempre difendersi, non solo dai nemici stranieri, ma dai propri cittadini.

LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2020
ISBN9780463936283

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    Anteprima del libro

    Israel Jihad in Tel Aviv - Ariel Lilli Cohen

    Dedica:

    Questo romanzo è dedicato a…

    Hadar Cohen

    (Or Yehuda 1997 – Jerusalem 2016)

    Hadas Malka

    (Ashdod 1994 – Jerusalem 2017)

    Solomon Gavriyah

    (Be’er Yaakov 1997 – Har Adar 2017)

    Yael Yekutiel

    (Givatavim 1997 – Jerusalem 2017)

    Shir Hajaj

    (Moshav Azaria 1995 – Jerusalem 2017)

    Shira Tzur

    (Haifa 1997 – Jerusalem 2017)

    I nostri eroi caduti e feriti che si sacrificarono per preservare la nostra libertà e la nostra sicurezza conoscano la profondità della nostra gratitudine.

    Non verrà mai dimenticato il vostro sacrificio.

    Ariel Lilli

    Prefazione

    "Gli Ebrei sono sopravvissuti attraverso tutti i secoli, gli Ebrei hanno dovuto soffrire per tutti i secoli, ma ciò li ha anche resi più forti" (Anne Frank)

    Il freddo pungente del vento di Haifa nelle prime ore della mattina, quanto mi manca, quanto mi manca Haifa. Avere un QI di 164 è stata quasi una maledizione, la mia intelligenza mi ha privato della giovinezza. Avrei potuto fare tante cose, giocare a pallavolo, suonare il pianoforte, fare la modella… Invece mi ritrovo qui. In una delle più prestigiose squadre operative del Servizio di Sicurezza Nazionale.

    Mettere nero su bianco, tirare fuori tutte le mie emozioni, non è stato facile. Ho vissuto tante vite in una sola. Per non diventare matta e cercare di ritrovare me stessa, ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare tutte le mie esperienze, tutte le mie paure, tutte le mie verità non dette. Stare sotto copertura per mesi, a volte per anni, senza tornare mai a casa, senza avere rapporti con la mia vita reale, mentendo ai miei amici, alla mia famiglia, spesso a me stessa, ha creato un rapporto conflittuale con le identità che di volta in volta uso. Questo modo di vivere ti cambia, cambia il modo di percepire la vita reale.

    Un signore, mentre giocavo a biliardo in un club qui a Montreal, mi ha detto che gioco molto bene per essere così giovane. Ma l’età non si misura in anni, bensì in chilometri percorsi. Io ne ho fatti molti e sono stanca. Stanca di dover sempre rincorrere. Stanca di dover mentire. Stanca di avere paura. Quando sei in missione non sai mai quello che ti può accadere.

    Due mesi fa Shani ed io abbiamo rischiato di farci scoprire. Ci hanno picchiato violentemente. Mentre avevo in gola un sapore misto tra il mio stesso sudore e quello acre del sangue, quando il cuore sembrava scoppiarmi nel petto, ho ripensato alle motivazioni che mi hanno fatto diventare un’agente operativa dei servizi segreti israeliani. Il terrore che ho provato mi accompagna ancora oggi, ogni volta che sento lo sguardo di un estraneo posarsi su di me. Perché faccio questo? Perché sacrifico la mia vita? Allora il mio ricordo è andato ad un agosto di qualche anno fa; ci avevano segnalato che una cellula terroristica di Hamas si era infiltrata in Israele e stava per colpire il Dizengoff Mall con un attacco batteriologico. Quella volta siamo riusciti a neutralizzarli appena in tempo. Qualche ora dopo sono tornata al centro commerciale per prendere un gelato con i miei compagni, Shani, Shlomit, Zoe e Aviv. Tutte quelle famiglie, tutti quei bambini sarebbero morti senza il nostro intervento. È per questo che lo faccio, per difendere la mia gente, il mio popolo e, anche se sembra un po’ ambizioso, per difendere la democrazia nel mondo.

    Adesso, mentre permetto alla penna di scrivere i miei pensieri, sono seduta in un locale a Richardson Street a Montreal, devo incontrare una risorsa. Spero che vada tutto bene, spero di portare il culo in salvo anche questa sera. Ma quando finirà tutto questo? Quanto lavoro abbiamo fatto e quanto ne rimane!

    Penso a Milano sei mesi fa, a San Diego e a Buffalo, a Tel Aviv, tre mesi fa a Madrid, il mese scorso al negozio di dischi tra Pitt Street e la Circular Quay di Sydney. A tutti gli attentati che ho contribuito con la mia squadra a neutralizzare. A tutte quelle stelle senza un nome che sono all’ingresso della sede dell’agenzia a Tel Aviv. Stelle senza un volto, solo il ricordo indelebile di chi li ha conosciuti.

    Tutti quegli agenti che hanno sacrificato la vita nell’adempimento del proprio dovere. Per salvare anche la vostra vita. Fate che il loro sacrificio non sia stato vano.

    Vorrei un mondo dove il mio lavoro non sia necessario, un mondo dove non ci siano conflitti causati da estremismi religiosi.

    Mentre scrivo, penso ai miei colleghi giù a Gerusalemme che ancora, giorno dopo giorno, difendono come ultimo baluardo la frontiera della democrazia. I leoni e le leonesse del Magav. Penso a Shira che combatte ogni giorno, ad Heli che dopo tre anni ha lasciato il servizio operativo alle porte di Damasco: grazie per il grande privilegio di proteggere il popolo di Israele nel luogo più sacro del mondo.

    Penso ad Hadar e Hadas che hanno sacrificato la loro vita a Gerusalemme, a Solomon che è morto ad Har Adar. Penso alla sua ragazza, Betty, ai suoi familiari.

    Quante persone, madri, padri, fratelli, sorelle, fidanzate e fidanzati dovranno rimanere soli nel cammino della vita, privati dei loro cari dalle azioni dei terroristi? Io non mi sento di condannare del tutto le mani responsabili di questi attacchi.

    La mia ira, la mia rabbia, il mio disprezzo sono rivolti a coloro che con le loro ideologie hanno armato quelle mani. I loro discorsi pieni di odio, di rancore, riempiono come l’acqua nel deserto la vita vuota di persone plagiate da una folle ideologia estremista.

    Quelli sì che hanno le mani macchiate di sangue. Mentre se ne stanno al caldo delle loro case, in compagnia delle loro famiglie, mandano a morire giovani che hanno fatto crescere in un odio cieco che non conosce dialogo.

    Sento che prima o poi finirò anch’io su quel muro, una stelletta tra le altre. Allora mi riunirò a tutti i miei compagni che si sono sacrificati, tanti ragazzi innamorati di una vita che non hanno fatto in tempo a vivere, e a volte desidero per davvero essere lì.

    Fare questo lavoro logora la coscienza, vedi e devi fare cose che nessuno vorrebbe vedere e fare. Prima o poi anche io farò qualche imprudenza, farò una valutazione sbagliata, commetterò l’errore che mi costerà la vita. Una vita che adesso sento vuota.

    Spero che questo libro vi faccia riflettere. Naturalmente ho dovuto cambiare qualche nome e camuffare qualche circostanza che potrebbe, se scoperta, minare la sicurezza dello Stato di Israele. Le mie esperienze le ho tradotte nella forma di un romanzo. Un viaggio al confine della legalità. Spero che riusciate a cogliere il messaggio di speranza e di amore che si cela tra le mie parole.

    Un cammino che comincia nel 2014, prima della guerra a Gaza. Il lavoro di un gruppo di amici che, in pochi mesi, sono diventati una delle migliori squadre operative del Mossad.

    Ariel Lilli

    Prologo – Noora

    Gennaio 2014 – Ginevra, Hotel Kempinski

    Noora è seduta al bar dell’hotel. Sarà per il colore viola che sembra avvolgere tutto, dal bancone ai soffitti alle sedie, o forse per le luci del crepuscolo che rendono ancora più malinconico il grande lago che le si staglia davanti, ma di certo la sua mente si sta perdendo nei ricordi, di ciò che era e che oggi non è più.

    Sente qualcosa premere dentro lo stomaco mentre pensa agli anni meravigliosi passati a Eton a contatto con persone provenienti da tutte le parti del mondo, i figli delle famiglie più ricche ma non per questo migliori, come ha presto imparato… però sono stati anni bellissimi. Prova nostalgia persino per i professori, la maggioranza dei quali era convinta, all’epoca, di odiare. E poi il master alla NYU in scienze sociali… quanto le manca New York… soprattutto le giornate di vento freddo quando l’aria si incanala nelle Avenues e diventa difficile persino tenersi i vestiti addosso. Già, il freddo, quello stesso freddo che rende lì a Ginevra l’aria così tersa e il lago come uno specchio che riflette le mille luci del Quai de Mont Blanc. Quasi tutti quelli che come lei sono nati in Medio Oriente lo odiano quel freddo, quasi sia qualcosa di sbagliato, innaturale. A Noora invece piace, le fa venire voglia di essere coccolata da qualcuno, qualcuno capace di scaldarla.

    Quanti erano? Quindici? Sì, quasi quindici mesi che non usciva dal Qatar.

    Quel viaggio a Ginevra è la prima evasione dopo tanto tempo da un posto che non riesce più a riconoscere come casa sua. Del resto è quello che si doveva aspettare accettando di diventare la terza moglie dell’emiro del Qatar. All’inizio si era sentita lusingata e poi aveva pensato a quante cose avrebbe potuto fare con organizzazioni come l’Unicef per mettere in pratica quello che aveva studiato, e tutti quei bambini orfani e disagiati ne avevano davvero tantissimo bisogno… poi la realtà quotidiana si era rivelata molto diversa. Un sacco di eventi mondani, feste, cene di rappresentanza, ma di concreto pochissimo. È vero, è riuscita a diventare un’ambasciatrice Unicef ma sa bene che sono le immense ricchezze della famiglia reale che lo hanno permesso e non le sue competenze. Le altre due mogli sono molto più a loro agio in quella situazione, ma loro sono cugine dell’emiro, appartengono alla stessa famiglia. Lei no, lei è nata negli Emirati Arabi, è la figlia di un ambasciatore e ora è Sheika… ma allora perché ha tanta voglia di scappare?

    La nostalgia di Noora viene interrotta dall’arrivo di un uomo elegante al bancone del bar, anche lui non ha un’aria felice ma sembra più deluso che malinconico. È molto attraente, atletico e ha qualcosa di strano nello sguardo, ma Noora sa che non può indugiare nel fissarlo e distoglie gli occhi, le sue guardie del corpo la stanno certamente osservando e chissà cosa potrebbero mai raccontare all’emiro. Con un’ultima occhiata nota un particolare che stona un po’ con il resto dell’aspetto. Al posto del fazzoletto dal taschino della giacca pende un badge con un nome e un simbolo che non riesce a riconoscere.

    Un whisky per favore dice l’uomo mentre si siede a quattro posti di distanza da Noora, che ora non è più l’unica cliente per il barman, che smette di allineare i calici e si avvicina al nuovo arrivato.

    Ha qualche preferenza?

    Glenlivet se ce l’hai.

    Il barman versa all’uomo quello che gli ha chiesto.

    Ecco a lei… Jamal aggiunge indicando il badge al taschino.

    Già… ma secondo te è possibile che uno con due donne fa due chip e poi in quinta mano il banco gli dà la terza donna?

    Noora ascolta un po’ spaesata e fa fatica a comprendere di cosa stiano parlando, ma il chiaro accento mediorientale di Jamal acuisce la sua curiosità.

    Dovresti saperlo dice il barman, il poker è abilità ma almeno per il sessanta percento è fortuna…

    A me lo dici? risponde immediatamente Jamal. Io lo faccio per vivere!

    Ma me lo sono sempre chiesto, ci riesci davvero a vivere con i tornei di poker?

    Ecco di cosa stanno parlando: poker! E per qualche motivo Nora ha la sensazione di uno scampato pericolo.

    Certo! Beh, devi essere bravo, ma si possono anche fare bei soldi. Il vero problema è che devi viaggiare continuamente.

    Da dove vieni, Jamal?

    Noora è quasi certa che l’esitazione che Jamal ha prima di rispondere alla domanda del barista sia dovuta al fatto che la stava guardando e forse valutando.

    Da Beirut, Libano risponde Jamal, ma è come distratto. Un’altra conferma, pensa Noora, poi lui riprende. Però pensa, domani partirò per Honk Kong e, se tutto va bene, poi mi attendono Tokyo, Honolulu e Vancouver.

    Noora accavalla le gambe e fa uscire il tallone dalla sua Jimmy Choo sinistra, lasciandola dondolare appoggiata alle dita del piede; con la coda dell’occhio vede che il suo gesto ha attirato l’attenzione di Jamal, sente il suo sguardo percorrere il suo corpo e il suo cuore battere più forte.

    Accidenti la voce del barman tradisce un po’ di invidia, e prima di venire a Ginevra dov’eri?

    A New York… ci sono stato per due settimane, era un torneo importante, da due milioni di dollari.

    E l’hai vinto?

    Noora, senza deciderlo, per la prima volta punta lo sguardo su Jamal, e mentre lo fa passa la punta della lingua sul labbro superiore, quasi che il rossetto abbia anche il sapore delle ciliegie mature oltre al loro colore. Poi si alza, raccoglie la sua pochette e si allontana. Una figura nell’ombra accenna a muoversi ma viene trattenuta da un’altra, mentre Noora entra nella toilette della hall dell’albergo.

    Uh… no, sono arrivato in finale e ho vinto solo duecentomila dollari… risponde Jamal, ma è come se stesse parlando un fantasma.

    ****

    Noora nel bagno è seduta sul water e sta tremando. Ha caldissimo, come se qualcuno le stesse soffiando addosso dell’aria bollente. Perché aveva fatto quella cosa? Cosa le era passato per la testa? E se le guardie se ne fossero accorte? E ora cosa poteva fare? Doveva calmarsi. E se Jamal avesse colto l’invito e l’avesse seguita? No, non può essere, continuava a ripetersi mentre i battiti del cuore non accennavano a rallentare. Quando finalmente le sembra di riuscire a respirare con una certa regolarità, si alza e apre la porta, pronta a rimettersi in sesto allo specchio. Jamal è lì che l’aspetta, sta ricominciando a tremare ma una parte di sé che ancora non sa di avere prende il sopravvento.

    E com’era New York? sente domandare da una voce roca che non riconosce come sua.

    C’era tanto vento le risponde Jamal mentre l’afferra e l’attira a sé. Noora avverte con piacere le sue mani sulla schiena mentre gli offre la bocca, un piacere che si rende conto di non provare da troppo tempo.

    È un bacio lungo, profondo. Intanto le mani di Jamal sollevano il leggero vestito di seta e cominciano a toccarla e lei vuole che lo facciano. Poi lui la stacca da sé, la fissa negli occhi e Noora capisce quale sia la stranezza che l’ha colpita: i suoi occhi sono diversi, uno è verde intenso scuro, l’altro è azzurro striato; gli occhi di un felino. Lui la gira e Noora sa cosa succederà, lo sente chinarsi e sfilarle gli slip e poi rialzarsi e sollevarle il vestito. Noora poggia le braccia sul lavandino, allarga un po’ le gambe e lo accoglie con un gemito. Tutto esplode nella testa di Noora e non appena si riprende Jamal si ferma, si china e le sussurra all’orecchio.

    Posso…

    Lei non lo lascia terminare e gli dice con voce roca e piena di desiderio: Fai tutto quello che vuoi…

    ****

    L’emiro rientra in albergo pochi minuti prima della mezzanotte. Ha la faccia stanca e scura. Non appena entra nella sua suite incontra lo sguardo di Faysal, il suo consigliere personale, un amico, forse l’unica persona di cui si fidi completamente.

    Caro Faysal, è tutto inutile. Mi chiedo davvero cosa siamo venuti a fare qui. Tanto quel testardo di Assad non accetterà mai le richieste degli americani, quei cani. Io non lo farei. Poi si ferma perché si accorge che lo sguardo di Faysal è accigliato, e lo è sempre e solo quando è successo qualcosa di grave; questa volta anche di più, perché al posto del grosso sigaro che occupa sempre le mani dell’amico, questa sera c’è un tablet.

    Faysal… cosa succede?

    Altezza, devo mostrarle una cosa ma la prego, prima si sieda.

    L’emiro si siede e Faysal gli porge l’iPad su cui stanno scorrendo le immagini del tradimento di Noora. L’ira del sovrano esplode.

    Brutta puttana! Maledetta! Neanche tre mesi fa l’ho sposata quella cagna, e guarda che fa la prima volta che usciamo dal Qatar! Si fa scopare come una puttana nel cesso dell’hotel! L’ammazzo con le mie mani…

    Fa per alzarsi ma la ferma mano di Faysal lo trattiene.

    C’è una cosa ancora più grave, Altezza…

    L’emiro alza su Faysal uno sguardo a metà tra l’incredulità e lo sgomento.

    La persona, il cane che le ha fatto questo oltraggio è un agente israeliano. Tutti nella stanza si aspettano un’ulteriore sfuriata, invece l’anziano emiro rimane in silenzio e quando parla la sua voce è fredda come il ghiaccio.

    È il momento. È giunto infine. Con l’aiuto di Allah non rimarrà neanche una pietra del maledetto stato di Israele. È arrivato il momento di chiudere i conti con la storia. Faysal, amico mio, chiamami quelli di Hamas e chiamami Kahlid, voglio che mi raggiunga immediatamente. E ora andatevene tutti!

    Le guardie presenti in silenzio lasciano la stanza. Feysal, quando tutti sono usciti, prima di congedarsi anche lui sussurra:

    Altezza… e Noora?

    Ci penserò io personalmente risponde con un lampo negli occhi l’emiro.

    Le ricordo di chi è figlia, Altezza…

    Non la ucciderò, non adesso almeno, se è questo che vuoi sapere… ma ora va a chiamare Kahlid.

    Capitolo 1 – Yael

    Troppa luce

    C’è troppa luce queste due parole rimbalzano continuamente nella mente di Yael mentre aspetta insieme al resto della sua famiglia che il rabbino Stern cominci la sua orazione cerimoniale. Eccezionalmente la ricorrenza non veniva celebrata davanti al cimitero del monte Herzel, posto deputato per le esequie militari, ma sulla spianata in cima allo Yad Vashem, dall’altra parte della collina della memoria. Il grande spazio è stato ornato con solennità. Il palco su cui il rabbino deve salire di lì a poco si trova davanti al grande edificio in mattoni e vetro dove, ogni anno, Yael è venuta a rendere omaggio ai morti per lo stato di Israele insieme ai suoi compagni di scuola. Le sedie sono state disposte in due grandi settori, con un corridoio in mezzo; su quelle di destra è presente lo stato maggiore dell’esercito quasi al completo, dietro di loro due file di uomini in borghese, ma Yael ha ben presente che sono militari anche loro: gli ex colleghi di suo padre che presto diventeranno anche i suoi, ma lei ancora non lo sa.

    La parte sinistra invece è riservata ai parenti, agli amici e a tutti quelli che hanno voluto partecipare a quel momento. Come avverte il calore che cresce dal suo giovane corpo di diciottenne sotto i vestiti un po’ troppo pesanti per una giornata così calda, ma doverosi in un’occasione come quella, Yael avverte fisicamente il sentimento di fratellanza che la lega a tutte quelle persone, e come il sole aumenta quella sensazione di calore di minuto in minuto, la costante minaccia che incombe sul suo Paese ha fatto crescere quel sentimento in lei e, Yael lo sa, anche in tutti quelli che la circondano.

    Oltre le sedie, un lungo bancone con piatti e bicchieri pronti per il rinfresco – opera di sua madre - che sarebbe seguito e, al di là del muretto che delimita la terrazza, i tetti di Gerusalemme.

    A Yael bruciano gli occhi.

    Finalmente il rabbino sale sul palco e comincia il suo discorso.

    Siamo qui oggi tutti insieme perché proprio oggi sono dieci anni che Eran non c’è più. Lui, uno dei figli degli scampati alla Shoah, uno della prima generazione dello Stato che il Signore dopo tante tribolazioni ha voluto restituirci…

    È di suo padre che il rabbino sta parlando. Yael sa a memoria i passaggi che avrebbe compiuto il discorso. L’infanzia felice, la formazione nel kibbutz Zikim a pochi metri da dove oggi c’è la Striscia di Gaza, i primi successi sportivi e poi la carriera militare.

    Il più giovane ufficiale dei servizi speciali della sua generazione e via via fino alla sua morte, avvenuta durante la guerra del Libano quando, dopo che i terroristi attaccarono Zar’it Shlom, si sacrificò per salvare il suo plotone durante l’operazione Sharp and Smooth.

    A Yael i nomi di quelle battaglie si sono fissati nella memoria un giorno di dieci anni prima, quando li sentì pronunciare da un giovane ufficiale che venne a bussare alla porta della loro casa in stile Bauhaus di Tel Aviv nel quartiere Rotschild.

    Quel giorno che non può più dimenticare Yael aveva appena otto anni e stava giocando nel piccolo giardino davanti alla loro porta con Zohar, la sua amica di sempre; fingevano di essere grandi impiastricciandosi le guance con i trucchi di mamma. All’improvviso quell’uomo, sceso da una limousine, le si era avvicinato, si era chinato su di lei e l’aveva invitata a seguirlo entrando in casa, e poi aveva parlato a sua madre Hodaya.

    Nel ricordo Yael la vede ancora una volta accasciarsi sulla poltrona, con la sua pancia abitata da sette mesi dalla sua sorellina Ariel, che suo papà non avrebbe visto mai. Yael ripensa ancora una volta a suo fratello Avner che stava per compiere 13 anni: si chiuse nella sua camera per uscirne solo tre giorni dopo. E quel senso di vuoto dentro di lei che non era riuscita più a riempire nel corso di quei dieci anni. Il vuoto per una presenza rara e preziosa nella sua vita di bambina, per i momenti di tenerezza quando si attaccava al suo collo le poche volte che suo padre si era concesso una pausa e aveva passato una serata seduto sul divano a guardare la televisione; per le tante domande a cui non avrebbe più risposto, per un uomo che aveva cominciato ma non avrebbe più potuto continuare a conoscere.

    Forse a causa di quel vuoto immenso sorto in lei, bambina che aveva dovuto crescere improvvisamente, aveva deciso di intraprendere la carriera militare ricalcando le sue orme: le sembrava l’unico modo di conoscerlo ora che non c’era più, di poter stare ancora con lui. Aveva passato molte ore a sfinire sua madre e suo fratello per farsi raccontare aneddoti e ricordi sulla vita di Eran, e ora che alcuni dei suoi insegnanti erano stati colleghi di suo padre non perdeva occasione per farsi raccontare episodi della sua vita.

    Adesso sono tutti lì, a dieci anni di distanza.

    Sua madre Hodaya, che si era buttata nel lavoro dopo la morte di Eran riuscendo a sviluppare la sua azienda di catering fino a diventare una delle più richieste di Tel Aviv.

    Suo fratello Avner, a cui mancano poche settimane per terminare il servizio di leva; bello, attraente con i suoi lineamenti quasi perfetti e il suo carattere ombroso e introverso che non fa che aumentarne il fascino. Corteggiatissimo dalle ragazze di mezza Tel Aviv, lui però è fedelissimo a Zohar, che in questo momento è al suo fianco e gli sta tenendo la mano.

    La sua amica Zohar, ora fidanzata di suo fratello. L’inizio del loro amore è forse cominciato in quei famosi tre giorni di autoreclusione di Avner dieci anni prima, quando aveva consentito solo a Zohar di entrare nella stanza e parlare con lui.

    Infine Ariel: ha solo due anni

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