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Be Jihad (Intifada)
Be Jihad (Intifada)
Be Jihad (Intifada)
E-book1.455 pagine21 ore

Be Jihad (Intifada)

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Info su questo ebook

Nella nuova versione Delux. Dal best seller della stessa autrice Israel Jihad, qui si uniscono in un volume solo i quattro romanzi principali.

Un cammino che comincia prima della guerra a Gaza. Il lavoro di un gruppo di amici che, in pochi mesi, sono diventati una delle migliori squadre operative del Mossad.

Questa è una grande storia d'amore, o meglio, è l'atto d'amore di un popolo intero verso il suo Paese.

La lotta quotidiana per la sopravvivenza, la morte sempre in agguato, nemici conosciuti e sconosciuti determinati a seminare terrore e distruzione, l'angoscia per ciò che potrebbe accadere tra un mese, tra un giorno, tra un'ora…

Tutto questo è anche una storia d'amore nel senso più classico del termine, un amore appassionato e impossibile tra un uomo e una donna che si amano disperatamente ma che il destino ha schierato sui fronti opposti della barricata.

La famiglia Cohen ha dato un grande contributo di sangue alla causa israeliana: papà Eran è rimasto ucciso eroicamente in combattimento.

Mamma Hodaya è una vera madre coraggio, premurosa e amorevole con i suoi familiari, ma anche fieramente consapevole del valore del sacrificio per la difesa dello Stato. Avner è il primogenito, poi altre due figlie: Ariel, una quindicenne inquieta, ansiosa di dare un contributo alla causa del suo Paese e Yael, 21 anni, arruolata come agente dei servizi di sicurezza per la sua innata attitudine al comando e soprattutto per il suo prodigioso eQI. Ben presto la ragazza assumerà la guida di una squadra speciale di analisti, programmatori informatici e matematici, in grado di svelare e sventare i più gravi attentati al cuore dello Stato di Israele.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2022
ISBN9791221444704
Be Jihad (Intifada)

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    Anteprima del libro

    Be Jihad (Intifada) - Ariel Lilli Cohen

    Ariel Lilli Cohen is a register trademark™®

    by Ṣabāba Factory a Blacksheep.co.il Company

    Sababa Factory Israel

    Creative Development

    Azrieli Tower                                                    

    Derech Menachem Begin 146

    Tel Aviv    

    Sababa Factory US

    Format Development

    430 Park Avenue

    1022 – New York

    ariel@ariellillicohen.co.il

    www.ariellillicohen.co.il

    Citazione

    In Israele, nessuno muore veramente. 

    In Israele, nessuno vive veramente.

    Ariel Lilli Cohen

    "Sapevo ciò che stava succedendo. Non è che me lo sentivo, lo sapevo con certezza. E lo sapeva anche Eli. L’ho visto con i miei occhi, l’ultima volta che era tornato a casa. Sapeva che i siriani lo stavano aspettando, sapeva che in Siria lo attendeva la morte. Ed era a casa con me, vivo, ma era come se fosse già morto. Quando mi dissero che l’avevano catturato, non fui sorpresa. Ero pronta, già lo sapevo.

    Non passa giorno senza che io pensi a lui, che io pianga per lui, senza che io veda i suoi occhi. Occhi tristi, occhi infossati, occhi tormentati. E io lo vedo lì, seduto sulla panchina, accanto alla corda, pronto per essere impiccato. Mi manca la sua voce. La sua stabilità. Mi manca vederlo invecchiare. Vederci invecchiare insieme. Mi manca appoggiare la mia testa sulla sua spalla. L’ho amato molto, solo Eli però. Oggi e sempre. Lui è con me, mi accompagna. Vedo il suo sorriso, la sua malinconia, la sua rabbia. Ma non mi ha mai lasciato. A volte mi siedo davanti alla finestra e controllo se passa per caso davanti a casa. Ogni volta che vedo una nuvola sorridermi, sono sicura che sia lui."

    Nadia Cohen

    Dedica:

    Questo romanzo è dedicato a…

    Eli Cohen

    dove non c’è consiglio il popolo cade, ma nella

    moltitudine dei consiglieri c’è salvezza

    Hadar Cohen

    (Or Yehuda 1997 – Jerusalem 2016)

    Hadas Malka

    (Ashdod 1994 – Jerusalem 2017)

    Solomon Gavriyah

    (Be’er Yaakov 1997 – Har Adar 2017)

    Yael Yekutiel

    (Givatavim 1997 – Jerusalem 2017)

    Shir Hajaj

    (Moshav Azaria 1995 – Jerusalem 2017)

    Shira Tzur

    (Haifa 1997 – Jerusalem 2017)

    Noam Raz

     Gerusalemme 1975 - Burkin May 2022

    Shirel Abukarat 

    Netanya 2003 - Hadera Marzo 2022

    Yezen Falah

    Kisra-Sumei 2003 - Hader  Marzo 2022

    Amir Khoury

    Nof HaGalil 1990 -Bnei Brak Marzo 2022

    Reuven Magen

    Tel Aviv 1994  - Tel Aviv 2022

    Barel Shmueli

     Be’er Ya’akov 2000 - Gaza border August 2021

    Amit Ben Yigal

    Ramat Gan 1999 - Ya’Bad Maggio 2020

    Ori Ansbacher

    Tekoa 2000 - Ein Yael Forest 2019

    Rina Shnerb

    Lod 2002 - Dolev 2019

    Gal Keidan

    Be’er Sheva 2000 - Ariel 2019

    Yoseph Cohen

    Ashkelon 1999 - Givat Asaf 2018

    Ron Kokia

    Tel Aviv 1998 - Arad 2017

    Bar Falah

    Netanya 1992 -  Jalamah 2022

    Noa Lazar

    Bat Hefer 2004 - Jerusalem 2022

    Ido Baruch

    Gedera 2001- Shavei Shomron 2022

    I nostri eroi caduti e feriti che si sacrificarono per preservare la nostra libertà e la nostra sicurezza conoscano la profondità della nostra gratitudine.

    Non verrà mai dimenticato il vostro sacrificio.

    Ariel Lilli

    Preludio all’Epilogo

    Non ci posso credere. 

    Sono passati ormai cinque anni da quando ho cominciato questa avventura letteraria. Quando ho creato con la mia fervida immaginazione l’agente speciale Yael Cohen. Oppure è stata Yael Cohen che ha creato Ariel Lilli Cohen? O forse nessuno dei due. Uno dei tanti misteri di Israele. Fonte ed ispirazione di sicuro è stato Eli Cohen. Un grande eroe nazionale. figlio , marito e padre. Il fatto che i siriani non ci abbiano mai riconsegnato il suo corpo mi ha sempre fatto venire una rabbia assurda. Neanche la pietas della morte. Bastardi che non siete altro, che il vostro Dio vi possa incenerire l’anima.

    Di sicuro, so quando tutto è cominciato. Era Giugno, ed era venerdì sera. 

    Prima fermata del treno Merkaz Savidor, poi la seconda. La mia; HaHagana. Da lì con il sessantatre si arriva in spiaggia in una decina di minuti. Comincia per noi al tramonto la festività dello Shabbat. Stavo con Shani, Shlomit, Hodaya, gli amici di sempre giù in spiaggia. Gli scarponi militari li avevo messi in uno zaino. La camicia verde ed i pesanti pantaloni di cotone, arrotolati su di un telo sulla sabbia. Il fucile no. Quello lo devo portare sempre con me. 

    Il mio MTavor21.

    Compagno di tanti pianti. 

    Pianti di rabbia e di dolore. 

    Di rabbia, appena l’ho avuto in mano il primo giorno di servizio militare. 

    Di dolore, la prima volta che l’ho usato contro qualcuno. 

    Nessuno dovrebbe veramente provarlo.

    Chi sarebbe felice di avere un’arma così ingombrante e pesante a diciotto anni tra i piedi.

    A quell’età io pensavo solo a divertirmi tra feste in discoteche e falò sulla spiaggia e qualche spinello di troppo. Una ragazza qualunque di diciotto anni come tante mie coetanee a Tel Aviv. Lo so, lo so, io sono molto prolissa e divago spesso… me lo dicono tutti, ma questo è il mio sfogo. L’ultimo... Solo il fatto di scrivere di quei momenti, mi fa venire in mente tanti particolari che avevo dimenticato. Ora li sento addosso come all’ora. L’amore, la gioia, il sapore di quel tramonto, come li fai a descrivere senza tralasciare qualcosa, senza dare i giusti contorni. Come fai a descrivere la sensazione di felicità e spensieratezza che provavo, l’amore per la vita, la mia cazzo di vita con il mondo nel mio pugno. Comunque, dicevamo; Il solito aperitivo da Eran, il manager della spiaggia Tzifoni ed Hezi alla sinistra di Jerusalem beach, quella che si affaccia sulla spiaggia libera per intenderci. Ricordo come adesso il tramonto di quella sera. Mai visto un tramonto del genere a Tel Aviv. 

    Un segno del destino. La luce del sole era fortissima. I raggi sembrava che mi venissero addosso con tutta la loro forza, per quanto fosse grande il sole che stava pian piano annegando il calore nel mare. 

    Un ultimo saluto ad Hezi il proprietario e ad Avi e tutti gli amici di sempre. Prima di levarmi la sabbia dalle ciabatte, un’ultima sigaretta con Zohar. È l’ultima delle cameriere ad entrare a far parte del gruppo di amici dello stabilimento balneare, cosí parlando del più e del meno, si fa veramente tardi. Raccolgo tutto da terra, a momenti una bicicletta sulla strada pedonale non mi mette sotto. Al semaforo, mentre attraversavo la strada, il calore del sole ancora si faceva sentire sulle mie spalle. Mi sentivo bene. Una persona dovrebbe accorgersi di sentirsi bene ogni tanto. Fa bene al cuore. Dovrebbe goderne di quelle sensazioni. Poco più in là, una coda lunghissima. La gente era accalcata per aspettare i taxi collettivi che sono gli unici a poter viaggiare durante la festività dello Shabbat. Gli Sherut appunto. Ah sì… quanto ho riso… Di fronte alle fermate dei taxi. C’era un centro massaggi abbastanza equivoco con una grande insegna gialla con un numero di telefono in nero... Frequentato per la metà da turisti e dall’altra metà da arabi che scendevano da Yafo la sera tardi. Dicevo, i clienti del centro massaggi, loro, non si aspettavano che davanti all’ingresso del centro massaggi si fosse creata una fila cosí lunga. Era pieno di bambini, ragazzi, ognuno con la stessa voglia di tornare a casa a festeggiare. Così uscivano da lì dentro, chi con la sigaretta in bocca, chi parlando al cellulare. Chi grattandosi il viso. Ma tutti, proprio tutti, erano a testa bassa. 

    Uno a momenti prendeva un albero in faccia lì di fuori. Quante risate. Avrei voluto vivere quelle belle emozioni per sempre.

    Mentre percorrevo la salita di Allenby street in direzione George street, insomma all’incrocio con il mercato turistico di Shuk HaCarmel, pensavo a quei mesi passati nell’esercito. Effettivamente non sono stati i più facili della mia vita. L’addestramento è molto duro, devi portare il fisico all’estremità delle proprie forze. Devi essere pronta e costantemente vigile. E comunque sarebbero stati niente a confronto di quello che ho dovuto fare dopo.

    Tuttavia, mia madre mi aspettava per cena. A casa sul tavolo per la cena lo Challah,  il nostro pane intrecciato tradizionale. Le candele per la celebrazione dello Shabbat, cosí come le preghiere dell’ Havdalah ed il Kiddush sono una cosa importante. Un precetto che noi ci tramandiamo da secoli e per me che non sono tanto credente, anzi diciamo per niente è un modo per non sentirmi troppo sola. Un modo per sentire la vicinanza di altri ebrei. I miei fratelli e le mie sorelle. 

    Essere fieri di essere ebrei. A prescindere da tutto.

    Stavo scendendo giù per George street e stavo scrivendo un messaggio ad un ragazzo che avevo incontrato virtualmente su Tinder. Gli avevo dato un finto appuntamento al Morgana. La discoteca a Ben Yehuda. Però quello si era mostrato nei messaggi troppo asfissiante e sapevo che non ci sarei andata. Cosí l’ho ghostato.

    Il venerdí sera si va solo al Clara. Lo sanno anche i sassi... In ogni modo invio il messaggio, ed alzo la testa su di un insegna. 

    Piccolo Principe.

    L’insegna del locale diciamo che non farebbe invidia ad Hollywood per la sua scarsa appetibilità se confrontata con quelle insegne luminose delle città americane. Ma da queste parti, sono tutte un po 'cosí del resto. Ogni volta che ci facevo caso ripetevo dentro la stessa frase È il medio-oriente bellezza.

    Mi è venuta quindi una irrefrenabile voglia di scrivere. Poesie, questo era il mio sogno, diventare una poetessa. Nella mia mente si mischiavano d’un tratto le mie esperienze di quando ero più giovane. Al Piccolo Principe, ci venivo dopo scuola a fare i compiti, a scrivere poesie, ad incontrare i ragazzi ed organizzare le feste. Il negozio è un caffè ristorante. Un caffè letterario. Il wifi è gratuito, cosa fondamentale quando si gira per le strade di Tel Aviv. 

    Ricordo ancora l’imbarazzo da piccola per me che ero in divisa quando aprivo la pesante porta di vetro all’ingresso. Sembrava che tutti dentro mi stessero guardando. No. Non solo! Sembrava che si erano dati tutti appuntamento lì per guardarmi. 

    Non era certo una cheerleader a quei tempi. Anzi, orribili scarpe lucide, calzini blu fino al ginocchio, inguardabile gonnellino scozzese che piaceva tanto alla mia povera nonna e l’immancabile camicia bianca. Come se non bastasse per finire una tremenda cravatta. Tutto l’opposto delle bionde che giocano su e giù per la spiaggia, il mio vero obiettivo di look a quei tempi.

    Il locale, Il Piccolo Principe, ha una parte rettangolare all’ingresso, stretto e lungo. Ma io preferivo andare nel piccolo giardino alle spalle del bar, mi mettevo sempre con le mia amiche nell’angolo cieco di fuori, uno spigolo di giardinetto dove eravamo fuori dalla vista degli altri. 

    È lì che Io e Shani ci siamo fumate la nostra prima sigaretta. L’aveva rubata alla madre, ci aveva messo una settimana per prendere coraggio per compiere l’audace furto.

    Comunque era Shabbat. Il Piccolo Principe, il locale della mia infanzia, era chiuso.

    Che faccio? Il Dizengoff ormai è chiuso ed io mi dovevo comprare una camicetta carina da twentyfourseven, cavolo! Di tornare subito subito a casa poi non mi andava, a casa mia il primo che arriva prepara la tavola, ecco, magari per una volta, poteva farlo anche  mio fratello o la mia sorellina.

    Non divaghiamo. Nello zaino avevo il mio macbook pro. Un regalo… o meglio uno scarto di mio fratello. Lui era passato all’Air, io avevo contrattato ed alla fine me l’ha dato per cento shekel e per il numero di telefono della mia amica Shani.

    Quando ero per le vie di Tel Aviv ero libera. Tel Aviv. La mia città. Dio quanto la amo. 

    È vero lo sò. Le città dove uno nasce sono sempre le migliori e sembrano agli occhi di chi ci vive le più belle al mondo. Ma Tel Aviv ragazzi è uno spettacolo. Vedi cose che non vedi da nessuna altra parte. Gente in reggicalze che alle quattro della mattina va a comprare il latte, quelli che sono alla fermata dell’autobus e dagli short gli si vede il segno del tanga. Una città di matti e squilibrati in fondo in fondo. 

    Ma è la mia città. Non potrei e non vorrei vivere in nessun’altra.

    Eccoci. Apro il Mac, e mi siedo sui tre gradini. Con la schiena mi appoggio alla saracinesca. Mancava una birra e potevo stare li tutta la notte.

    Era Giugno. 

    Quel maledettissimo giugno duemilaquattordici. 

    Dalle notifiche del cellulare, la notizia shock. I corpi di tre ragazzi ebrei sono stati ritrovati fuori Gerusalemme.

    Chiunque sia israeliano. Chiunque sia di qualsiasi nazione, sa che tutto questo non poteva portare a nulla di buono. Non per me che stavo oltretutto facendo il servizio di leva obbligatorio.

    È cosí che il mio primo appuntamento per diventare una scrittrice famosa, sfumò miseramente. Il telefono cominciò a squillare. Era Mamma.

    Dove sei?

    Sto arrivando! le ho detto subito con un tono secco. Non mi andava di essere controllata come quando avevo quindici anni.

    Ma hai visto che è successo? A Gerusalemme. Mio Dio! Quella fermata, quell’autobus che prendevi tu quando l’estate scorsa andavi  al kibbutz.

    Effettivamente la voce di mia madre era abbastanza preoccupata. Diamine! È una donna in carriera e di sicuro ha ucciso più persone di me… scherzo ovviamente. O forse no. Boh.

    Okay Mamma. Torno subito. Mi sono fermata qui vicino al Dizengoff… Si… si ho capito. Arrivo.

    Tanto quando si mette in testa una cosa, devi fare come dice lei, quando lo dice lei.

    Cosí il mio appuntamento con la storia viene rimandato.

    Il trenta giugno duemilaquattordici la mia vita ha preso una piega inaspettata.

    La ragazza che aveva l’armadio pieno di vestitini alla moda e completini sexy è diventata una donna. Ho perso in un istante. In quell’istante la mia giovinezza. 

    Mi sono ritrovata mio malgrado, catapultata in un mondo che non era il mio. Un mondo che io non avevo scelto. Qualcuno ha forzato la mano del banco, ed adesso sono io che ci rimetto.

    E la colpa è di quelli di Hamas.

    Io in quei giorni entravo a far parte del Mossad. Mio fratello sarebbe partito per Protective Edge. 

    Ed è lí che sarebbe morto. Il giorno del suo ventitreesimo compleanno.

    È lí che la parte migliore di me è morta con lui. Quella che è rimasta dopo quegli eventi sono Io. La mia parte peggiore. Quella che è piena di odio per tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia. Alla mia gente. Ho perso molti dei miei amici in questa fottuta guerra che sembra non finire mai.

    Quello che vorrei fare adesso è correre. 

    Si correre. 

    Correre, attraversare e sfondare con il mio odio tutti i checkpoint che mi separano da quelli. Arrivare fino a Gaza. Scendere le scale dell’Ospedale centrale. È lì che nei sotterranei si nascondono i capi, facendosi scudo dei civili come dei vili.

    Vorrei urlargli in faccia tutta la mia frustrazione.

    Ma che pensate di fare? Non vi fate schifo? Che Dio vi maledica! Che Allah vi maledica! Per tutto l’odio che ci vomitate addosso. Per noi. Per me. Per il vostro Profeta. Le vostre mani unte con il denaro di chi vi finanzia, è macchiato dal sangue di quei poveri ragazzi che mandate a morire. 

    Voi siete solo delle merde! State qui protetti dai vostri fucili. Mandate a morire giovani illundendoli con delle false speranze. Ma che pensate che ad un certo punto, noi ce ne andremo via da Israele cosí? Lo pensate per davvero? 

    Sveglia! 

    Le guerre si vincono e si perdono! Voi avete perso! Sono passati settant’anni  cazzo! 

    Ed ancora state qui a fomentare odio. Avete mandato al macello generazione su generazione. Ma non avete capito che fino a quando non riconoscete lo Stato di Israele, non ci sarà mai pace. Anzi, più voi mostrate i muscoli, più voi perpetrate il vostro sogno illusorio di ucciderci tutti, più noi avanzeremo. Avanzeremo inesorabilmente. Avanzeremo cosí tanto che tra cento anni, di voi rimarrà una riserva isolata. 

    Vi ritroverete con quegli stracci indosso che portate e facendo la pita agli angoli della strada, per elemosinare qualche spicciolo dai turisti che verranno a vedere gli ultimi palestinesi viventi.

    Imparate a vivere in pace con noi. Smettete di attaccare la popolazione inerme nella nostra vita quotidiana. Smettetela di accoltellare i nostri bambini nel letto, e noi saremmo i primi a tendervi una mano. A ricostruire le vostre scuole. A provare ad avere fiducia. 

    Ma se questo non accadrà, noi saremmo costretti ad uccidervi. Si, uccidervi tutti. E solo Dio sa quanti di noi vorrebbero già farlo per davvero. Magari non sarà oggi, magari domani e la vostra falsa propaganda potete ficcarvela su per il culo. 

    La gente nel mondo, nel cosiddetto Occidente, alla fine capirà il vostro gioco. Capirà che dietro ogni foto, dietro ogni filmato. Ogni cosa che fate, ha il suo unico scopo di distorcere la realtà delle cose. 

    Dirvi che siete rimasti al medioevo è un complimento. Potete andare in giro con lo scolapasta in testa come i Pastafariani. Voi potete far vestire le vostre donne come volete, per quello che mi riguarda potete anche incularvi tra di voi come legge sacra dello Stato. Ma il rispetto per l’essere umano va mostrato sempre! Non potete continuare a fomentare odio su odio. Ma che cazzo pensate che possa accadere? Che si apra il cielo e scendano i marziani a salvarvi? 

    Non arriverà nessuno. 

    E voi morirete. Si morirete.

    Morirete come moriremo noi. Come moriranno tutti. Ma alla fine della vostra vita, chiunque ci sia dopo, cosa racconterete? Ne sarà valsa la pena sprecare una vita intera per odiare invece che per rischiare di amare?

    Questa notte sono stata svegliata dai messaggi che mi sono arrivati sul cellulare. Un palestinese di ventidue anni proveniente da Shuafat a Gerusalemme east, ha aperto il fuoco ad un checkpoint uccidendo una ragazza di diciotto anni. 18 anni! Capito quanto fate schifo? E come se non bastasse a Jenin hanno esploso dei fuochi d’artificio per festeggiare, regalando dolci agli angoli delle strade. Ma la cosa che mi fa più schifo, sono quelli che mettono l’emoticon delle risate sotto i post degli amici e dei familiari di Noa. Poi è stato ucciso Ido, un altro soldato di leva. Mi fate ribrezzo. Nessuna speranza per voi e redenzione. Noi abbiamo il diritto di ricordare quello che ci fate ogni minuto, e l’obbligo di non dimenticare. E pagherete tutto. Quel terrorista intanto è stato ucciso l’altro giorno mentre ci stava riprovando a fare un altro attentato, se non fosse stato per quel l'automobilista che ci ha avvisato. Poi è stato il turno di uno dei capi dei Lion’s Den ad essere elimiinato. Pagherete si, fino all’ultima goccia di sangue versato. Che possiate essere maledetti.

    Ma non vi vergognate di mandare a morire al confine i vostri giovani. La vostra migliore generazione? Ma perchè non ci andate voi a dar fuoco agli aquiloni? Perché non rischiate in prima persona? Bello eh? Stare lí in quel cazzo di buco di culo a mandare a morire i vostri figli.

    Mi fate pena!

    Mi avete rubato la mia giovinezza. Maledetti!

    Questo è quello che vorrei urlare in faccia a loro. Questo è quello che penso quando tutte le volte sono stata ai funerali dei miei colleghi. Quando vedo i pianti strazianti delle mamme alle quali avete ucciso la speranza. Le mogli e le ragazze come Betty. Per quei giovani ai quali avete impedito di crescere.

    Maledetti! 

    Scusate per questo sfogo. Ma il tarlo dell’odio è difficile da domare quando hai visto morire tanta gente. Adesso torno in me, faccio un bel respiro. 

    Ma come dire, adesso tutti quei vestitini sexy nell’armadio, e tutte quelle scarpe e borsette alla moda, non hanno più significato indosso a me. Cosí come le bionde giù in spiaggia.

    Adesso sono cambiata.

    Nei miei giorni, mesi, anni nel Mossad, ho fatto e visto cose che nessuna ragazza della mia età, dovrebbe ne vedere ne fare. Vorrei vedere veramente qui a Tel Aviv, arabi ed israeliani andare d’accordo. Lo dico per davvero.

    Sarebbe bellissimo.

    E la cosa che mi fa incazzare di più è che la gente come noi, le persone normali da una e dall’altra parte, vogliono solo vivere la loro vita. Tutti quanti, che siano ebrei, musulmani e cristiani, vogliamo avere un lavoro che ci piaccia, trovare qualcuno che vuole bene. Farsi una famiglia, dei figli. Il barbecue il sabato pomeriggio e le passeggiate con il gelato in mano sul lungomare. 

    Sono solo pochi quelli che fomentano la guerra. Ma come fanno a non capire quelli, che votando quelle bestie, gli danno in mano le chiavi del loro futuro? Io ho conosciuto durante il mio lavoro, molti palestinesi.  Certo, loro non sapevano chi ero. Parlavano in confidenza con me, come ad un’amica e le loro parole, spesse volte erano parole di amore, di speranza. 

    Speranza che tutto questo possa finalmente finire.

    E allora che aspettiamo! 

    Faccio un altro respiro, ho il cuore a mille. Ed ho divagato, come al solito. Dicevamo che il mio appuntamento con la letteratura avviene quando, dopo l’accademia di formazione del Mossad, ho vinto due giorni di licenza speciale da passare a casa a Tel Aviv. 

    Anche questo lo ricordo come se fosse adesso.

    Era venerdì. Di nuovo venerdí.

    Ma sinceramente questa cazzo di guerra, mi aveva levato la gioia di andarmene al Clara. La mia discoteca preferita che da sulla baia di Tel Aviv. La mia adolescenza era finita da un pezzo. 

    Quei cazzo di fottuti arabi, mi hanno levato la gioia di vivere.

    Mi ritrovavo camminando sempre a George Street, questa volta però era mattina. Il piccolo Principe era aperto.

    Mi sono messa dentro, al giardinetto. Al mio solito posto. Anche se ci ho provato intensamente, con tutta me stessa, non sono riuscita più a sentire dentro di me quelle emozioni che avevo provato proprio lì pochi mesi prima. 

    Il macbook pro era sempre lo stesso. Cosí come la mia insalata israeliana per pasto. Ma a differenza dell’altra volta, adesso avevo una storia da raccontare. La mia storia. Così ogni volta che posso, mi appunto aneddoti su missioni ed esperienze fatte sul campo. Nel giro di poco tempo, tutti quegli appunti, quelle riflessioni, si sono tradotte in questi romanzi.

    Alla fine non sono diventata una scrittrice di successo come sognavo con Shani durante i nostri doposcuola al Piccolo Principe. Ma ho di sicuro risparmiato sullo psicologo e il fatto di scrivere del mio lavoro mi ha aiutato. 

    Aiutato a tirare fuori il mostro che tengo dentro. 

    Quel vuoto d’amore che in fondo nessuno potrà mai colmare.

    Alcune cose che ho scritto sono drammaticamente vere, altre, una proiezione della mia mente. Altre pura invenzione. Non so se avrò ancora la forza di sedermi qui, in questo angolo buio della mia anima a scrivere. Magari per davvero finirò sulla grande parete all’ingresso della sede del quartier generale del Mossad. Diventerò solo una stelletta senza nome, tra stellette senza un nome.

    Vivrò, come mio fratello, solo nel ricordo di quelli che mi hanno voluto bene. Oppure camperò cento anni. 

    Magari dietro l’angolo, proprio adesso mentre sto per chiudere il computer, incontrerò la persona che mi conquisterà il cuore. 

    Magari sarà un arabo. 

    Magari musulmano. 

    Magari un domani, non ci domanderemo più della religione di appartenenza di uno o dell’altra. 

    Magari saremmo solo due ragazzi che si amano.

    Magari.

    Ariel Lilli Cohen

    Prefazione

    "Gli Ebrei sono sopravvissuti attraverso tutti i secoli, gli Ebrei hanno dovuto soffrire per tutti i secoli, ma ciò li ha anche resi più forti" (Anne Frank)

    Il freddo pungente del vento di Haifa nelle prime ore della mattina, quanto mi manca, quanto mi manca Haifa. Avere un QI di 164 è stata quasi una maledizione, la mia intelligenza mi ha privato della giovinezza. Avrei potuto fare tante cose, giocare a pallavolo, suonare il pianoforte, fare la modella… Invece mi ritrovo qui. In una delle più prestigiose squadre operative del Servizio di Sicurezza Nazionale. 

    Mettere nero su bianco, tirare fuori tutte le mie emozioni, non è stato facile. Ho vissuto tante vite in una sola. Per non diventare matta e cercare di ritrovare me stessa, ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare tutte le mie esperienze, tutte le mie paure, tutte le mie verità non dette. Stare sotto copertura per mesi, a volte per anni, senza tornare mai a casa, senza avere rapporti con la mia vita reale, mentendo ai miei amici, alla mia famiglia, spesso a me stessa, ha creato un rapporto conflittuale con le identità che di volta in volta uso. Questo modo di vivere ti cambia, cambia il modo di percepire la vita reale. 

    Un signore, mentre giocavo a biliardo in un club qui a Montreal, mi ha detto che gioco molto bene per essere così giovane. Ma l’età non si misura in anni, bensì in chilometri percorsi. Io ne ho fatti molti e sono stanca. Stanca di dover sempre rincorrere. Stanca di dover mentire. Stanca di avere paura. Quando sei in missione non sai mai quello che ti può accadere. 

    Due mesi fa Shani ed io abbiamo rischiato di farci scoprire. Ci hanno picchiato violentemente. Mentre avevo in gola un sapore misto tra il mio stesso sudore e quello acre del sangue, quando il cuore sembrava scoppiarmi nel petto, ho ripensato alle motivazioni che mi hanno fatto diventare un’agente operativa dei servizi segreti israeliani. Il terrore che ho provato mi accompagna ancora oggi, ogni volta che sento lo sguardo di un estraneo posarsi su di me. Perché faccio questo? Perché sacrifico la mia vita? Allora il mio ricordo è andato ad un agosto di qualche anno fa; ci avevano segnalato che una cellula terroristica di Hamas si era infiltrata in Israele e stava per colpire il Dizengoff Mall con un attacco batteriologico. Quella volta siamo riusciti a neutralizzarli appena in tempo. Qualche ora dopo sono tornata al centro commerciale per prendere un gelato con i miei compagni, Shani, Shlomit, Zoe e Aviv. Tutte quelle famiglie, tutti quei bambini sarebbero morti senza il nostro intervento. È per questo che lo faccio, per difendere la mia gente, il mio popolo e, anche se sembra un po’ ambizioso, per difendere la democrazia nel mondo. 

    Adesso, mentre permetto alla penna di scrivere i miei pensieri, sono seduta in un locale a Richardson Street a Montreal, devo incontrare una risorsa. Spero che vada tutto bene, spero di portare il culo in salvo anche questa sera. Ma quando finirà tutto questo? Quanto lavoro abbiamo fatto e quanto ne rimane!

    Penso a Milano sei mesi fa, a San Diego e a Buffalo, a Tel Aviv, tre mesi fa a Madrid, il mese scorso al negozio di dischi tra Pitt Street e la Circular Quay di Sydney. A tutti gli attentati che ho contribuito con la mia squadra a neutralizzare. A tutte quelle stelle senza un nome che sono all’ingresso della sede dell’agenzia a Tel Aviv. Stelle senza un volto, solo il ricordo indelebile di chi li ha conosciuti. 

    Tutti quegli agenti che hanno sacrificato la vita nell’adempimento del proprio dovere. Per salvare anche la vostra vita. Fate che il loro sacrificio non sia stato vano. 

    Vorrei un mondo dove il mio lavoro non sia necessario, un mondo dove non ci siano conflitti causati da estremismi religiosi. 

    Mentre scrivo, penso ai miei colleghi giù a Gerusalemme che ancora, giorno dopo giorno, difendono come ultimo baluardo la frontiera della democrazia. I leoni e le leonesse del Magav. Penso a Shira che combatte ogni giorno, ad Heli che dopo tre anni ha lasciato il servizio operativo alle porte di Damasco: grazie per il grande privilegio di proteggere il popolo di Israele nel luogo più sacro del mondo.

    Penso ad Hadar e Hadas che hanno sacrificato la loro vita a Gerusalemme, a Solomon che è morto ad Har Adar. Penso alla sua ragazza, Betty, ai suoi familiari. 

    Quante persone, madri, padri, fratelli, sorelle, fidanzate e fidanzati dovranno rimanere soli nel cammino della vita, privati dei loro cari dalle azioni dei terroristi? Io non mi sento di condannare del tutto le mani responsabili di questi attacchi. 

    La mia ira, la mia rabbia, il mio disprezzo sono rivolti a coloro che con le loro ideologie hanno armato quelle mani. I loro discorsi pieni di odio, di rancore, riempiono come l’acqua nel deserto la vita vuota di persone plagiate da una folle ideologia estremista. 

    Quelli sì che hanno le mani macchiate di sangue. Mentre se ne stanno al caldo delle loro case, in compagnia delle loro famiglie, mandano a morire giovani che hanno fatto crescere in un odio cieco che non conosce dialogo. 

    Sento che prima o poi finirò anch’io su quel muro, una stelletta tra le altre. Allora mi riunirò a tutti i miei compagni che si sono sacrificati, tanti ragazzi innamorati di una vita che non hanno fatto in tempo a vivere, e a volte desidero per davvero essere lì. 

    Fare questo lavoro logora la coscienza, vedi e devi fare cose che nessuno vorrebbe vedere e fare. Prima o poi anche io farò qualche imprudenza, farò una valutazione sbagliata, commetterò l’errore che mi costerà la vita. Una vita che adesso sento vuota.

    Naturalmente ho dovuto cambiare qualche nome e camuffare qualche circostanza che potrebbe, se scoperta, minare la sicurezza dello Stato di Israele. Le mie esperienze le ho tradotte nella forma di un romanzo. Un viaggio al confine della legalità. Spero che riusciate a cogliere il messaggio di speranza e di amore che si cela tra le mie parole. 

    Un cammino che comincia nel 2014, prima della guerra a Gaza. Il lavoro di un gruppo di amici che, in pochi mesi, sono diventati una delle migliori squadre operative del Mossad.

    Ariel Lilli 

    Prologo – Noora

    Gennaio 2014 – Ginevra, Hotel Kempinski

    Noora è seduta al bar dell’hotel. Sarà per il colore viola che sembra avvolgere tutto, dal bancone ai soffitti alle sedie, o forse per le luci del crepuscolo che rendono ancora più malinconico il grande lago che le si staglia davanti, ma di certo la sua mente si sta perdendo nei ricordi, di ciò che era e che oggi non è più.

    Sente qualcosa premere dentro lo stomaco mentre pensa agli anni meravigliosi passati a Eton a contatto con persone provenienti da tutte le parti del mondo, i figli delle famiglie più ricche ma non per questo migliori, come ha presto imparato… però sono stati anni bellissimi. Prova nostalgia persino per i professori, la maggioranza dei quali era convinta, all’epoca, di odiare. E poi il master alla NYU in scienze sociali… quanto le manca New York… soprattutto le giornate di vento freddo quando l’aria si incanala nelle Avenues e diventa difficile persino tenersi i vestiti addosso. Già, il freddo, quello stesso freddo che rende lì a Ginevra l’aria così tersa e il lago come uno specchio che riflette le mille luci del Quai de Mont Blanc. Quasi tutti quelli che come lei sono nati in Medio Oriente lo odiano quel freddo, quasi sia qualcosa di sbagliato, innaturale. A Noora invece piace, le fa venire voglia di essere coccolata da qualcuno, qualcuno capace di scaldarla.

    Quanti erano? Quindici? Sì, quasi quindici mesi che non usciva dal Qatar. 

    Quel viaggio a Ginevra è la prima evasione dopo tanto tempo da un posto che non riesce più a riconoscere come casa sua. Del resto è quello che si doveva aspettare accettando di diventare la terza moglie dell’emiro del Qatar. All’inizio si era sentita lusingata e poi aveva pensato a quante cose avrebbe potuto fare con organizzazioni come l’Unicef per mettere in pratica quello che aveva studiato, e tutti quei bambini orfani e disagiati ne avevano davvero tantissimo bisogno… poi la realtà quotidiana si era rivelata molto diversa. Un sacco di eventi mondani, feste, cene di rappresentanza, ma di concreto pochissimo. È vero, è riuscita a diventare un’ambasciatrice Unicef ma sa bene che sono le immense ricchezze della famiglia reale che lo hanno permesso e non le sue competenze. Le altre due mogli sono molto più a loro agio in quella situazione, ma loro sono cugine dell’emiro, appartengono alla stessa famiglia. Lei no, lei è nata negli Emirati Arabi, è la figlia di un ambasciatore e ora è Sheika… ma allora perché ha tanta voglia di scappare?

    La nostalgia di Noora viene interrotta dall’arrivo di un uomo elegante al bancone del bar, anche lui non ha un’aria felice ma sembra più deluso che malinconico. È molto attraente, atletico e ha qualcosa di strano nello sguardo, ma Noora sa che non può indugiare nel fissarlo e distoglie gli occhi, le sue guardie del corpo la stanno certamente osservando e chissà cosa potrebbero mai raccontare all’emiro. Con un’ultima occhiata nota un particolare che stona un po’ con il resto dell’aspetto. Al posto del fazzoletto dal taschino della giacca pende un badge con un nome e un simbolo che non riesce a riconoscere.

    Un whisky per favore dice l’uomo mentre si siede a quattro posti di distanza da Noora, che ora non è più l’unica cliente per il barman, che smette di allineare i calici e si avvicina al nuovo arrivato.

    Ha qualche preferenza?

    Glenlivet se ce l’hai.

    Il barman versa all’uomo quello che gli ha chiesto. 

    Ecco a lei… Jamal aggiunge indicando il badge al taschino.

    Già… ma secondo te è possibile che uno con due donne fa due chip e poi in quinta mano il banco gli dà la terza donna?

    Noora ascolta un po’ spaesata e fa fatica a comprendere di cosa stiano parlando, ma il chiaro accento mediorientale di Jamal acuisce la sua curiosità.

    Dovresti saperlo dice il barman, il poker è abilità ma almeno per il sessanta percento è fortuna…

    A me lo dici? risponde immediatamente Jamal. Io lo faccio per vivere!

    Ma me lo sono sempre chiesto, ci riesci davvero a vivere con i tornei di poker?

    Ecco di cosa stanno parlando: poker! E per qualche motivo Nora ha la sensazione di uno scampato pericolo.

    Certo! Beh, devi essere bravo, ma si possono anche fare bei soldi. Il vero problema è che devi viaggiare continuamente.

    Da dove vieni, Jamal? 

    Noora è quasi certa che l’esitazione che Jamal ha prima di rispondere alla domanda del barista sia dovuta al fatto che la stava guardando e forse valutando.

    Da Beirut, Libano risponde Jamal, ma è come distratto. Un’altra conferma, pensa Noora, poi lui riprende. Però pensa, domani partirò per Honk Kong e, se tutto va bene, poi mi attendono Tokyo, Honolulu e Vancouver. 

    Noora accavalla le gambe e fa uscire il tallone dalla sua Jimmy Choo sinistra, lasciandola dondolare appoggiata alle dita del piede; con la coda dell’occhio vede che il suo gesto ha attirato l’attenzione di Jamal, sente il suo sguardo percorrere il suo corpo e il suo cuore battere più forte.

    Accidenti la voce del barman tradisce un po’ di invidia, e prima di venire a Ginevra dov’eri?

    A New York… ci sono stato per due settimane, era un torneo importante, da due milioni di dollari.

    E l’hai vinto?

    Noora, senza deciderlo, per la prima volta punta lo sguardo su Jamal, e mentre lo fa passa la punta della lingua sul labbro superiore, quasi che il rossetto abbia anche il sapore delle ciliegie mature oltre al loro colore. Poi si alza, raccoglie la sua pochette e si allontana. Una figura nell’ombra accenna a muoversi ma viene trattenuta da un’altra, mentre Noora entra nella toilette della hall dell’albergo.

    Uh… no, sono arrivato in finale e ho vinto solo duecentomila dollari… risponde Jamal, ma è come se stesse parlando un fantasma.

    ****

    Noora nel bagno è seduta sul water e sta tremando. Ha caldissimo, come se qualcuno le stesse soffiando addosso dell’aria bollente. Perché aveva fatto quella cosa? Cosa le era passato per la testa? E se le guardie se ne fossero accorte? E ora cosa poteva fare? Doveva calmarsi. E se Jamal avesse colto l’invito e l’avesse seguita? No, non può essere, continuava a ripetersi mentre i battiti del cuore non accennavano a rallentare. Quando finalmente le sembra di riuscire a respirare con una certa regolarità, si alza e apre la porta, pronta a rimettersi in sesto allo specchio. Jamal è lì che l’aspetta, sta ricominciando a tremare ma una parte di sé che ancora non sa di avere prende il sopravvento.

    E com’era New York? sente domandare da una voce roca che non riconosce come sua.

    C’era tanto vento le risponde Jamal mentre l’afferra e l’attira a sé. Noora avverte con piacere le sue mani sulla schiena mentre gli offre la bocca, un piacere che si rende conto di non provare da troppo tempo.

    È un bacio lungo, profondo. Intanto le mani di Jamal sollevano il leggero vestito di seta e cominciano a toccarla e lei vuole che lo facciano. Poi lui la stacca da sé, la fissa negli occhi e Noora capisce quale sia la stranezza che l’ha colpita: i suoi occhi sono diversi, uno è verde intenso scuro, l’altro è azzurro striato; gli occhi di un felino. Lui la gira e Noora sa cosa succederà, lo sente chinarsi e sfilarle gli slip e poi rialzarsi e sollevarle il vestito. Noora poggia le braccia sul lavandino, allarga un po’ le gambe e lo accoglie con un gemito. Tutto esplode nella testa di Noora e non appena si riprende Jamal si ferma, si china e le sussurra all’orecchio. 

    Posso…

    Lei non lo lascia terminare e gli dice con voce roca e piena di desiderio: Fai tutto quello che vuoi…

    ****

    L’emiro rientra in albergo pochi minuti prima della mezzanotte. Ha la faccia stanca e scura. Non appena entra nella sua suite incontra lo sguardo di Faysal, il suo consigliere personale, un amico, forse l’unica persona di cui si fidi completamente.

    Caro Faysal, è tutto inutile. Mi chiedo davvero cosa siamo venuti a fare qui. Tanto quel testardo di Assad non accetterà mai le richieste degli americani, quei cani. Io non lo farei. Poi si ferma perché si accorge che lo sguardo di Faysal è accigliato, e lo è sempre e solo quando è successo qualcosa di grave; questa volta anche di più, perché al posto del grosso sigaro che occupa sempre le mani dell’amico, questa sera c’è un tablet.

    Faysal… cosa succede? 

    Altezza, devo mostrarle una cosa ma la prego, prima si sieda.

    L’emiro si siede e Faysal gli porge l’iPad su cui stanno scorrendo le immagini del tradimento di Noora. L’ira del sovrano esplode.

    Brutta puttana! Maledetta! Neanche tre mesi fa l’ho sposata quella cagna, e guarda che fa la prima volta che usciamo dal Qatar! Si fa scopare come una puttana nel cesso dell’hotel! L’ammazzo con le mie mani… 

    Fa per alzarsi ma la ferma mano di Faysal lo trattiene.

    C’è una cosa ancora più grave, Altezza… 

    L’emiro alza su Faysal uno sguardo a metà tra l’incredulità e lo sgomento.

    La persona, il cane che le ha fatto questo oltraggio è un agente israeliano. Tutti nella stanza si aspettano un’ulteriore sfuriata, invece l’anziano emiro rimane in silenzio e quando parla la sua voce è fredda come il ghiaccio.

    È il momento. È giunto infine. Con l’aiuto di Allah non rimarrà neanche una pietra del maledetto stato di Israele. È arrivato il momento di chiudere i conti con la storia. Faysal, amico mio, chiamami quelli di Hamas e chiamami Khalid, voglio che mi raggiunga immediatamente. E ora andatevene tutti! 

    Le guardie presenti in silenzio lasciano la stanza. Feysal, quando tutti sono usciti, prima di congedarsi anche lui sussurra:

    Altezza… e Noora?

    Ci penserò io personalmente risponde con un lampo negli occhi l’emiro.

    Le ricordo di chi è figlia, Altezza…

    Non la ucciderò, non adesso almeno, se è questo che vuoi sapere… ma ora va a chiamare Khalid.

    Capitolo 1 – Yael

    Troppa luce

    C’è troppa luce queste due parole rimbalzano continuamente nella mente di Yael mentre aspetta insieme al resto della sua famiglia che il rabbino Stern cominci la sua orazione cerimoniale. Eccezionalmente la ricorrenza non veniva celebrata davanti al cimitero del monte Herzel, posto deputato per le esequie militari, ma sulla spianata in cima allo Yad Vashem, dall’altra parte della collina della memoria. Il grande spazio è stato ornato con solennità. Il palco su cui il rabbino deve salire di lì a poco si trova davanti al grande edificio in mattoni e vetro dove, ogni anno, Yael è venuta a rendere omaggio ai morti per lo stato di Israele insieme ai suoi compagni di scuola. Le sedie sono state disposte in due grandi settori, con un corridoio in mezzo; su quelle di destra è presente lo stato maggiore dell’esercito quasi al completo, dietro di loro due file di uomini in borghese, ma Yael ha ben presente che sono militari anche loro: gli ex colleghi di suo padre che presto diventeranno anche i suoi, ma lei ancora non lo sa. 

    La parte sinistra invece è riservata ai parenti, agli amici e a tutti quelli che hanno voluto partecipare a quel momento. Come avverte il calore che cresce dal suo giovane corpo di diciottenne sotto i vestiti un po’ troppo pesanti per una giornata così calda, ma doverosi in un’occasione come quella, Yael avverte fisicamente il sentimento di fratellanza che la lega a tutte quelle persone, e come il sole aumenta quella sensazione di calore di minuto in minuto, la costante minaccia che incombe sul suo Paese ha fatto crescere quel sentimento in lei e, Yael lo sa, anche in tutti quelli che la circondano.

    Oltre le sedie, un lungo bancone con piatti e bicchieri pronti per il rinfresco – opera di sua madre - che sarebbe seguito e, al di là del muretto che delimita la terrazza, i tetti di Gerusalemme. 

    A Yael bruciano gli occhi.

    Finalmente il rabbino sale sul palco e comincia il suo discorso.

    Siamo qui oggi tutti insieme perché proprio oggi sono dieci anni che Eran non c’è più. Lui, uno dei figli degli scampati alla Shoah, uno della prima generazione dello Stato che il Signore dopo tante tribolazioni ha voluto restituirci…

    È di suo padre che il rabbino sta parlando. Yael sa a memoria i passaggi che avrebbe compiuto il discorso. L’infanzia felice, la formazione nel kibbutz Zikim a pochi metri da dove oggi c’è la Striscia di Gaza, i primi successi sportivi e poi la carriera militare. 

    Il più giovane ufficiale dei servizi speciali della sua generazione e via via fino alla sua morte, avvenuta durante la guerra del Libano quando, dopo che i terroristi attaccarono Zar’it Shlom, si sacrificò per salvare il suo plotone durante l’operazione Sharp and Smooth.

    A Yael i nomi di quelle battaglie si sono fissati nella memoria un giorno di dieci anni prima, quando li sentì pronunciare da un giovane ufficiale che venne a bussare alla porta della loro casa in stile Bauhaus di Tel Aviv nel quartiere Rotschild. 

    Quel giorno che non può più dimenticare Yael aveva appena otto anni e stava giocando nel piccolo giardino davanti alla loro porta con Zohar, la sua amica di sempre; fingevano di essere grandi impiastricciandosi le guance con i trucchi di mamma. All’improvviso quell’uomo, sceso da una limousine, le si era avvicinato, si era chinato su di lei e l’aveva invitata a seguirlo entrando in casa, e poi aveva parlato a sua madre Hodaya. 

    Nel ricordo Yael la vede ancora una volta accasciarsi sulla poltrona, con la sua pancia abitata da sette mesi dalla sua sorellina Ariel, che suo papà non avrebbe visto mai. Yael ripensa ancora una volta a suo fratello Avner che stava per compiere 13 anni: si chiuse nella sua camera per uscirne solo tre giorni dopo. E quel senso di vuoto dentro di lei che non era riuscita più a riempire nel corso di quei dieci anni. Il vuoto per una presenza rara e preziosa nella sua vita di bambina, per i momenti di tenerezza quando si attaccava al suo collo le poche volte che suo padre si era concesso una pausa e aveva passato una serata seduto sul divano a guardare la televisione; per le tante domande a cui non avrebbe più risposto, per un uomo che aveva cominciato ma non avrebbe più potuto continuare a conoscere. 

    Forse a causa di quel vuoto immenso sorto in lei, bambina che aveva dovuto crescere improvvisamente, aveva deciso di intraprendere la carriera militare ricalcando le sue orme: le sembrava l’unico modo di conoscerlo ora che non c’era più, di poter stare ancora con lui. Aveva passato molte ore a sfinire sua madre e suo fratello per farsi raccontare aneddoti e ricordi sulla vita di Eran, e ora che alcuni dei suoi insegnanti erano stati colleghi di suo padre non perdeva occasione per farsi raccontare episodi della sua vita. 

    Adesso sono tutti lì, a dieci anni di distanza. 

    Sua madre Hodaya, che si era buttata nel lavoro dopo la morte di Eran riuscendo a sviluppare la sua azienda di catering fino a diventare una delle più richieste di Tel Aviv.

    Suo fratello Avner, a cui mancano poche settimane per terminare il servizio di leva; bello, attraente con i suoi lineamenti quasi perfetti e il suo carattere ombroso e introverso che non fa che aumentarne il fascino. Corteggiatissimo dalle ragazze di mezza Tel Aviv, lui però è fedelissimo a Zohar, che in questo momento è al suo fianco e gli sta tenendo la mano. 

    La sua amica Zohar, ora fidanzata di suo fratello. L’inizio del loro amore è forse cominciato in quei famosi tre giorni di autoreclusione di Avner dieci anni prima, quando aveva consentito solo a Zohar di entrare nella stanza e parlare con lui. 

    Infine Ariel: ha solo due anni in più di quanti ne aveva Yael quando Eran è scomparso. Non l’ha mai visto, le sue calde e grandi mani non l’hanno mai accarezzata. 

    Chissà a cosa penserà sentendo le parole del rabbino si chiede Yael, ma la sua mente, distratta da tutti questi pensieri, viene improvvisamente richiamata da un cambio di tono nell’orazione di Stern:

    "… tutte queste cose le sappiamo tutti, fanno parte della storia non solo della famiglia Cohen ma dell’intero Paese. Permettetemi invece un ricordo personale. Era il 1972, avevamo solo quindici anni, ma Eran era già un piccolo… anzi un grande campione di lotta. Il suo allenatore gli aveva fatto intendere che se si fosse allenato con costanza e impegno avrebbe cercato di portarlo alle Olimpiadi. Ho condiviso con lui qualche ora di quei mesi di palestra. Faceva impressione la sua determinazione, e quando mi è capitato di essere sul tappeto con lui… beh, potete immaginare cosa sia successo… era come affrontare non uno ma tre avversari contemporaneamente. Poi un giorno, erano gli inizi di giugno, arrivai in palestra e lo trovai seduto sulla panca degli spogliatoi, l’asciugamano al collo, con le lacrime agli occhi. Mi avvicinai, gli misi una mano sulla spalla e gli chiesi cosa fosse successo. Eran mi guardò con quei suoi occhi scuri, profondi, che certamente molti di voi ricorderanno.

    ‘Sai quel russo, quello che si è trasferito dall’URSS il mese scorso, Mark, Mark Slavin credo si chiami’ mi disse.

    ‘Sì certo, quello che ha vinto il campionato sovietico di lotta greco romana l’anno scorso’ risposi.

    ‘Quello. Andrà lui al posto mio alle Olimpiadi a Monaco’.

    Vi ripeto, avevamo solo quindici anni e potete immaginare quale delusione debba aver provato per quella decisione. Eppure, nei giorni successivi, continuò ad allenarsi e, se possibile, con ancor più caparbietà, quasi con ferocia, come se lottasse non solo per battere gli avversari ma per superare se stesso.

    Poi lo ricordo, solo pochi mesi dopo, alla commemorazione per il massacro avvenuto a Monaco. Eravamo seduti vicini, insieme agli altri compagni della palestra. E lui fissava la bara di Mark Slavin con una luce nuova nel volto, quella di chi sa di essere stato risparmiato da una grande tragedia perché gli è stato affidato un compito: che cose come quella non debbano più accadere. E mi piace pensare che quel giorno, o in quei giorni, abbia maturato la decisione che l’avrebbe portato a donare la vita per tutti noi. E ora preghiamo il Signore Dio nostro…"

    Yael è felice e al tempo stesso scossa dal racconto del rabbino. Ha aggiunto un importante tassello alla sua personalissima collezione di aneddoti sulla vita di suo padre, ancora più bello perché giunto inaspettato, e si è appuntata mentalmente di andare a trovare il rabbino Stern per ottenere qualche altra informazione in più sull’adolescenza di Eran. 

    Ma ciò che l’ha fatta rabbrividire mentre il rabbino parlava è che lei quella determinazione e quella ferocia le conosce, sono le sue. Quando si costringe ad allenare il suo corpo anche oltre le ore di lezione a cui è sottoposta abitualmente, quando rimane in biblioteca fino a tardi per studiare fin nei minimi particolari la storia di Israele, quando spara al poligono. E comprende che forse suo padre le ha lasciato molto di più di quanto immaginasse.

    La cerimonia è finita, si sono strette mani, ricevuti abbracci, con dolore rievocati avvenimenti e ricordi comuni. Tutti hanno mangiato e bevuto e non si sa se Hodaya abbia ricevuto più condoglianze o complimenti per come aveva organizzato il rinfresco finale. Yael la sta aiutando insieme alle ragazze dell’agenzia a rigovernare.

    Mamma, mi racconti di nuovo come vi siete conosciuti tu e papà? 

    Hodaya fissa il volto di sua figlia con tenerezza, i suoi lineamenti un po’ androgini ma tuttavia molto belli: le sopracciglia sottili, gli zigomi alti, il naso filante e la bocca carnosa, e i suoi capelli scuri e crespi che le scendono sulle spalle snelle e muscolose, danno un’idea di luminosità soffice a cui Hodaya non riesce a resistere; così passa una mano anche questa volta tra quei capelli per sentirli scorrere tra le sue dita prima di rispondere.

    È stato, lo sai, a quel ricevimento dopo la Guerra del Golfo, ma il racconto del rabbino di oggi mi ha ricordato che in realtà la prima volta che ho visto tuo padre è stata proprio a quella commemorazione, io ero solo una bambina, avrò avuto sì e no dieci anni. Aveva ragione il rabbino, Eran aveva una faccia, uno sguardo così intenso che ho sentito come un crampo alla base dello stomaco quando per un attimo i suoi occhi si sono incrociati con i miei, lui probabilmente neanche mi stava guardando, ma quello sguardo mi ha trafitto al punto che ancora oggi provo la stessa sensazione se ci ripenso.

    Yael vorrebbe che il racconto di sua madre potesse continuare, ma Zohar si sta avvicinando e con un cenno attira la loro attenzione.

    Io rientro a Tel Aviv con Avner, portiamo Ariel con noi, come vanno i preparativi per martedì prossimo?

    Bene, ho parlato con Hezi il padrone di Tzfoni sulla Tayalet, ha detto che ci riserva una sala con vista sul mare dice Hodaya con un sorriso.

    Ottimo. Ma voi due cercate di buttare lì ad Avner che avete un qualche impegno, uno per ciascuna, così crederà di uscire solo con me, per una cenetta romantica…

    Sì, ma non esageriamo, altrimenti mangia la foglia.

    Forse hai ragione, Yael, manteniamo un profilo basso.

    Martedì prossimo è il compleanno di Avner, ne farà ventitré. Forse proprio la vicinanza con la data della morte di Eran ha trasformato quel giorno in una festa molto importante per tutta la famiglia. Ogni anno madre, sorelle e fidanzata organizzano con sotterfugi e mistificazioni un party a sorpresa da qualche parte in città. 

    Che Avner lo sappia benissimo è più di un sospetto nella mente di Yael, ma lui sembra stare al gioco e ogni anno mostra di stupirsi di fronte alla sorpresa organizzata.

    Yael intente nell’organizzazione dei loro piani le tre donne non si sono accorte che un uomo alto, vestito di scuro si è avvicinato. Posso parlarti un momento?

    Certo, zio Tamir.

    Yael fissa il volto di Tamir Amossi, ex direttore dei servizi segreti israeliani e pupillo di suo padre, che dal giorno della sua morte è diventato una presenza costante nella vita dei Cohen, al punto che lei e i suoi fratelli lo chiamano zio. Insieme si discostano un attimo da Hodaya e Zohar, che continuano a confabulare.

    Yael… come stai?

    Bene, zio.

    Come sta andando il tuo primo anno di servizio militare?

    Sono circa a metà… lo sai, mi trovo bene, sono felice di…

    Tutti parlano molto bene di te… c’è chi dice che ogni tanto sul campo di allenamento sembra di rivedere tuo padre…

    Yael china la testa arrossendo.

    Ascolta continua Tamir, domani prima di andare in caserma devi passare alla sede del Mossad, ti vogliono parlare. 

    Yael si rende conto che la sua voce trema un po’ mentre domanda: Vogliono chiedermi di proseguire la leva nei servizi? 

    Tamir sorride e le dà un buffetto sulla guancia. Non sta a me dirtelo, non più. 

    E la lascia lì, con le mille emozioni che la sua malcelata conferma le ha scatenato nell’animo.

    Capitolo 2 – Muhammad

    La camera è bianca. Anche i letti. Ce ne sono otto allineati su due lati della stanza, accanto a ognuno di essi una macchina per la pulizia del sangue i cui schermi LCD con i valori e indici luminosi sono l’unica variazione cromatica nell’uniformità perlacea dell’ambiente. Alle otto macchine sono collegati altrettanti uomini. Muhammad è il secondo da sinistra della sua fila. È appena trascorsa la prima delle quattro ore di dialisi a cui si deve sottoporre per tre giorni alla settimana. Un’infermiera gli si avvicina con uno sfigmomanometro.

    Muhammad, dammi il braccio che ti provo la pressione.

    La voce della donna è fredda, quasi distaccata.

    Certo pensa Muhammad, sono obbligati a curarmi qui, nel migliore ospedale di Tel Aviv al Rabin Medical Center. Io, un palestinese… se non fosse stato per quella giornalista italo-francese… e invece mi ritrovo ricoverato a giorni alterni a Tel Aviv.

    E la sua mente torna al giorno dell’attentato fallito. Quando lui e i suoi compagni sono stati intercettati da una squadra dello Shabak… o come viene chiamato in Occidente, la temuta agenzia di sicurezza interna Shin Bet, che li ha identificati poco prima che entrassero in azione. Loro dovevano passare il check-point di Qalandiya a nord del West Bank e ritrovarsi davanti al Mercury Hotel a Ben Yeuhda, dove si trovavano i capi delegazione dell’ONU con i loro politici simbolo del maledetto Occidente. Gli altri cinque componenti del commando erano morti quasi subito sotto i colpi delle forze speciali israeliane in prossimità dell’ingresso Est di Gerusalemme, al di là del muro di protezione. 

    Lui no, era rimasto ferito gravemente alla schiena e al basso ventre e stava rantolando sdraiato supino tra il marciapiede e un’auto parcheggiata e crivellata di colpi. L’aria era resa irrespirabile dai fumogeni lanciati dai soldati israeliani, misti all’odore acre dei copertoni bruciati al centro della strada ad opera degli Shebab, sentiva il rumore caratteristico degli spari dei rubber bullet dai quali più di una volta era stato ferito… quando un agente gli si era avvicinato con la pistola in pugno e Muhammad sapeva che era lì per dargli il colpo di grazia.

    Niente prigionieri, questa è la regola. One Shot One Kill.

    Ma poi aveva sentito quella voce: Che fai, lo vuoi giustiziare?. Poi aveva perso conoscenza.

    Si era risvegliato in ospedale attaccato per la prima volta a quella maledetta macchina, che gli puliva il sangue ma gli toglieva le forze. Lo faceva sentire debole, in balia delle persone che odiava di più. Insieme alle persone che più detestava.

    Nei giorni successivi era riuscito a ricostruire cosa fosse davvero successo. La voce che aveva sentito prima di svenire apparteneva a una giornalista italo-francese che stava riprendendo con il suo operatore gli scontri che di frequente accadevano a Qalandiya; non era riuscito a sapere esattamente il suo nome, Gore… e qualcos’altro. Il suo intervento aveva fermato il giovane agente israeliano, ma non si era fermata a questo, aveva minacciato di denunciare i metodi sbrigativi della polizia israeliana e quindi qualcuno aveva fatto velocemente caricare il corpo di Muhammad su una delle ambulanze che erano convenute sul luogo, forse sperando che morisse durante il tragitto.

    Invece non era morto e una volta in ospedale i dottori non ci misero molto a capire che i suoi reni colpiti dalle pallottole non avrebbero più funzionato.

    Era stato inserito nel programma di emodialisi e alla cosa era stata data enorme pubblicità.

    Qui si salvano vite, non si fa politica aveva detto il medico rispondendo alle critiche dell’ala più conservatrice del Paese.

    Questo è quello che fa più rabbia a Muhammad: essere usato come propaganda per il maledetto stato di Israele. Di storie come la sua ai check-point di tutta Israele ce ne sono una infinità, come i mazzi di fiori posti ai lati delle strade in onore dei martiri uccisi da Israele... Il pensiero è andato subito a Ahmed, fratello di due anni più piccolo, e Youssra, sorella di un anno più grande, entrambi vittime della furia cieca dei soldati israeliani, il primo colpito da un rubber bullet al petto e la seconda investita da un’auto militare che sfuggiva alla fitta sassaiola alla quale era sottoposta, mentre lui sapeva che se non fosse stato per la giornalista…

    Come gli fa rabbia la condiscendenza con cui lo trattano i medici in ospedale. Gli sorridono sempre, sono gentili, gli spiegano tutte le terapie alle quali lo stanno sottoponendo. Una dottoressa in particolare, bionda, un bel viso anche se porta gli occhiali, lo chiama per nome come per fargli intendere che potrebbe essere sua amica. Ma Muhammad sa che lo fanno solo perché temono che qualche giornalista lo intervisti e lui possa dichiarare di essere stato trattato male e senza dignità. La dignità Israele l’ha già presa a tutti nel ’47… e ancora non l’ha restituita.

    Sono furbi quei dottori. Gli infermieri no. Cercano di non rivolgergli la parola se non quando è proprio necessario e anche quando lo fanno la loro voce è fredda, distaccata, anche quella che lui sembra riconoscere come una sorella musulmana, che abbassa lo sguardo ogni volta che i loro occhi si incrociano.

    Sono tante le piccole cose che fanno capire a Muhammad la sua diversità. Nella grande sala c’è un televisore posizionato nell’angolo opposto a quello da cui partono le pareti con i letti. Il telecomando con cui gestirlo a lui non l’hanno mai dato. Neppure quella volta che era arrivato prima degli altri pazienti e per quasi un quarto d’ora era rimasto da solo nella sala. Il telecomando l’aveva tenuto l’infermiera e aveva cambiato i canali senza chiedergli che cosa gli sarebbe piaciuto guardare.

    In questo momento il telecomando ce l’ha un omuncolo, grassoccio e calvo, di cui Muhammad scorge solo il cranio che sembra riflettere la fredda luce dei neon e la prominenza del ventre. Dev’essere un mercante di qualcosa o qualcuno che si occupa di finanza visto che sembra interessato unicamente ai notiziari economici e ai bollettini della borsa. Chissà di quali enormi investimenti si occuperà l’omuncolo mentre lui, come gran parte dei suoi fratelli musulmani che vivono in quelle città usurpate, è costretto a vivere di poco o niente. 

    Con il suo lavoro al mercato alle spalle del campo rifugiati dell’ UNRWA di Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah, riesce appena a sopravvivere e ora, con questa faccenda della dialisi, non può neppure svolgere compiti pesanti, che spesso sono anche quelli più remunerativi. Se ne sta seduto tutto il giorno nel suo chiosco e non sa se lo disgustano di più gli sguardi dei pochi turisti, pullman di fedeli coraggiosi alla ricerca delle loro radici cristiane, che rischiano avventurandosi in quella parte malfamata del West Bank o quello degli altri che lavorano lì e che lo guardano ormai come un mezzo uomo.

    L’omuncolo cambia canale e sintonizza il televisore su i24news, la nuova rete all news che tiene aggiornati i cittadini sulla situazione caldissima di quei giorni dopo che i corpi di tre ragazzi israeliani sono stati ritrovati massacrati in un bosco fuori Gerusalemme. Dallo schermo si vede la faccia del Primo Ministro che sta facendo una dichiarazione ufficiale.

    Diamo ad Hamas un’ultima possibilità: fermi il lancio di razzi, altrimenti entreremo a Gaza, la conquisteremo centimetro dopo centimetro, metro dopo metro… e la annetteremo allo Stato di Israele per sempre… ma se fermate il lancio di razzi verso inermi cittadini, noi ci fermeremo.

    Ma all’improvviso nella stanza d’ospedale il tempo sembra fermarsi, una delle macchine per la

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