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L'Inganno del Mago
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E-book295 pagine4 ore

L'Inganno del Mago

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Info su questo ebook

Ogni avventuriero cerca cosa diverse:
Chi l’emozione che solo l’andare incontro all’ignoto sa dare.
Chi la ricchezza.
Chi la fama.
Chi la conoscenza.
Sono queste cose che spingono un gruppo di avventurieri annoiati ad accettare un incarico all’apparenza semplice: una ricerca con uno scopo chiaro e ben preciso.
Una missione dalla quale si aspettavano tante cose ma non di ritrovarsi a loro insaputa nel bel mezzo di intrighi e lotte di potere. Gettati in uno scenario in cui enigmatici e ambigui attori tessono le loro trame incuranti di chi possa finirci impigliato.
Regni in rovine, guerre, assassini, maghi, spie, mercenari, elfi e pirati sono solo alcuni degli ostacoli che i nostri avventurieri si troveranno a dover affrontare per poter andare avanti procedendo con perseveranza lungo il cammino dell’avventura che hanno scelto.


Consigliata ma non indispensabile la previa lettura de Il Regno delle Mille Torri
 
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2020
ISBN9788835858416
L'Inganno del Mago

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    Anteprima del libro

    L'Inganno del Mago - Daniele Lippi

    PROLOGO 1

    IL TEMPO AGLI INIZI

    In un’epoca più remota di qualsiasi altra si possa immaginare, quando ancora gli Dei camminavano per il mondo modellandolo al loro volere dandogli forma e sostanza, quando ancora i loro capricci si trasformavano in realtà che avrebbero popolato il mondo, in questo periodo in cui tutto ancora poteva essere fatto, pensato, immaginato e creato senza alcun sconvolgimento, gli Dei, loro malgrado, scoprirono il vero odio. Odio portato in seno al mondo proprio da un loro fratello. Il Suo nome era Eirisaïr.

    Eirisaïr a differenza dei suoi fratelli che si erano col tempo, seguendo le loro più intime inclinazioni, ritagliati dei ruoli sempre più specifici era rimasto per intere ere ad osservare, guardare, studiare ed imparare non solo dai suoi fratelli ma anche dal mondo che avevano creato.

    Gli altri Dei suoi fratelli lo avevano ormai soprannominato l’Esaminatore, il Decifratore, pensando che quello fosse il ruolo che Eirisaïr si fosse scelto. Lui li ascoltava, li lasciava parlare e venire alle proprie conclusioni senza mai negare né confermare ciò che gli veniva detto e, nel mentre, osservava. Studiava.

    Una notte infine, osservando in cielo le due lune sorpassarsi vicendevolmente tra le stelle, prese la sua decisione. Era giunto il momento. Avrebbe creato. Avrebbe dato sostanza e vita a ciò a cui era in conclusione giunto e, come i suoi fratelli prima di lui, creò.

    Creò degli esseri viventi. Creò una razza. Gli diede vita e questa razza sembrava a tal punto superiore alle altre che osservandola Eirisaïr si convinse che le altre, tutte le altre, avrebbero dovuto ad essa inchinarsi e sottomettersi.

    Una naturale conseguenza di questo atto di sottomissione delle altre creature create dai suoi fratelli era, per Eirisaïr, che gli altri Dei a lui dovevano prostrarsi.

    La cosa gli sembrava logica poiché dimostrandosi superiore a Loro nella creazione questo lo aveva reso, hai propri occhi, di fatto, superiore a Loro in tutto.

    Gli altri Dei però non erano d’accordo su alcuno dei due punti. Benché riconoscessero che gli esseri da lui creati erano portentosi non erano pronti né a lasciare che le altre creature da loro create venissero ad essi sottomesse né tanto meno sottomettersi loro stessi ad Eirisaïr che consideravano in tutto e per tutto un loro pari.

    Eirisaïr però non desisté dal suo intento deridendo gli altri Dei, accusandoli di essere deboli e promettendo loro che presto il suo volere si sarebbe avverato.

    Gli altri Dei, benché preoccupati, non fecero niente fino a quando Eirisaïr stesso alla testa dei suoi seguaci non minacciò di abbattersi sul mondo come un fuoco purificatore per far sì che l’ordine da lui immaginato e pensato si realizzasse.

    Nel sentire e vedere questa minaccia gli altri Dei si riunirono senza convocare Eirisaïr. Per la prima volta estromisero uno di Loro poiché proprio l’estromesso era il soggetto della loro riunione.

    Gli Dei discussero animatamente e a lungo sul da farsi. Era una situazione nuova e mai nessuno di loro avrebbe potuto immaginare di poter proporre le soluzioni che vennero votate. Tra tutte queste, l’unica che venne infine accettata all’unanimità fu l’isolamento forzato di Eirisaïr. Un isolamento che però non poteva essere un semplice bando da questo mondo o la segregazione in un diverso piano di esistenza o dimensione parallela poiché, se lo avessero fatto, prima o poi Eirisaïr avrebbe trovato modo di tornare.

    Decisero dunque di costruire una prigione usando tutto il potere di cui disponevano e confinarvi lo spirito di Eirisaïr. Una soluzione semplice, quasi banale ma, l’unica su cui gli Dei trovarono un accordo.

    Fu una decisione sofferta dettata dalla paura, dal rancore, dalla compassione e dall’odio. Come altrettanto sofferta fu l’attuazione di questa decisione. Eirisaïr lottò come una furia. Maledì gli altri Dei per quanti erano. Pianse lacrime di puro odio nel vederli sterminare le sue creature che tentavano di difenderlo ma tutta la sua forza e natura divina alla fine non poterono salvarlo dall’inevitabile sconfitta e reclusione nella prigione di divina fattura.

    Così , imprigionato contro il suo volere, agognando la libertà, sognando un riscatto, tramando all’infinito la sua vendetta, impazientemente Eirisaïr attende.

    PROLOGO 2

    LA FONTE

    Efsew l’Arcimago, dopo anni d’infruttuosa ricerca nelle Terre Dell’Oblio, era convinto di aver finalmente trovato ciò che cercava: una costruzione antica.

    Una piccola piramide a gradoni vecchia di decine di migliaia di anni, forse di più, forse quanto il mondo stesso e, ormai, quasi completamente ricoperta di terra e vegetazione.

    La osservò attentamente in cerca di un’entrata quando intravide, quasi del tutto cancellati dai secoli, dei simboli magici a lui conosciuti. Simboli della Gilda dei Portatori di Luce. Simboli magici di enorme potere. Un potere che l’Oscura Congrega custodiva gelosamente. Un potere che doveva esser loro tolto.

    La vista di quei simboli gli fece capire che era finalmente giunto alla fine della sua lunga ricerca. Con mano tremante dall’emozione come non gli succedeva da innumerevoli anni pronunciò alcune parole intrise di magia che svelarono una porta intorno a quei simboli magici. Con un incurante gesto della mano la aprì lentamente. Fuoriuscì del fumo e aria viziata. Davanti a lui ora c’era un buio, basso e caldo corridoio. Efsew esitò solo alcuni istanti prima di entrare evocando un globo luminoso che, fluttuando a mezz’aria a pochi passi davanti a sé, gli illuminò la strada.

    Il corridoio aveva una forma triangolare, le pareti e il pavimento erano lisce e calde al tatto e sembravano essere state scavate in un unico enorme blocco di marmo nero dalle venature dorate. Il calore che aveva provato nell’entrare nel corridoio sembrava aumentare con ogni passo che muoveva al suo interno tanto che Efsew dovette alzare una preventiva protezione magica. Nella sua monotonia questo corridoio sembrava non finire mai ma, quando successe, non si aprì su alcuna stanza, non portò ad alcuna porta né a scale o altro ma, semplicemente ad un muro nel quale era stata ricavata una piccola nicchia all’interno della quale riposava una rozza pietra lavica vagamente ovoidale . L’intenso calore che sentiva l’Arcimago tutto intorno a sé proveniva proprio da quell’oggetto.

    Efsew la osservò per alcuni istanti. Avvicinò una mano senza però mai toccarla. Alla fine, prese in mano la sua bacchetta magica a forma di corno di unicorno e con essa la girò lentamente. Quando lo fece notò una scritta sotto la nicchia e lacrime di gioia gli inumidirono gli occhi.

    Erano solo poche rozze lettere scritte nell’antico arcano alfabeto della magia primordiale ma agli occhi dell’Arcimago Efsew era la cosa più preziosa che avesse mai letto: Eirisaïr.

    CAPITOLO 1

    CORRI!

    Correva.

    Correva come non aveva mai corso prima.

    Correva verso la meta.

    Correva incurante delle ferite che i rami bassi degli alberi gli procuravano sulle braccia, le mani e il viso.

    Correva per la speranza.

    Correva come se il fiato che gli mancava e il cuore che sembrava volergli esplodere nel petto non avessero importanza.

    Correva per disperazione.

    Correva perché sapeva che da questo dipendeva la sua vita.

    Correva con coraggio.

    Correva poiché sapeva che solo così avrebbe salvato la vita degli altri.

    Correva per dovere.

    Correva ma non fuggiva.

    Correva.

    CAPITOLO 2

    AGGUATO

    Correndo nel bosco sempre più fitto non si preoccupava di non fare rumore. Sapeva di essere seguito. Quello che non si aspettava era che quelle orrende parodie di uomini dietro di lui fossero così veloci.

    Da quando aveva iniziato a correre non si era mai voltato. Non sapeva esattamente quanto distanti fossero i suoi inseguitori ma, il fatto di sentire le loro voci stridule articolare suoni incomprensibili nel loro rozzo idioma animalesco era sufficiente a fargli capire che gli si stavano avvicinando sempre più.

    Correva con lo sguardo concentrato e fisso a terra. Il suolo del bosco era ricoperto di foglie gialle, rosse e marroni cadute da poco dagli alberi, come se avessero voluto nascondergli ogni piccolo avvallamento, radice, buca o ramo caduto nella speranza di farlo inciampare.

    Correva e, all’improvviso, il bosco sembrò svanire. Davanti a lui si presentò una radura con un piccolo stagno nel mezzo. La direzione nella quale correva lo portava proprio verso lo stagno ma, mentre gli si avvicinava i peli sul collo gli si rizzarono. L’acqua dello stagno era nera, perfettamente calma e senza neanche un’increspatura. Impugnando saldamente l’elsa della sua spada corta e sfoderandola a metà continuò a correre.

    I peli sul collo non l’avevano mai tradito e dicevano una cosa sola: pericolo. Senza rallentare ma teso come un arco pronto a scoccare la freccia si avvicinò allo stagno. Era deciso ad attraversarlo.

    L’aveva quasi raggiunto quando anche le orecchie iniziarono a prudergli proprio dietro il lobo.

    Questo era troppo! Collo e lobi era una combinazione che poche volte aveva provato e ogni volta era successo qualcosa di terribile. Si era sempre fidato del suo istinto e fino adesso aveva sempre avuto ragione nel farlo.

    All’ultimo momento, maledicendo la sorte avversa e il fato beffardo, decise non solo di aggirare lo stagno ma anche di farlo standoci molto lontano. Questo gli avrebbe fatto perdere preziose lunghezze nei confronti dei suoi odiati inseguitori ma, preferendo dare ascolto al suo sesto senso lo fece comunque, rituffandosi nel bosco non appena gli fu possibile.

    Qualche istante dopo dietro di sé sentì l’inconfondibile rumore di passi che infrangono la superficie dell’acqua seguiti quasi subito da una specie di terrificante ruggito gutturale prima e strazianti urla di dolore e paura subito dopo.

    Sorridendo continuò la corsa con rinnovato vigore mentre immaginava ciò che era appena successo.

    Cercando di orientarsi al meglio delle sue capacità ritrovò il sentiero che doveva seguire.

    Il piano era di raggiungere la grande quercia spezzata dal fulmine dove, stando all’infiltrato che avevano nelle file degli Angruantiani, alcuni membri della Resistenza Ombra lo avrebbero atteso, eliminato i suoi inseguitori e offerto il loro aiuto per farlo fuggire oltre confine.

    Fu quando ormai le voci stridule dei suoi inseguitori si fecero nuovamente vicine e l’idea di non farcela stava per bussare alla porta della sua coscienza che vide l’enorme tronco della quercia centenaria spezzata e carbonizzata davanti a lui.

    Dentro di sé esultò. Era quasi incredulo di avercela fatta e solo in quell’istante si concesse la libertà di riconoscere quanto la sua missione era stata al limite del puro e semplice suicidio.

    Raggiunse la quercia, si nascose dietro ciò che rimaneva del tronco e si guardò intorno in cerca dell’aiuto promesso. A pochi passi di distanza sulla sua destra vide muoversi qualcosa tra i cespugli. Sorrise in quella direzione facendo un cenno di saluto con la mano per farsi riconoscere. Il sangue gli si gelò nelle vene quando dal cespuglio vide uscire solo uno scoiattolo. Si guardò intorno freneticamente. Non vide nulla. Niente. Nessuno. Il panico stava per chiudere definitivamente la sua morsa su di lui. Si diede uno schiaffo per tornare alla realtà riflettendo sulla situazione.

    Constatò che era tardi per riprendere la sua fuga, gli angruantiani lo avevano ormai quasi raggiunto ed aveva pienamente constatato che erano più veloci di lui. Scrutò un’ultima volta il bosco intorno a sé senza scorgere alcun segno dei membri della Resistenza Ombra.

    Con un sorriso triste accarezzò la pergamena che ormai era certo gli sarebbe costata la vita poi, con un respiro profondo, sguainò la spada con la destra e impugnò il pugnale con la sinistra. L’effetto sorpresa era la sua unica possibilità di sopravvivenza. Si concentrò sui rumori dei passi e le urla dei suoi inseguitori, abbassandosi leggermente e piegando le ginocchia pronto all’attacco.

    Aveva individuato due o tre voci diverse venirgli incontro, si stavano avvicinando molto velocemente. I rumori più forti provenivano dalla sua destra. L’adrenalina si fece prepotentemente strada nelle sue vene. Non appena il primo dei suoi nemici passò oltre la quercia lui lo assalì alle spalle senza il minimo rimorso.

    Gli angruantiani erano una razza la cui unica ragione di vita sembrava essere la guerra e la lotta, erano poco più bassi di un uomo, corporatura più tozza e possente, denti acuminati e prominenti, pelle quasi dorata con brillanti riflessi bronzei, non avevano capelli né barba né peli, le loro facce e teste erano spesso sfregiate da cicatrici rituali e il corpo cosparso di rozzi tatuaggi primitivi.

    Un rapido affondo col coltello alla base della nuca e il primo cadde senza un lamento, un volteggio a mezz’aria per girarsi parando d’istinto un colpo d’ascia, un altro affondo col coltello alla gola de suo avversario che incapace di fermare la sua corsa in tempo raggiunse inanime il suo compagno a terra. Un guizzo alla sua sinistra colse la sua attenzione. Troppo tardi. Un forte dolore alla spalla. Ossa che vengono frantumate. Cadde rovinosamente a terra urlando di rabbia. Perse il coltello. Sopra di lui il volto sfregiato dell’angruantiano che lo aveva appena colpito con un martello da Guerra. Il suo volto deturpato dalle cicatrici divenne una maschera grottesca quando accennò ad un sorriso mostrando i denti aguzzi.

    Fissando quegli acquosi occhi violacei pieni di malignità l’uomo fece in tempo a dare un calcio al ginocchio dell’angruantiano spezzandoglielo, facendolo cadere a terra e colpendolo con la spada in pieno petto prima di rialzarsi il più velocemente possibile.

    La spalla gli faceva molto male, perdeva sangue, la vista iniziava ad annebbiarsi. Stava girando su sé stesso alla ricerca di altri nemici quando un acuto dolore al fianco lo fece cadere in ginocchio. Volse lo sguardo e vide a una decina di passi da lui un angruantiano che stava ricaricando una piccola balestra.

    Aiutandosi con la spada si rimise in piedi cercando di ridurre la distanza tra sé e il nemico al fine di obbligarlo a gettare la balestra e impugnare la spada.

    Quando fu a metà strada capì che non ce l’avrebbe mai fatta. Si gettò di lato cercando la protezione di un albero. L’improvviso dolore alla coscia destra lo fece cadere nuovamente a terra. Non era stato abbastanza veloce.

    Sporgendosi vide l’angruantiano gettare a terra la balestra, impugnare una grossa mannaia e avvicinarsi soddisfatto. Aveva negli occhi la luce del trionfo. Camminava verso di lui con una spudorata lentezza che rifletteva tutta la sicurezza di chi sa di avere la vittoria in pugno.

    Pregando che fosse l’ultimo dei suoi inseguitori fece una cosa in cui era bravo ma che il suo istruttore gli aveva sempre proibito di fare poiché non consona alla mischia in battaglia. Con un veloce gesto del braccio e leggero gioco di polso scagliò la sua spada centrando in pieno petto il suo nemico troppo sicuro di sé per tenere alzata la guardia.

    Dopo quest’ultimo gesto disperato, rimase in silenzio appoggiandosi pesantemente all’albero alle sue spalle. Trattenne il respiro e chiuse gli occhi concentrandosi sui suoni. Non sentì nessuno. Tirò un sospiro di sollievo prima di essere sopraffatto dal dolore che lentamente si faceva strada in lui rendendolo pienamente consapevole del suo stato.

    Riluttante si esaminò. La spalla sinistra era rotta e il braccio pendeva inerme al suo fianco. La coscia era stata trapassata da parte a parte. Nel fianco destro il dardo, scoccato da distanza così ravvicinata, era quasi completamente penetrato nel suo addome. Perdeva molto sangue. Troppo.

    Iniziò a tossire convulsamente sputando e rimettendo sangue fresco. Sentiva le forze venirgli meno. Aveva visto troppi feriti in vita sua per non capire che ormai per lui era la fine.

    Lentamente tirò fuori la pergamena che gli era costata la vita. Una pergamena antica. La osservò quasi meravigliato. Era ancora perfettamente arrotolata. Non era stata minimamente danneggiata durante lo scontro. La srotolò. Era una mappa. Una mappa dettagliata delle Terre Dell’Oblio, le terre inesplorate, le Lande Senza Re. Era l’unica mappa esistente di quelle terre. Vicino al bordo della mappa c’era scritto Bastioni Delle Stelle sotto la scritta c’era una piccola freccia e dove la freccia puntava c’era il disegno di una gemma La Gemma di Efsew… sussurrò l’uomo tossendo.

    Improvvisamente stanco alzò gli occhi al cielo. Le ferite quasi non gli facevano più male. La mappa gli cadde di mano. Sentì dei rumori e delle voci provenire da lontano, da molto lontano. Abbassò gli occhi. Attraverso la vista annebbiata vide quattro figure vestite di nero affianco a lui. Una di esse raccolse la mappa. Un’altra gli strinse la mano. Le altre due rimasero in piedi.

    Prima di perdere i sensi gli sembrò di sentire la figura più vicina dirgli qualcosa che assomigliava ad un grazie. La sua missione era compiuta. Sorrise.

    CAPITOLO 3

    LUATHED

    Erano passati ormai quasi tre mesi da quando avevano deciso dopo lunghe discussioni di svernare a Luath capitale del Regno di Luathed.

    Non era stata una decisione facile.

    Tjanador in quanto mago non voleva fermarsi in una città dove non ci fosse un’Accademia di Magia.

    Hardana in quanto mezzelfa e sacerdotessa di Suashlon non intendeva sostare così tanti mesi in una città in cui non vi fosse un tempio dedicato al suo Dio.

    Sycro, benché fosse il più accomodante aveva perentoriamente affermato di non volersi fermare in una città in cui non fosse presente una Gilda di Guerrieri dove potersi allenare.

    Duntrem invece da buon nano voleva solo due cose, la prima che non ci fosse troppo caldo e la seconda che ci fosse della buona birra.

    Così, dopo aver distrutto le Isole Volanti di Niulgreth, aver abbattuto L’Albero della Vita, scongiurato la minaccia del Regno delle Mille Torri come concepito dall’Arcimago Efsew, essere fuggiti da Lyxervioz, tentato di raggiungere le Paludi dei Lamenti seguendo la mappa di Duntrem ma, aver dovuto desistere, a causa di un’improvvisa guerra tra il Principato di Relviat e L’Impero Cruemaek erano approdati in questa città.

    Per il loro soggiorno avevano affittato il secondo piano di una vecchia casa ai margini dei quartieri ricchi della città. Era un’abitazione modesta, senza pretese, un po’ umida ma con quattro piccole stanze e una cucina.

    I quattro compagni spesso erano fuori casa ma, per caso, fortunatamente per loro, avevano scoperto che Mappa, il Vuyl, famiglio di Tjanador non solo era particolarmente portato per le faccende domestiche ma si era dimostrato essere anche un eccellente cuoco. In questo suo strano ruolo Mappa era diventato una specie di nuovo punto di riferimento per loro e tutti ormai si riferivano a lui come fosse un membro del gruppo e non semplicemente il famiglio di Tjanador.

    Ciò non di meno, dopo l’iniziale entusiasmo della scoperta di una città nuova le loro giornate erano diventate spesso, benché appaganti, monotone e ripetitive.

    Hardana si alzava sempre prima di tutti. Come prima cosa si recava presso il piccolo tempio di Suashlon dove per tutta la mattina e inizio pomeriggio si divideva tra preghiera, predicazione, studio e meditazione. Di pomeriggio invece aiutava coi lavori manuali di cui il vecchio tempio sembrava avere un disperato bisogno. Duntrem e Sycro spesso avevano proposto di darle una mano mentre Tjanador ogni tanto tentava di convincerla ad usare la magia ma Hardana aveva sempre gentilmente rifiutato spiegando che il tempio doveva essere curato solo dai fedeli e senza l’aiuto di alcun tipo di magia.

    Sycro da parte sua aveva preso contatto con la Gilda dei Guerrieri e quella dei Cacciatori di Taglie. Aveva spiegato ai suoi amici che aveva preso contatto con la prima Gilda per dovere, per mantenersi in forma e affinare le sue arti nel combattimento mentre per quanto riguardava la seconda lo aveva fatto per il proprio piacere. Così divideva le sue giornate allenandosi fino ad inizio pomeriggio per poi indagare sui criminali almeno fino al tramonto.

    Duntrem, come ogni nano che si rispetti, si era dato da fare per trovare altri membri della sua razza, farsi accettare da loro (i nani erano diffidenti di natura verso tutto e tutti) e ora passava le sue giornate alla taverna La Barba Intrecciata, fumando la pipa, bevendo ottima birra nanesca e ascoltando e raccontando storie. La sera spesso andava con Sycro a caccia di ladruncoli, piccoli furfanti e truffatori vari.

    Tjanador invece, dopo un periodo passato a familiarizzare col suo famiglio ed essersi assicurato che i maghi di Lyxervioz non avessero diramato una condanna magica nei suoi confronti per aver violato le loro cripte, si era presentato all’Accademia di Magia e aveva iniziato a raccogliere quante più informazioni possibili su come gestire e convivere con un famiglio. Non si era ancora abituato completamente all’idea di averne uno. Continuava a ripetersi che non era normale che un mago del Terzo Cerchio Magico come lui ne avesse già uno e il fatto che tutti i testi che consultava consigliavano di raggiungere il Sesto Cerchio prima di farlo lo deprimeva e inorgogliva al tempo stesso.

    Malgrado tutto questo, la permanenza

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