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Hellkaiser Armageddon Saga
Hellkaiser Armageddon Saga
Hellkaiser Armageddon Saga
E-book602 pagine9 ore

Hellkaiser Armageddon Saga

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Info su questo ebook

La prima tetralogia della saga Hell Kaiser in un unico volume: oltre 15000 persone raggiunte nei principali store. Per chi vuole rivivere la straordinaria vita, la sofferenza, le emozioni e l'enorme coraggio del giovane Lorian: ora può farlo.

Grazie a tutti voi, che avete reso possibile questo.

Lorian, l'alleanza dei caduti, Vol 1

La storia della razza umana, dell'universo e di tutto quello che esiste è diversa da quanto conosciamo, da quello che da sempre ci è stato narrato. Come lo so? Non ha importanza, posso dire però che sono morto e che in vita non sono stato proprio un esempio da seguire.
La mia anima è confinata in quel luogo che chiamate inferno e mai avrei immaginato che anche qui, coloro che lo abitano e lo governano, stiano provando la più odiata delle emozioni: la paura.
Credo sia giunto il momento che il mondo, così come l'intero cosmo, comprenda quale terribile minaccia l'abbia colpito. Essa è inarrestabile, persino per il creatore stesso. La speranza è l'unica cosa che resta, l'ultimo sentimento a cui Dio può aggrapparsi e tale speranza ha un nome, un nome legato a un individuo comune, un umano come un tempo ero io: Lorian.
Il solo in grado di rispondere alla chiamata di Dio, in grado di trascendere la sua natura al fine di essere condotto verso un destino inimmaginabile.

È l'anno 1812 e tutto sta per cambiare, per sempre, ed io, in questo abisso di terrore ne sono l'ultimo testimone.

Baal, l'apocalisse di Salomone, Vol 2

Le gerarchie dell'inferno cambiano, il sogno del nuovo re sembra prendere forma e la promessa fatta ai nuovi angeli a poco a poco si sta realizzando. Eppure, qualcosa rompe il precario equilibrio che faticosamente è stato raggiunto, qualcuno ha atteso il momento propizio per dettare la sua legge e riprendersi ciò che tanto brama. Un essere dimenticato, rimasto nell'ombra e diventato forte, a tal punto da non temere il leggendario dio demone.

Astaroth, genesi delle ombre, Vol 3.

Un oggetto misterioso custodisce i segreti più reconditi dell'angelo caduto, celato a tutti da tempi immemori, ora reclama di tornare alla luce e manifestare la sua vera potenza. Un potere necessario, in grado di respingere l'essere che da tempo si cela agli occhi di Lorian e dei regni, sapientemente occultato da vesti invisibili; egli è stato capace di ingannare chiunque, angeli e demoni, chiunque, tranne lui: Astaroth.
Cosa ha scoperto il temibile perturbatore di anime?

Lucifero, oltre i confini di un dio, Vol 4.

La minaccia dormiente svela il suo volto. Il sottile gioco di inganni portato alla luce. Negl'inferi, la più colossale delle battaglie incombe, la resa finale è alle porte. Le forze più mistiche e poderose sono chiamate alla lotta, esse, sopite per millenni nell'oscurità ora tornano alla luce e sono ago della bilancia, nella lotta tra la vita e la fine di tutto.

LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2016
ISBN9781311180933
Hellkaiser Armageddon Saga

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    Anteprima del libro

    Hellkaiser Armageddon Saga - Alessandro Falzani

    Altre opere dell'autore:

    Glenvion Saga Vol 1-La Matrice

    Glenvion Saga Vol 2-La Prigione di Sefrin

    Glenvion Saga Vol 3-L'ultimo Custode

    Glenvion Saga-La Trilogia

    Pactum Sigilli

    Memoria (racconto breve)

    Copyright text 2016 Alessandro Falzani

    Copyright cover illustration 2016 Alessandro Falzani

    All rights reserved

    HELL KAISER

    armageddon saga

    La tetralogia

    Alessandro Falzani

    Volume 1

    LORIAN

    L’ALLEANZA DEI CADUTI

    Così una volta mi disse il demonio:

    'Anche Dio ha il suo inferno: cioè il suo amore per gli uomini'.

    Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

    Non chiedetemi chi sono, non ha importanza. Non pretendete di sapere ogni cosa di quello che ci circonda, sarebbe inutile e impossibile da comprendere. Ciò che potete fare, invece, è ascoltare, ascoltare, ascoltare… Vi era un tempo in cui la stessa parola tempo non aveva senso, un tempo in cui il pensiero non aveva spazio in cui muoversi e lo spazio non aveva una direzione da seguire. Esisteva solo un nome e quel nome era tutto e l'inizio di ogni cosa; l'inizio del tempo, dello spazio, l'inizio del pensiero, l'inizio delle divinità. Quel posto aveva un nome, Pleroma, ed è lì che tutto ebbe inizio. Chi sono per dirvi questo? Non ha importanza, ma posso dirvi che una volta ero vivo, come tutti voi e poi sono morto, lasciato a vagare in una landa deserta e sterile a cui qualcuno diede il nome di Inferno. Qui conobbi un individuo, un essere particolare e con lui passai momenti indimenticabili, assorto nei suoi racconti e nelle sue gesta. Quest'essere che io temevo, si dimostrò con me magnanimo e la nostra conoscenza divenne ben presto un sentimento vicino a quello che chiamiamo amicizia. Egli, un giorno, mi confidò qualcosa di straordinario e fu tale per me la sorpresa e lo sgomento che non potei trattenermi dallo scrivere su questa fredda roccia le sue memorie. Chi era costui? O meglio chi è? A me disse semplicemente di chiamarsi Lorian, ma mai avrei immaginato cosa si nascondesse, dietro quel semplice nome. Questo è un cammino lungo, faccio appello alla vostra pazienza, alla vostra sete di conoscenza e quanto saprete, se vorrete saperlo, vi condurrà alla sola e unica verità, quella che mai nessuno, oltre a me potrà narrarvi. Chi sono io? Semplicemente un'anima,destinata alla sofferenza eterna e frutto di una vita mortale colma di odio e atti meschini. Forse, alla fine,chi di voi avrà la forza e il coraggio di intraprendere con me questo incredibile cammino,avrà il dono della conoscenza ultima. Ma ora posso redimermi e il solo modo che conosco è quello di tramandare questo enorme e pericoloso fardello. La mia è una promessa, la promessa fatta a colui che un tempo era umano al mio pari e intendo mantenerla, assolutamente. Su queste rocce antiche trascrivo la più straordinaria leggenda del creato, una leggenda iniziata con un essere,qualcuno che abbiamo pregato e che, erroneamente continuate a pregare. Costui ha il nome di Dio.

    Capitolo 1

    «Ascoltate esseri umani, è giunto il momento che conosciate: io sono il vostro creatore, colui che ha plasmato l’universo. Da tempo avverto un pericolo che minaccia la sopravvivenza di ogni cosa. Ho taciuto troppo a lungo, ora cercherò di spiegarvi il legame che ci unisce e la condizione che ci accomuna. Voi, figli miei, mia creazione prediletta ed io, che più di ogni altra cosa ho voluto la vostra nascita, siamo legati da un triste destino, stiamo giungendo al culmine della nostra esistenza: l’universo si sta sgretolando.

    Tutto ebbe inizio nel momento in cui creai una nuova realtà, immensa e varia, sognavo un luogo speciale in cui sentirmi appagato. La realizzazione del mio progetto fu preceduta da una lunga analisi, trascorsi tantissimo tempo a scrutare il comportamento di altri universi che esseri creatori come me avevano generato, riflettei a lungo fino a quando mi risolsi alla creazione. Tornai nel Pleroma ed esposi il progetto di nascita a mio Padre. Credevo sarebbe stato un giorno per me indimenticabile. Certo della Sua approvazione, fui invece costretto a subire l’onta del rifiuto: il mio progetto era stato respinto insinuando che la mia energia ed il mio pensiero si sarebbero fusi in qualcosa di incontrollabile: mi riteneva inadatto a generare un mio universo. Eppure agli altri miei fratelli era stato concesso. Fui profondamente deluso e non comprendevo il suo timore, l’impulso di creare è sempre stato in me incontrollabile, inarrestabile. Mio Padre ben conosceva il mio pensiero, incaricò quindi alcuni fratelli di controllare il mio operato e frenarmi qualora fosse stato necessario. Fu in quel momento che il mio impeto prese il sopravvento e quanto era racchiuso nel mio pensiero iniziò a realizzarsi; ma qualcosa di incomprensibile era accaduto e invece dell’opera magnifica da dedicare a mio padre, Uno, generai un’aberrazione, un qualcosa di deforme da quanto avevo idealizzato. Ero sconcertato, preoccupato, deluso ma soprattutto ero solo con la mia incredulità: osservavo la mia creatura che a poco a poco prendeva forma, ingrandendosi, ancora ed ancora, sempre più, iniziando a vorticare minacciosamente, attirandomi verso di sé. Mai avrei immaginato nulla di simile. Un sentimento che prima di allora non conoscevo prese forma in me: ero disperato. Tuttavia mi riebbi in pochi attimi, elaborai un’energia che si opponesse a quella ma fu sufficiente un solo istante di distrazione e la vibrazione da me creata al fine di proteggermi si interruppe. Mi resi conto che la mia era una battaglia persa, per tale motivo quasi smisi di lottare e mi ritrovai sempre più vicino al centro di quella immensa forza distruttrice che tentava di ingoiarmi. Dovetti fare uno sforzo immane per poterne rimanere fuori, grazie ai miei immensi poteri potei salvarmi in una dimensione esterna. Lì ripensai a tutto, cercando di comprendere in cosa avessi sbagliato.»

    ***

    «Amore! Ti prego, svegliati! Di nuovo quello strano sogno!» Dalia scuoteva ripetutamente e con forza la spalla del marito che trafelato di sudore si dimenava nel letto, pronunciando parole e frasi incomprensibili. «Creatore, dimensioni, ma cosa ti succede? Per amor del cielo torna in te!» La donna era in preda al panico, il marito incontrollabile. Da giorni aveva incubi ricorrenti che lo assalivano improvvisamente, per abbandonarlo dopo pochi minuti ad un riposo tranquillo, ma non quella volta: il giovane parve non volersi svegliare, come se qualcosa lo avesse trattenuto in uno stato di dormiveglia da cui era impossibile uscire, poi, improvvisamente la calma. Dalia respirava lentamente, asciugava il sudore sulla fronte di Lorian, lo osservava ansimare cercando di immaginare cosa stesse disturbando il suo sonno, quale strano pensiero lo angosciasse e la causa del suo turbamento. Da quando si erano sposati, pochi mesi prima, Lorian aveva sempre riposato tranquillamente, andava a letto presto e si svegliava di buonora per iniziare una lunga giornata di lavoro. Da qualche settimana, tutti i suoi ritmi erano cambiati, trascorreva notti inquiete. Ad ogni sussulto, la moglie sobbalzava dal letto in preda al panico. Dalia temeva che andando avanti di quel passo il marito potesse crollare, ma non volle pensare nemmeno per un attimo che fosse diventato pazzo, così, improvvisamente. Infine gli carezzò il volto, adesso pareva tranquillo, anche quella notte era passata. Spense la candela che sullo sgabello era ormai quasi consumata e tornò a dormire, decisa che l’indomani avrebbe aiutato il marito.

    ***

    «Il tempo passava e l’universo si sviluppava velocemente, senza apparente ordine, seguendo un criterio che non era il mio. Spendevo tutte le energie nel tentativo di correggerlo ma le mie forze non erano sufficienti, mi sentivo solo, abbattuto dallo sconforto. Il mio impulso ebbe nuovamente il sopravvento, mi privai di una parte del mio essere e vi introdussi il mio pensiero, le mie volontà e quelle che voi, credo definiate emozioni, plasmando delle creature che mi ubbidissero e pregassero per me, alleviando la mia stanchezza e colmando la mia solitudine. Li chiamai angeli. Creai per loro un posto in cui vivere, un luogo bellissimo, dove calma e quiete regolavano lo scorrere del tempo; mi piaceva e piaceva anche a loro. Per la prima volta fui contento della mia opera e forse qualcuno era in grado di apprezzarla, interpretando in modo corretto la mia intenzione di creare un universo perfetto. Si trattava di un piccolo spazio, le cui dimensioni ed energia per nulla erano paragonabili alla mia creatura. Decisi di chiamarlo paradiso. Apprezzavo gli angeli, non potevo fare a meno di crearne altri e poi altri ancora, infine concessi loro la capacità di generare, li avevo dotati di libero arbitrio, ma ancora mi accorsi di aver sbagliato. Bramosi di potere, iniziarono a rivaleggiare tra loro e ad uccidersi selvaggiamente. Mal tolleravano di avere un creatore, ritenendo di essere miei pari tramavano alle mie spalle. Infine insorsero in una ribellione che dovetti sedare.

    Vivevo l’ennesimo fallimento, in cosa avevo sbagliato? Compresi che la creazione di esseri pensanti era un potere che non potevo concedere ad altri: gli angeli non avrebbero potuto più generare vita. Per la prima volta provai un impulso contrario alla mia natura, volevo distruggere tutto, ma l’universo era divenuto inarrestabile nella sua crescita, riuscivo a malapena a controllarlo, le miei forze non erano sufficienti. La mia rabbia crebbe in modo smisurato, quando alcuni di loro decisero di lasciare il paradiso per insediarsi sulla terra, l’unico posto in cui la vita stava seguendo il lento corso di sviluppo che mi ero riproposto, evolvendo esseri pensanti di limitate capacità, ma in grado di adattarsi alle condizioni e alle mutazioni fisiche che lentamente io proponevo loro: eravate voi, umani, le creature che amavo di più e alle quali rivolgevo tutte le mie attenzioni. Alla guida degli angeli ribelli vi era Lucifero, una tra le mie creature più belle e intelligenti, alla rabbia subentrò un grande sconforto misto a tristezza. Lucifero era stato per lunghissimo tempo al mio fianco sostenendomi devotamente, dimostrandomi la sua lealtà e l’avevo ricompensato concedendogli poteri smisurati, tale era la sua perfezione che pensavo addirittura di offrirlo a mio Padre. Lucifero era sceso sulla terra, deciso a dominare la razza umana confondendosi tra di loro e controllandoli subdolamente. Tali accadimenti minavano la mia salute, il mio equilibrio e mi stavano conducendo alla follia. Ero ormai controllato dall’ira che dava impeto ad una forza creatrice abominevole; malgrado il mio volere avevo generato un luogo diverso, orrendo e oscuro. Decisi di farne una prigione e di confinarvi gli angeli ribelli; tra loro si chiamavano demoni e presto iniziarono a riferirsi a quel luogo con il nome di Inferno.»

    Capitolo 2

    «Dalia, svegliati, è mattino!» disse Lorian ormai in piedi davanti al letto, tutto pronto per andare al lavoro. Dalia girò lentamente la testa aprendo gli occhi verso il soffitto, quindi la piegò e vide il marito già pronto. «Ma come fai a svegliarti sempre prima di me? Almeno avrai dormito qualche ora spero!» Di colpo lo sguardo del giovane si fece cupo, il sorriso scomparve dalle labbra e scosse la testa, «mi dispiace davvero amore, il fastidio che ti sto dando è enorme, ma credimi io non c’entro nulla, non sono io a voler vedere tutte quelle cose e non riesco a toglierle dalla testa. Come se qualcuno mi obbligasse a vedere, a sapere. Poi, stanotte è stato diverso, non so dire, ha parlato per più tempo e mi detto tante di quelle cose su di noi umani, ha raccontato anche di angeli e demoni. Sai, prima vivevano tutti insieme e…» Lorian si interruppe, osservando lo sguardo sconcertato della moglie. La stava facendo preoccupare, era meglio tenere tutto dentro, magari le avrebbe evitato inutili pensieri. Prese in fretta il borsino con il pranzo che Dalia aveva preparato la sera prima, si voltò rivolgendole uno sguardo di scuse, infine disse, «non sono pazzo e spero più di te che tutto questo finisca presto. Non sto sognando, almeno non credo. Tutto mi appare così reale… e comunque no, non mi faccio visitare da nessun dottore, non ne ho bisogno, adesso vado, ti amo.»

    ***

    È l’autunno del 1812, Londra in quell periodo dell’anno era particolarmente bella, misteriosa, avvolta da una sottile nebbia bianca, da cui solo i tetti più alti riuscivano a sfuggire. Quando pioveva, si poteva udire lo scorrere dell’acqua sui larghi lastricati di san pietrini e si sentivano le carrozze dei cavalli con i loro zoccoli, che increspano sull’acqua e le ruote che girando la trascinavano dietro, creando un piccolo rivolo. Alzando lo sguardo un po’ più in su, si notavano i fumi delle ciminiere mescolarsi con quella nebbia e creare una sorta di cortina grigia che saliva in alto e pian piano si dissolveva. Lorian non amava particolarmente Londra con tutte quelle diavolerie: fabbriche e macchine a motore, operai che con i loro grossi martelli creavano un tintinnio, quasi fosse una melodia e poi i commercianti, che per strada invitavano a concludere qualche grosso affare, per poi piantare chissà quale bidone. Ma Londra era anche tutta la campagna circostante, tanto spazio e silenzio interrotto solo dalla pioggia che bagnando la folta vegetazione ne nutriva le fonti e rallegrava gli agricoltori, che dell’acqua per i campi avevano assoluto bisogno. Con loro i terreni erano sempre generosi: ricchissimi raccolti ed una fiorente esportazione fecero delle campagne londinesi il fiore all’occhiello della città. Tra i contadini era uso comune celebrare la prima pioggia autunnale con una festa, dove canti e balli propiziavano la venuta di una stagione di abbondanti raccolti. Talvolta accadeva che le celebrazioni univano villaggi vicini, contagiando anche gran parte degli aristocratici di Londra, i quali raramente abbandonavano la città per controllare l’operato dei contadini e la resa del raccolto. Tra questi uomini dei campi spiccava per la sua forza fisica Lorian, conosciuto da tutti per le sue tristi vicende. La storia di come fosse orfano dalla nascita e di come i suoi genitori fossero stati trovati morti con la bocca inondata di sangue, era uno dei racconti preferiti dagli anziani per intrattenere ma anche intimorire i viandanti. Si narrava che la madre lo avesse appena partorito e che nel momento della morte lo stringesse forte tra le braccia. Il piccolo era ricoperto di sangue ma non piangeva, pareva fosse stato trovato dal prete, chiamato alcune ore prima dal padre, per avvisarlo dell’imminente nascita del figlio. Desiderava essere il primo a conoscere l’erede del suo caro amico Edwin e si era ben raccomandato di essere avvisato per tempo. Sembrava che i genitori fossero particolarmente religiosi e praticanti e che frequentassero assiduamente la loro parrocchia di cui erano grandi sostenitori. Attendevano la nascita del loro primo figlio con trepidazione e la mamma, Gloria, pregava regolarmente mattina e sera perché suo figlio nascesse sano e forte e crescesse nel giusto e nella verità. Il padre era un bravo falegname che lavorava sapientemente qualunque tipo di legno e che era particolarmente richiesto per le sue abilità. Il prete trovò i due bagnati da sangue reciproco, si tenevano entrambi le mani e si capiva chiaramente che sino all’ultimo si erano cercati con gli occhi. Questi erano sbarrati quasi avessero visto qualcosa di terribile. Non fece altro che imputare la colpa a quella povera creatura: Lorian era nato sotto una cattiva stella, per tutti era figlio del demonio.

    Per tali motivi crebbe principalmente in un convento nei sobborghi di Londra e trovò giusto conforto nelle suore, che lo educarono amorevolmente e lo indirizzarono verso una vita di rispetto per il prossimo e di amore per il Signore. Durante la sua permanenza non passò un solo giorno in cui il suo pensiero non fosse rivolto a Dio: chi era costui e perché tutti lo adoravano, per quale ragione egli era il centro della vita degli umani. Lorian, per quanto si sforzasse non riusciva ad amarlo, non provava nulla, gli rimaneva difficile persino pregare e questo, di certo, le suore non potevano accettarlo. Suor Elisabeth, entrata giovanissima in convento, cercò più volte di condurlo alla preghiera, i due si confrontarono spesso sull’argomento. «Sai piccolo Lorian, io mi sono fatta le tue stesse domande molte volte, ma come umani dobbiamo imparare ad accettare ciò che il Signore ci ha dato e ci chiede di fare, forse è la sola risposta che posso offrirti» concludeva Elisabeth, inclinando la testa in segno di resa. «No, no suor Ely, questo signore come tu lo chiami non mi ha mai chiesto di fare nulla, non mi ha mai chiesto di pregare e invocare il suo nome, io invece gli chiedo sempre di ridarmi mamma e papà ma lui non mi sente! Sono arrabbiato e non mi importa se anche lui lo è con me» rispondeva seccamente Lorian. Nell’ultimo dei loro frequenti discorsi, suor Ely si pronunciò in un modo che segnò il piccolo per sempre, «ascolta adesso basta! Per quanto io voglia comprendere il dolore del tuo cuore, non posso accettare i tuoi insulti, verso colui che ho deciso di seguire per tutta la vita. Evidentemente, Lorian, noi non abbiamo lo stesso Signore, il tuo deve trovarsi altrove!» urlò con le lacrime agli occhi la donna. Lorian non ci aveva mai pensato prima di allora: poteva, anzi, doveva essere così, egli percepiva di appartenere ad altri, ad una forza diversa ed inspiegabile da cui si sentiva profondamente attratto. Chinò il capo, quindi lo sollevò lentamente fissando la suora pentita per quanto detto poco prima, infine voltandosi di spalle le disse, «hai ragione suor Ely, non è questo il mio posto, ma non temere, il tuo operato è eccellente e se temi di non servire il tuo Dio come credi dovresti, sappi che ti sbagli, per me sei e sarai sempre la sorella che non ho mai avuto, ancora grazie!» Si diresse lentamente verso l’uscio socchiuso, tutte le suore del convento, udendo l’animata discussione, si erano radunate ed ora lo fissavano allontanarsi con sguardi insistenti, che pesavano sulle sue spalle come macigni. Forse suor Ely era la sola ad esser dispiaciuta che andasse via, lei lo aveva accudito amorevolmente e cresciuto. Chissà, magari un giorno sarebbe tornato a trovarla.

    A soli 13 anni iniziò a vagare per i paesi vicini con l’intento di nascondere il suo passato e provare a crearsi un futuro, magari una famiglia. Tuttavia, aveva una domanda a cui rispondere: era lui il colpevole della morte dei suoi genitori? In realtà nessuno gli aveva mai parlato dell’episodio della sua nascita, ma l’evento era ben noto nei villaggi vicini. Sin da piccolo percepiva gli sguardi biechi dei paesani che incrociando il suo cammino l’osservavano con timore e riprovazione. Crescendo, aveva iniziato a cogliere, nei bisbigli dei passanti, parole oscure a lui rivolte. Nelle notti, la sua mente elaborava voci e sguardi, restituendo incubi terribili che al risveglio lasciavano dolorosi interrogativi. Un mattino si era destato in preda al panico, per la prima volta aveva messo insieme i pezzi: sapeva che i propri genitori erano stati trovati morti, riversi nel proprio sangue, lo sguardo terrorizzato, egli, infante, era stato risparmiato. Per tutti egli era il figlio del demonio, in qualsiasi luogo andasse. Viaggiando fantasticava su quale futuro lo aspettasse, pensava alla casa in cui un domani avrebbe vissuto con sua moglie, gli piacevano le bionde, alte e che parlavano, che facevano battute, egli in fondo si sforzava di essere sempre allegro. Trascorsi alcuni mesi, il destino parve iniziare a sorridergli tanto da fargli trovare un paese in cui fermarsi stabilmente. Lì nessuno lo conosceva e l’appellativo figlio del demonio cadde presto nel dimenticatoio. Roxville, così si chiamava quel piccolo paese: una modesta chiesa, qualche artigiano, casette principalmente in legno e tanta, tanta quiete, proprio come Lorian desiderava. Facendo leva sulla sua grande forza, non ebbe difficoltà a trovare lavoro come bracciante nei campi ed in meno di cinque anni riuscì a costruirsi una piccola casa con un modesto pezzetto di terra, ma soprattutto non era più solo. Con lui vi era Dalia, una stupenda ragazza dagli occhi azzurri, profondi, in cui Lorian si perdeva e che a volte lo facevano piangere, tanta era la bellezza di quello sguardo, che poteva incantare persino la dea della bellezza stessa, come amava ripetere. Dalia era semplice, umile, sempre calma ed in grado di infondergli una forza spaventosa, ben più grande di quella fisica, una forza che negli anni gli permise di valicare qualsiasi ostacolo, come la fame, il freddo, la gente che lo derideva per la sua povertà e poi il dramma dei suoi genitori. Questo più di ogni altra cosa lo distruggeva dentro, non poterli ricordare, non conoscerne il volto né le voci, lo faceva impazzire. Solo lei sembrava capirlo, anzi, ne leggeva quasi i pensieri e lo amava talmente tanto che alcune volte, osservandolo, non riusciva a parlare, come nel giorno del matrimonio, in cui sembrava una bambola bellissima, eterna, stregata dal suo uomo, l’unico con cui desiderava condividere ogni istante della sua esistenza.

    Egli era diverso: sicuro e forte, così come la considerazione del suo corpo che si era accresciuta: capelli lisci e scuri che gli carezzavano le spalle, divisi da una linea netta esattamente al centro. Egli curava in modo particolare i due grossi ciuffi che aveva pazientemente lasciato crescere. Dalia amava quei capelli e ogni sera, dopo le fatiche della giornata li accarezzava. Quell’uomo era talmente bello, per lei era un angelo. Anche il suo amato aspettava con ansia l’arrivo del crepuscolo, adorava quel silenzio e le cure che la sua amata gli riservava. «Dalia senti che silenzio, ascolta, il canto degli uccelli e della natura intera, la fanno da padrona!» Stava per alzarsi dalla piccola seggiola su cui si dondolava spesso, gli era molto affezionata perché era un regalo della madre di Dalia, trasferitasi a Traxville, a quasi duecento chilometri da loro. Dalia non amava quel posto così caotico, pieno di traffico e di gente altolocata che per strada ti scostava dandoti spallate e intimando le scuse, per giunta. «Aspetta, aspetta, ti prego resta qui seduto, sei stanco, lasciati accarezzare ancora un po’, trovo rilassante prendermi cura dei tuoi capelli.» Disse Dalia con un tono di voce a cui Lorian sapeva benissimo di non poter obiettare. «Cara, io dovrei sistemare quella porta, cigola di continuo, davvero non la sopporto più» sbuffava il giovane. «Siamo sicuri che sia la porta e non le mie attenzioni, quello che non sopporti?», concluse Dalia continuando ad accarezzare i soffici capelli del ragazzo. I due ridevano, lui aveva un timbro di voce forte e fiero, mentre Dalia possedeva una voce tenue, fioca, quasi impercettibile, ma che alle sue orecchie come melodia suonava. Aveva imparato benissimo ad ascoltarla e pensare che i primi tempi si burlava di lei, chiedendole di scrivere su un foglietto di carta le sue parole, tanto era basso il tono della sua voce. Allora lei se la prendeva e il suo splendido sorriso, con quegli occhi pieni di vita e di entusiasmo, mutava in un volto rattristato, quasi offeso: per tale motivo, Lorian si ripromise di non offenderla più e stava ben accorto dal farlo. «E suvvia sta seduto e smetti di ridere, devo dirti qualcosa di serio!» riprese la donna, spingendo con energia insolita il marito a restar seduto sulla sedia. «Diamine che cosa è successo di tanto grave, su dimmi non farmi stare sulle spine!» Dalia lo zittì con un bacio appassionato che durò alcuni secondi, ma per i due fu un bacio eterno. Lei sedette sulle sue ginocchia e lui le accarezzò le gambe, quindi la donna si fermò, sfiorandogli il viso e dicendo con tono serioso ma con sguardo illuminato, «davvero ami il silenzio così tanto?» «Credo, credo di si, ma lo sai no? Perché me lo chiedi?» Dalia si sollevò e fece per toccarsi il ventre, «peccato, perché credo che dovrai abituarti ad un po’ di piagnistei, non dormire la notte e a fare qualche servizio in casa come si addice ad una signora!» Lorian rimase senza parola, ma i suoi occhi confessarono tutto: sgomento, paura, incredulità e poi felicità. Non restò seduto, abbracciò la moglie stringendola con forza e alzandola da terra con le sue grosse braccia; i due ripresero a ridere e ridere ancora, mai erano stati tanto allegri, mai il Signore avrebbe potuto essere più generoso con lui: concedergli il dono di un figlio.

    Capitolo 3

    «Tutti questi eventi mi fecero comprendere che qualcosa agiva persino al di sopra di me, infatti sapevo di non essere solo e che altri miei simili governavano universi. Forse, il loro sapere e il loro potere erano maggiori dei miei e quando compresi che ero a mia volta soggiogato da tale superiorità, provai un dolore antico, unico ed indescrivibile: mio Padre aveva deciso che il mio universo era giunto al termine, non mi era più concesso di governarlo e sarei stato reso inerme. Egli, dall’alto del suo immenso sapere, decise che i miei errori dovevano essere corretti, quindi mio malgrado, affidò tale incarico ai miei fratelli; ma tra essi, ve ne era uno in particolare che per lungo tempo avevamo dimenticato e non aspettavamo. Egli annientò dapprima i miei fratelli, ancor prima che potessero raggiungermi ed ora sento chiaramente di essere la sua prossima preda: tale essere è mio fratello, Demiurgo. Oggi, in questo preciso istante, il mio tempo è scaduto e sono condannato a cedere ad una forza a me superiore, egli giunge per inglobarmi in lui e prendere il comando di quanto faticosamente ho creato. Oggi umanità intera, volevo dirvi che mi dispiace, che vi ho amato e che per sempre sarete la mia creazione più bella, lascio tutto questo, confidando che almeno a voi sia concesso di vivere, lotterò per questo, finché le forze me lo concederanno.»

    Capitolo 4

    Colui che dell’Inferno era sovrano, che governava il male più profondo, che chiunque temeva e di cui nessuno osava pronunciare il nome: è lì, seduto sul suo trono, maestoso e grandissimo. Dalla sua posizione governava e scrutava ogni singolo cambiamento, ogni singola anima, sentiva l’odore della paura e percepiva il terrore di tutte le sue vittime. Da tale terrore egli traeva giovamento e forza e se ne nutriva, la grande schiera di demoni al suo cospetto s’inchinava, essi erano terribili e potentissimi, ma nonostante ciò, nessuno, mai, osava ribellarsi all’onnipotente, il creatore dell’inferno: Lucifero. Scrutava nel vuoto: i suoi occhi così grandi e spaziati sembravano uscire dalle orbite, chiunque in quel luogo sapeva di essere osservato ed il peso del potere di quell’essere gravava sulle loro membra; ogni tentativo di sovversione, o di tradimento,veniva percepito e non di morte era fatta la pena: no, sarebbe un sollievo, una grazia che il signore degli inferi non avrebbe potuto concedere, bensì sofferenza eterna: di mille e più morti poteva far morire un anima ed ogni morte era più penosa e dolorosa della precedente.

    Adorava sentire le urla di disprezzo delle vittime e implorare pietà: già, la pietà, un sentimento che più di ogni altro rinnegava con tutto il suo torbido essere. Rifletteva pensieroso. Cosa lo rendeva impassibile dinanzi alle vicende del suo smisurato regno? Cosa era più importante in tale momento? Pareva avesse perso interesse, il suo potere non impregnava la mente dei suoi servitori come era solito fare, il suo fiato non era asfissiante su ognuno di loro e le fiamme degli inferi non bruciavano i traditori con la stessa intensità che più volte li uccideva, essi non stavano urlando di pazzia e dolore, né i tremendi odori di carne putrefatta e bruciata di ogni genere e specie insozzavano l’aria, rendendola scura, pesante, irrespirabile. Era evidente, qualcosa stava mutando il corso degli eventi e lui volgeva la sua attenzione altrove, ma cosa poteva essere degno dell’attenzione di Lucifero? Chi lo stava disturbando? A vederlo non pareva così mostruoso come era sempre stato descritto sin dalla notte dei tempi. La carnagione di un colorito non dissimile da quella umana, mostrava al tatto una durezza eccezionale ma era anche ruvida, ispida, questo perché odiava lasciarsi toccare. La sua bocca, invece, più grande del comune, affusolata e dai lineamenti definiti, le labbra sottilissime, di un colorito violaceo lucente. Quando apriva la bocca per parlare, cosa che avveniva molto di rado, mostrava denti aguzzi ma non più grandi di quelli umani, si diceva che il suo morso fosse avvelenato e che potesse falciare di netto un braccio o una gamba con un solo colpo. Amava la carne e se ne nutriva avidamente, non per necessità di alimentarsi, ma pensando al dolore che avrebbe inferto alla sua vittima provava gusto, quasi avesse fame. E poi quegli occhi: di un colore che nessuno poteva aspettarsi, così azzurri, limpidi e chiari, quasi fossero mare e cielo insieme, che infondevano pace e quiete ed in cui ogni uomo si perdeva, tanta era la loro bellezza. Egli ripugnava i suoi occhi e odiava esservi guardato: quando questo accadeva, il terrore delle sue vittime si tramutava in pace e sollievo. No, questo non poteva tollerarlo e chiunque inchinava la testa dinanzi a lui, non era concesso di alzare lo sguardo verso il suo volto.

    Gli inferi: un paesaggio desolante, fatto di ammassi rocciosi ispidi, grandissimi. Alcune di queste rocce erano state scelte da lui in persona, perché vi fosse ritratto il suo volto e quello delle bestie e dei demoni a lui più fedeli. I volti:enormi e parevano ravvivarsi quando li si osservava, gli occhi di ognuno incavati nella roccia, sembravano senza fine. In essi, si diceva, Lucifero decideva di destinare alcune delle sue vittime all’oblio eterno, un mare sconfinato di buio e tormento, in attesa che decidesse cosa farne. I denti, ricavati tra le rocce, erano acuminati per trafiggere le anime lasciate a marcire come trofei di guerra. Non esistevano sentieri, tutto plasmato secondo il suo volere, piante o fiori non trovavano posto in questa landa. Tuttavia, una sola specie resisteva all’aridità di questa sterpaglia e al terreno bruciato e sterile, una sola pianta riusciva a germogliare e a conferire quell’aurea di diversità e di ribellione che altrimenti sarebbe stata inesistente, la zoesia. Questa piccola pianta rappresentava proprio la voglia di aggrapparsi a qualsiasi cosa per sopravvivere, anche alla disperazione, per questo Lucifero la ammirava e lasciava che germogliasse dove poteva; egli concedeva che una forma di vita nascesse e comprendesse che non vi era speranza. La sua ammirazione era dettata però da un potere oscuro, un potere che lo stesso Lucifero invidiava: ogni volta che il fiore nasceva, si legava alla vita di un’anima predestinata; più il fiore lottava e soffriva per vivere, più sarebbe stata sofferta e tormentata la vita dell’anima.

    Dunque, lui non saggiò mai tali poteri e pensò «credo proprio sia giunto il tempo che tu ti renda utile, per centinaia e centinaia di anni ho lasciato che tu vivessi, ho sopportato la tua presenza così ostile e fastidiosa, adesso compirai il tuo dovere.» Quindi strappò un fiore ed una fitta acuta gli attraversò le membra, facendogli provare per alcuni istanti quasi dolore: iniziò a ridere malvagiamente e con insistenza, chissà quale anima stava urlando di dolore. Tuttavia su di lui non aveva effetto, seppur un insignificante fastidio nelle interiora aveva percepito, chiuse il pugno, facendo del fiore una misera poltiglia e ragionò. «Si, niente male, davvero degna della leggenda che ti accompagna, ebbene sarai il mio strumento di morte, ho bisogno di te.» Lasciò cadere quei petali a terra, si voltò e si diresse di nuovo verso il suo trono, il manto nero lucido lo copriva dalle spalle ai piedi, era davvero maestoso, si sedette al suo posto, congiunse le mani e vi appoggiò il mento sopra, «è il momento, non posso più attendere.»

    Capitolo 5

    Lorian era rimasto sconvolto dall’ultima notte, sebbene non avesse chiuso occhio era consapevole che qualsiasi cosa gli avesse parlato fosse lì, con lui, a tenerlo sveglio. Prima non era mai successo: i contatti avvenivano solo in sogno ma adesso era stato diverso. Quell’ultima notte, la forza che lo costringeva ad ascoltarlo era talmente forte da non poter resistere, ma soprattutto era una voce disperata. Sapeva che la sua non era follia, non aveva altre spiegazioni:chi gli aveva rivolto la parola doveva essere Dio; una voce al di fuori dello spazio e che proveniva da ogni punto, mai minacciosa, ma invece amorevole. Sebbene si sforzasse di comprendere il significato di quei lunghi discorsi senza riuscirvi, di una cosa era sicuro: non era pazzo e realmente qualcosa lo stava cercando.

    Tuttavia decise di non farne parola con Dalia, aveva il sentore che le visioni fossero finalmente cessate e che la sua vita potesse riprendere con la consueta normalità per il bene suo, ma soprattutto della moglie. «Ti ho già detto di no e poi no! Lo sai che non ho tempo da dedicare a queste cose e poi i fiori non mi piacciono, le rose pungono e vanno accudite e annaffiate e poi mi dici che ne vuoi un campo intero! Non se ne parla!» Dalia lo osservava con aria dispiaciuta, ma era solo un arma che di solito usava e se ben ricordava funziona sempre, bastavano alcuni secondi di silenzio a fissare il terreno e…«E sia, cavolo, possibile che non riesca mai a dirti di no? Che strano sortilegio mi hai fatto?» «Ti ho stregato con il mio fascino, mi sembra ovvio!» I due si osservavano compiaciuti, per poi conversare più seriamente, ormai il pancione di Dalia era abbastanza grande e si trovava al settimo mese, per la nascita voleva il suo campo di rose, in fondo glielo aveva promesso tempo fa. «Un giorno ti farò un bel campo pieno di rose rosse e sarà tutto tuo.»

    Ora era giunto il tempo di onorare quella promessa. «Allora signora, comincia a prendere quelle sementi che hai comprato, il terreno tra un po’ sarà pronto e avrai le tue splendide rose, splendide come te.» Erano passati appena venti giorni da quando il lavoro di semina fu concluso, il campo era tutto pulito con i solchi disposti ad intervalli regolari, dritti ed allineati, il tutto recintato da un piccolo steccato di una sessantina di centimetri di altezza. Dalia lo osservava innaffiare le piccole pozze di terra che in breve si riempiono di acqua limpida, davvero Lorian era bravissimo nel suo lavoro, non aveva pari e anche dopo tanti anni, lei ancora si meravigliava di come il suo uomo sapesse fare mestieri così gentili e delicati, nonostante le sue grosse braccia e le mani sempre solcate da ferite. Lorian osservava attentamente le piccole pozze d’acqua e controllava che non crescessero pure inutili fili di erba, i quali avrebbe strappato via per lasciare tutto pulito, lui era così: se una cosa non gli andava non la faceva, altrimenti ci metteva tutto il suo impegno e talvolta otteneva risultati straordinari. Ormai era tarda sera, era domenica e Dalia non voleva che si stancasse troppo, gli aveva già chiesto molto e si sentiva in colpa per non averlo lasciato riposare almeno un po’. Si diresse verso di lui, alzandosi dalla piccola seggiola che il suo uomo le aveva costruito, intagliando un fusto di abete e seguendo un disegno che lei gli ha fatto; l’aveva realizzata proprio come voleva lei. Lorian, in fondo era pure un bravo falegname, aveva certamente ripreso dal padre. «Amore andiamo, a cena, ora basta, domani devi levarti di buon ora! Non voglio che ti stanchi troppo.» «Ehi! Mica i fiori nascono da soli, si deve faticare, te lo avevo detto! Poi lo sapevo che sarebbe toccato a me! Ecco fatto, per oggi è finita, però dovremmo iniziare a vedere qualcosa, che ne pensi?» «Certo amore, sono sicuro che il tuo lavora sarà ripagato, già immagino questo terreno ricoperto di un bel manto di rose rosse, soffici e delicate, poi ci penserò io ad innaffiarle!» «Bada Dalia! Che lo hai promesso! Io le semino e tu le annaffi! Adesso il contratto è siglato!»

    Erano proprio una splendida coppia, mancava solo un figlio, si abbracciarono e tornarono in casa, era il momento di lavarsi, cenare e coricarsi, l’indomani qualche piantina sarebbe spuntata: Lorian ne era sicuro, aveva troppa esperienza e aspettava con ansia di mostrare il frutto delle sue fatiche a Dalia. Domani però, adesso era tempo di riposare.

    ***

    «Tesoro, tesoro! Corri vieni! Le rose!» Era ancora presto in casa ma Dalia non ne poteva più di trattenersi e all’alba si piazzò fuori di casa, sicura che con la prima luce del sole sarebbe successo qualcosa: il primo bocciolo di rosa, anzi, due boccioli erano nati, il lavoro di Lorian iniziava a dare i suoi frutti. «Cavolo ma non è ancora ora di levarsi, non vedi che il sole non è sorto? Che dici? Ah! Le rose, sono nate!» «Si! Grazie tesoro, grazie davvero.» Il giovane osservava gli occhi di sua moglie, sembrava incredibile come un gesto così semplice la rendesse felice, lei era sempre stata così, non chiedeva mai nulla e si accontentava di nulla, ma ogni volta che lui faceva un gesto per lei, veniva ringraziato con un sorriso sincero e due occhi che si commuovevano: non le aveva mai detto di questo, ma era stato proprio tale particolare a far innamorare Lorian. «Beh, che credevi? Bella fiducia a metterti qui di fuori ad aspettare! Dubitavi che qualcosa sarebbe nato, donna di poca fede?» I due si guardarono, Dalia corse ad abbracciare il suo amato, nulla li avrebbe divisi. Impazienti, aspettavano solo quel figlio tanto voluto che avrebbe finalmente reso completa la vita di un povero ragazzo, contro cui il destino si era accanito sin dalla nascita.

    Per quel bimbo avrebbe lavorato ancor più sodo, sarebbe stato una persona ancora migliore, si sarebbe rialzato da ogni ostacolo più celermente e sempre con il sorriso sulle labbra, perché la speranza non venisse meno, mai, e perché potesse vivere una vita serena, tranquilla e divenire un uomo migliore di lui, di cui la gente parli nel bene e che compia atti di bontà e carità. Affinché il suo animo si nobilitasse e Dio lo accogliesse nel regno dei cieli, come spetta di diritto a ogni animo puro. Questo pensava per suo figlio. Lorian salutò sua moglie, prese il fardello che le aveva preparato e andò al lavoro più voglioso e allegro del solito. Immaginava dentro di se lo stupore di Dalia nel vedere che di li a poco le prime rose sarebbero definitivamente sbocciate, secondo un rapido calcolo già l’indomani mattina; chissà la faccia di lei, che non sapeva nulla dei tempi di fioritura delle rose e non si aspettava che fossero pronte così in fretta. Lorian comprendeva che l’attesa sua e della sua amata, non era tanto per le rose, quanto per la splendida creatura che stava per venire al mondo, ma in fondo le rose potevano servire a far pratica. Rideva dentro di se all’idea, poi riprese a testa bassa a concimare il terreno, doveva finire in giornata, l’indomani ci sarebbero state le pannocchie di granturco da raccogliere e non si poteva far aspettare Lord Tolon. Egli era uno dei più facoltosi uomini di Roxville e anche uno dei più gentili ed umani; si diceva che ogni anno destinasse un quinto dei suoi ricavi alla parrocchia del paese, perché i denari potessero essere impiegati per le genti meno abbienti, ma queste erano voci, lord Tolon non voleva che il suo nome venise fatto, non amava la mondanità né faceva vanto dei suoi possedimenti.

    Lorian, per tali motivi, lo stimava molto e accettava di buon grado il fatto di prestare servigi ad un uomo di tale bontà. Soprattutto ad un uomo che come lui conosceva la sofferenza: difatti lord Tolon perse tre anni fa sua moglie Marion, e da quel momento sembrava essersi chiuso in un riserbo totale, nel più assoluto silenzio, fatto di ticchettii di orologio, fuoco che crepitava tutto il giorno e profumo di pipa che inebriava il salone, in cui era solito ritirarsi per ore ed ore in silenzio, a pensare. Lorian comprendeva benissimo quanto costui soffrisse e provava una profonda pena, tuttavia non aveva mai osato avvicinarsi più di tanto né aveva provato a rivolgergli una parola in più del concesso, per evitare di disturbarlo, di innervosirlo o fargli evocare ricordi che forse cercava di seppellire. Ma lui conosceva bene quello sguardo, in esso si rivedeva e si perdeva, sapeva che nulla e nessuno poteva far sparire quanto di brutto restava stampato nella mente, ma soprattutto nell’animo. Rifletteva su questo quasi tutto il giorno, tanto che si fecero le sei di sera e fu quasi il momento di rincasare; il ragazzo trovava incredibile come il tempo passasse ed ancor più, era incredibile come avesse svolto tutto il lavoro quasi senza peso, con le mani che andavano per conto proprio, senza il controllo della mente, mani che sapevano cosa fare; a volte si stupiva di se stesso. «Dalia, amore, sono tornato! Che hai combinato og….», «Dalia, che ti succede?» La ragazza giaceva vicino al letto ansimando e trafelata di sudore, a fatica aprì gli occhi e tenendosi il ventre con ambo le mani ebbe la forza di dire, «nulla amore, nulla, solo un mancamento, questo monellaccio non ne vuole più sapere di starsene buono!» Il volto di Lorian sembrò rilassarsi appena, ma non abbassò l’attenzione e corse in contro alla donna, sollevandola dolcemente e sdraiandola sul letto, quando vide Dalia assecondare i suoi movimenti si tranquillizzò e infine, con il suo solito piglio, come per rallegrarla,«insomma, vuoi proprio farmi venire matto tu! Ti avevo detto di non affaticarti e di stare a letto, ti prego dammi retta o mi costringi a non andare più a lavoro sino a quando questo monellaccio non verrà fuori!» Questa volta Dalia non ebbe molta forza di ridere, ma ci provò lo stesso, quindi guardando il suo uomo negli occhi con un filo di voce gli sussurrò, «volevo preparati la cena, ma non ci sono riuscita, mi disp…», l’uomo le sfiorò le labbra con un dito e oscillando la testa lentamente rispose,«ma se sono sempre io quello che cucina la sera!»

    Improvvisamente Dalia cercò di alzarsi, corrucciando la fronte,avrebbe voluto tanto dargli un ceffone ma era talmente dolce: lo baciò soltanto, lentamente, stasera toccava proprio a Lorian cucinare ma le operazioni sarebbero state guidate dalla moglie. L’indomani il marito si levò di buon ora, non permetteva assolutamente che la moglie si alzasse prima per preparargli la colazione, era però attratto dalla finestrella che dava sul cortile, quella delle rose e affacciandosi notò con gran sorpresa che era nata: una sola rosa però e bianca per di più, ma qualcosa era strano, lui conosceva bene le rose e quella non la convinceva tanto. Uscì fuori per osservarla da vicino, non ebbe più dubbi, non era una rosa ma non sapeva con precisione cosa fosse. Venne assalito dal dubbio di aver sbagliato i semi, eppure conosceva molto bene i tipi più comuni, spesso li usava e sapeva di non aver sbagliato, forse era capitata per errore tra le altre; si questo doveva essere successo. Guardò la moglie che ancora dormiva, non l’avrebbe svegliata, ma farsi prendere in giro per non aver saputo riconoscere un seme in mezzo a tanti, proprio non gli andava giù. Si chinò sul piccolo fiore, gli spiaceva di doverlo togliere ma era un campo di rose e voleva che per sua moglie fosse stato perfetto, quindi lo colse. Un fastidio quasi fisico sembrò attraversarlo sin nel profondo, sino a giungere alle ossa, forse fu solo un'impressione. Si stava facendo tardi, doveva correre al lavoro, oggi lo aspettava lord Tolon, non vedeva l’ora di incontrarlo. Tornò dentro, osservò la moglie sul letto, non la svegliò e le baciò dolcemente la fronte, quindi uscì socchiudendo la porta.

    La flebile luce del mattino varcava le piccole finestre della casa di Lorian e in pochi attimi tutto fu illuminato:le mura, i quadri, il pavimento, erano accarezzati dal tepore dei raggi del sole ed infine il viso di Dalia: la luce lo illuminava e la sua pelle sembrava cambiare e divenire ambrata, tenue, delicata, morbida com’era quando Lorian l’accarezzava ogni mattina, osservandola mentre la luce eseguiva il suo rito giornaliero. Lui era sempre li ad ammirarla, mentre lentamente apriva gli occhi che di quella stupenda luce si riempivano, poi corrucciava la fronte a far capire che di alzarsi proprio non ne aveva voglia e aspettava quel momento ogni mattina, è il suo modo di dirle buongiorno. Questa mattina, però, lui deve andare, più presto del solito e non ha modo di dirle ancora una volta quel buongiorno, oggi più che mai tanto importante.

    ***

    La luce del giorno dolcemente arrivava e poi andava via, spegnendo la magia della vita, così le mura tornavano di un colore cupo, il pavimento di faggio sembrava di colpo invecchiato, il viso di Dalia era scuro e si confondeva nel crepuscolo della sera, pian piano svaniva nell’ombra. «Dalia, tesoro, sono tornato, ma le candele? Mica le hai finite di n…», Lorian non completò la frase e aprendo la porta si trovò dinanzi la scena più raccapricciante della sua vita: la moglie giaceva sul letto così come l’aveva lasciata la mattina: nemmeno un lembo di lenzuola si era mosso, nemmeno un piccolo respiro si udiva nella stanza cupa.

    Non poteva aver dormito tutto quel tempo ed essere rimasta lì immobile; come sopraffatto da un terrore smisurato e da una paura folle e pazzesca corse verso la donna, appoggiò sul petto la testa perché potesse udire i battiti del suo cuore: nulla. Quindi le dita sul collo come aveva visto fare più volte al medico del paese, quando i suoi compagni di lavoro, stremati dalla fatica, si sentivano mancare: prendere le pulsazioni serviva a capire se il cuore era in affanno, ma ancora niente. Tutto era fermo, immobile, così impossibile. Un urlo disperato che squarciò il silenzio si levò nelle campagne intorno, gli uccelli scapparono dai ramoscelli su cui erano coricati, persino il cielo, nella sua immensità sembrava piangere: iniziò a piovere e quell’atmosfera irreale assorbì il povero ragazzo: prese in braccio la moglie, sfondò la porta con un possente calcio e corse, corse. Forse la speranza di salvarla e trovare il dottore, forse uno svenimento, forse poteva essere qualsiasi cosa, ma non morta, non poteva morire, non c’era motivo né lo avrebbe permesso. Il percorso era breve, il sentiero lasciava intravedere la piccola dimora del dottore, seppur in lontananza; ad ogni passo la figura minuta della casa diveniva più grande e distinguibile, Lorian già cercava con lo sguardo la sagoma dell’uomo, sperando di scorgerlo.

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