Club Ferraro
Di Angelo Torre
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Anteprima del libro
Club Ferraro - Angelo Torre
intelligente
I
- Paolo, alza, rimbalza, straccia argomenta questa musica sgomenta che rammenta il tempo amico.
- Non va bene questo volume per le tue orecchie? Era un energumeno di un metro e novanta, scontroso, iroso, prescioloso. Cantava e ballava dietro a note acute e scarpe comode ginniche per l’assioma di una donzella nel più bello del suo ascoltare. Era mal disposto a stare accosto all’ordine in disordine. Mentre arrovellava a manovella su pensieri semiseri e anche un po’ sensuali. Un pizzicorio all’inguine intercalava il movimento per un memento coreo al perigeo.
- Non fare il difficile… Alza il volume, voglio sentire il ritmo di questo rock. Apostrofai caparbio con albio bio contrario all’indirizzo dell’interlocutore.
- E’ già al massimo, posso variare i toni. Vuoi ?
- Vieni in mezzo alla stanza, ascolta l’effetto stereo, anche se la testa voltola nel buio.
- Il vinile è stereo? Accampò Paolo con una sensazione pruriginosa che lo teneva vigile a margine della gamba veloce con sturbo ieratico per un assioma aulico.
- Così ha detto Fiorello.
- Vengo…. Voglio sentire l’effetto.
- La senti la batteria come ritma frenetica?
- Si! È potente! Esclamò.
- E le vibrazioni del basso?
- Eh… come sei meticoloso. Proseguì Paolo, esponendo le sue remore col tentennare della voce che assunse una tonalità d’ombra marcata color castagna – erano marroni - al momento di raccoglierli, cioè tra l’erbetta del prato a far compagnia alle radici che uscivano tra il trifoglio, la gramigna, e l’erba medica formata di soli due fili e quindici foglie contrapposte come l’indice e il pollice di una mano mancina di un aborigeno australe. Un aborigeno è anche lui un autoctono come l’albero di castagno che da chissà quanto tempo attorto o dritto dirimpetto al suo cospetto è in quello scorcio di radura.
- Bisogna sentirla con l’anima la musica. Aggiunsi nel momento in cui ripresi con un morfema alticcio quanto avevo espresso col passare delle ore. Le gambe facevano giacomo, giacomo, il bacino molle, gli occhi spenti e la mente audace con l’indole indomita per una meta non distante ma conturbante di cui non avevo contezza ma semplice contentezza.
- L’Anima è del diavolo. Continuò Paolo con una faccia ilare e pacioccona.
- L’anima è l’io che ascolta, e la musica è la rappresentazione massima per l’udito! Esclamai.
- Non fare il filosofo. Disse Paolo a disagio, ma ritmava con il corpo assecondando la musica.
- Dai così ….così…. sii partecipe. Proseguii convinto della bontà delle mie teorie.
- E la chitarra non ti piace come suona. Disse arguto.
- Vedo che ti stai immedesimando.
- La chitarra mi entra nell’orecchio. Gridò Paolo con un lezzo pernicioso senza la pazienza e con poca riverenza e senza alcuna deferenza ma col vocione impastato dall’alcool mesmerico che aveva introdotto in pancia tra l’ileo e l’intestino tenue.
- Vai ….Vaaaaiiiiii…Gridai ormai preso dall’atmosfera ritmica e assordante ammorbando anche gli spetri auricolari.
La musica, esalando onde impalpabili di suoni conosciuti, esaltava la percezione dei neuroni, inondando la stanza, smerigliando i pavimenti, accarezzando imposte, flettendo sulle finestre, avvolgendo i soffitti, mentre io e lui andavano a ritmo di rock con quel disco dei Deep Purple che frenetico si avvolgeva nello stereo al lato destro della sede del club, affittato da poco.
Paolo vorticava con le gambe, su, giù, su, giù, su, giù, su, giù, come tante escrescenze di un vegetale non presente tra la flora conosciuta. Era un nuovo essere tra le attese di una consistenza sonora e una reminiscenza tra neuroni retti da scompenso di diatriba alternata da senso di scala armonica di note sconosciute. Andava avanti e indietro, ancheggiando col bacino, batteva le mani, roteava la testa, scompigliava i capelli, lunghi, e lisci, biondo rame, con aloni di nocciola, quantunque il fiatone si facesse sentire con la mancanza di una porzione d’ossigeno all’altezza degli alveoli e per la birra bionda che dava azzurro cromo al domo delle possibili invettive cui stava dietro Pietro assente ingiustificato. Non prezzava l’apnea, diventava rubizzo sclerotico ostico e mordace e senza pace e imperterrito continuava. Captava il movimento delle orbite delle pupille a mille tenendole ora chiuse ora aperte tra coperte di maldestro estro troppo giovane, entrando nello spirito assordante e invadente di quelle note ondivaghe che rifrangendosi nelle pareti tornavano al punto d’origine frastornate per i bozzi presi durante l’impervio percorso a dorso di un’umanità non consapevole della bellezza e dell’armonia dei suoni. L’atmosfera avviluppava i corpi, le menti, la testa leggera di noi stessi nell’io recondito da aulico senso del piacere mischiato ad alcool e assonanza che balza nella danza, per seguire le onde sonore, dei nostri sensi, protesi nello sforzo ameno dell’ascolto.
Io ballavo di fronte a lui con ritmo forsennato, i capelli al vento, la bocca aperta per sorreggere il respiro, le gambe flesse e le mani alzate con fare ritmico e modulato.
- E’ bello, non è vero Paolo? Dissi con quel poco di voce che avevo ancora in riserbo.
- Bellissimo. Rispose e girò intorno a me con fare frenetico per un paio di volte, mentre oltre al ritmo seguiva la scansione in inglese incomprensibile della canzone.
- Non doveva venire anche Fiorello questa sera? Dissi un po’ sorpreso per quell’assenza ingiustificata.
- Ho paura che la nonna lo abbia trattenuto per la barba incolta presa col fermaglio di maglio androgino .
- Lo sai la gente anziana è apprensiva. Si preoccupa per un nonnulla. Gli adulti berciano parole vane, anche se si va a prendere dal lattaio per un litro di bevanda biacca che rimarca il sapore del buon’umore. Faremo a meno di lui. Dissi rattristato non per l’assenza ingiustificata. Avevo perso il bicchiere pieno senza fieno o paglia che raglia al mio cuore impavido.
- Non ci pensiamo …. Godiamoci questa musica. Accennò baritonale e non banale, Paolo, dal viso ammaliante.
Il vinile nello stereo, un disco trentatré giri del complesso inglese in voga in quel periodo, suonava assordante e coinvolgente fino a quando la puntina non oltrepassò la scanalatura dell’ultima nota reboante. Poi fece una breve pausa. Riprendemmo fiato e asciugammo il sudore che imperlava la fronte. Un fruscio inondò la stanza per qualche secondo. Le note ripresero possesso dello spazio, veementi e coinvolgenti. Il secondo brano: un Rock duro, ritmico, dirompente, incomprensibile, ameno, produceva un’atmosfera aggrovigliata, policroma, che trasportava le nostre menti nei meandri più reconditi dell’io, ove erompeva un’aria rarefatta espressione di una volizione tendente all’anelito femmineo.
Ci togliemmo la maglietta, e restammo a torso nudo. La temperatura esterna era sì gradevole, ma non tale da essere sopportata dai nostri corpi nudi a metà, riscaldati solo dal movimento incoerente e immanente.
La finestra aperta dava sulla stanza illuminata con dei lampioncini colorati, rosso, blu, verde, arancio, terra di Siena. Agli angoli del locale, a ridosso del soffitto, un candido biancore filtrava dal retro dei fari che, colorati in modo non uniforme, lasciavano trasparire dei rivoli di luce opalescente e trasparente che riverberavano nell’interstizio visibile solo a un attento osservatore.
Dei contenitori delle uova incollati gli uni accanto agli altri, butterellavano la parete destra grigio topo coeso per attutire il fragore della musica, tisica, tossica, assordante per l’abbondante incontenibile rito irascibile incomprimibile, con un’efficacia infima, sì che molti attorti e svelti si chiedevano indisturbati dell’assenza di coagulo necessario all’utilità dell’architettura matura a una iettatura policroma.
La sera, noir con fascio a scia lascivia di luna piena, abbondante e ammorbante il villico prezioso ozio delle libellule sul lato occidentale del cielo, emanava un color latteo da Teo ieratico e consenziente verso Vincent, emanando una fluorescenza attonita sui tetti e sulla vegetazione a trazione implodente per ricostruire i contorni delle figure sia fossero alberi, case, uomini, carretti, siepi, uccelli notturni, o lampioni. In verità questi ultimi contrastavano col bagliore migliore le giornate fulve e prelibate per gli orpelli dei garganelli dei fuochi fatui e le linee dell’orizzonte all’inizio dell’Orsa Maggiore andavano oltre la magione di maggio saggio e a ponteggio per un maneggio da panegirico per sfumare gli oggetti adiacenti o vicini, non solo nei contorni ma anche nella loro flebile corposità, rischiarando i colori delle cose per lo meno nell’ambito d’influenza della loro fluorescenza.
Uno di fronte al Club quella sera combatteva le luci iridescenti con fasci onniscienti sortiti raminghi e solitari dalla finestra grigio perla per la merla della notte che tutto inghiotte nera china orribile fino all’indicibile. Andavano a rischiarare la strada, il chiasso, lo sdrucciolo di Eolo a riposo per non alzare la benché minima pagliuzza penna fuscello foglia gomitolo di polvere al solvere della solerte sorte prima della classe con aloni differenti secondo l’implodere del lux accesa. Un po’ sbiadita al contrasto casto con la lucentezza del lampione da copione di commedia satirica per riprendere la scelta nell’atmosfera a sfera ampia e ammaliata con un chiarore sfumato ai lati delle imposte caste e all’altezza del viale ove il lucore della stanza musicale incideva in modo moderato e attardato da iato paludato.
Una coppia di residenti un po’ anzianotti, a passo svelto, cercava di raggiungere la dimora. Si sentirono degli apprezzamenti negativi.
- Cosa si sono messi in testa questi ragazzi? E di rimando la donna al suo fianco:- Questa gioventù non né può più, dimmi tu cosa c’è di più.
Dall’interno del locale non banale le parole eiaculate con bon ton, tuttavia ferme da terme auliche, senza eccesso di ammasso grasso, ammettevano interiori algori per dei semplici sibili ininfluenti nel ritmo e nelle preoccupazioni. Le lasciammo correre come i due autoctoni tra atoni di toni fermi e ieratici.
- Hai le sigarette a portata di mano? Dissi a Paolo con impazienza.
- Sì… ne vuoi una? - Rispose
- Grazie ... io, oltre alla musica, desidero il fumo e il corteggiamento di una nota acuta come uno spillo vermiglio arroventato per fare i buchi alla trama brama del fumo noir terso nell’aer disperso. Aggiunsi soddisfatto o rotto da un pensiero araldico.
Andò sul tavolo dello stereo e prese due sigarette dal pacchetto poggiato alla sinistra dell’apparecchio vecchio come le tavole di noce con due gherigli da coniglio sveglio e disse con mosse stupide da accordo sordo e stonato: - Vieni, tieni, prendi, acchiappa, intasca il losco fumo.
Afferrai la sigaretta con l’indice e il pollice tra le corrugazioni delle impronte digitali senza ditale a proteggerle e la misi nel cavo orale sapido e ambente al referente e aspettai Paolo per accendere. Una fiamma stanca ma brillante fece intravedere anche l’occhio vischio mentre la mia e la sua già sulle labbra prendevano fuoco e ardevano il tabacco arrotolato.
Io inspirai una lunga boccata di fumo. Fece divampare la brace sul biancore della carta avvolta con un colore carminio e viola. Il fumo scese lungo la trachea e invase i miei polmoni solleticando gli alveoli e dandomi un senso di piacere e di formicolio benevolo e persuasivo. Espirai dal naso e dalla bocca un fumo denso e cinereo. Salì fino al soffitto sulla verticale della mia testa perché non vi era vento o aria che transitasse all’interno della stanza. Ci fermammo un istante a gustare il fumo delle sigarette e smettemmo di ballare. La musica ritmava nell’ambiente da sola come ad attendere che le sedie, il tavolo, i dischi poggiati a fianco dello stereo, fossero partecipi disinvolti, coscienti e animati per quell’atmosfera densa e spettrale tra il variare del lucore sulle pareti, che desse sprizzi di spazio diversi, e contrapposti, secondo il faro che proiettava, e l’assenza di quell’umanità dedita all’abbrivo di tenore opposto al ludibrio delle nostre aspirazioni.
II
Noi, giovani impenitenti, una domenica di primavera, uscimmo dalla porta laterale dell’unica chiesa consacrata del paese per andare a ridosso della facciata principale. L’edificio, una costruzione degli anni 50, aveva una facciata tutta in pietra arenaria bianca, levigata, e senza escoriazioni o abbrumature, un rosone centrale ovale dal vetro opaco, una struttura triangolare a punta con una croce in metallo formata da una lega di bronzo di colore nero avorio, tre portoni d’ingresso, di cui uno centrale, imponente, in noce ben conservato.
Un sagrato rettangolare insisteva nella parte alta, pavimentato con mattonelle bicolori; delle scale bianche in pietra scendevano verso un pianerottolo intermedio più piccolo del primo, con pavimentazione in mattonelle a rialzo vermiglione, poi continuavano a scendere convesse ai laterali e svasate a ridosso della sede stradale. La gradinata era racchiusa entro un muro sormontato da dei lastroni quadrati di pietra arenaria bianca a copertura dei laterizi.
Ai piedi della scalinata lo spazio diveniva ampio con un asfalto grigio bituminoso e declinava verso le case della piazza, di formato irregolare. Dalla piazza strade e stradine s’irradiavano piane e flessuose andando a intrufolarsi tra le case del borgo formando, ora una curva stretta e spigolosa, ora uno slargo dove insisteva una fontana, ora procedendo dritta e tagliando in due le costruzioni, ora peregrinando come un mendicante sazio che s’incuneava tra lo spazio infimo lasciato da due abitazioni confinanti. Qui il pellegrino posava indisturbato due cartoni per passare la notte. S’incrociavano quelle che scendevano dal pendio della collina da dove scorreva caracollando l’acqua lungo i rivoli dopo una burrasca settembrina.
Fiorello, ultimo di una folla di fedeli, scendeva impettito, sognante e gongolante dal portone laterale con un pantalone a vita bassa a zampa d’elefante e una maglietta a fiori bianca e rossa a mo’ d’infiorescenza all’altezza dei muscoli del petto. Con capelli riccioluti folti, neri, ben pettinati, procedeva ora guardando davanti e ora sbirciando il folto gruppo della piazza mostrando a un metro di distanza il suo io dentro un trespolo di canestra in cui si potevano poggiare pensieri semiseri ma sempre poco acculturati per non tradire la presenza con l’assenza di una scolarità non ancora giunta a maturazione. Aveva un ritegno pregno di contegno al limite dello scompenso denso ma melenso verso se stesso e, verso chi di presso, attendeva compresso e perplesso per quel che vedeva entro il volto distolto di quell’accolito e insolito iracondo avanzare verso il centro della piazza per incontrare me, Pino, Raimondo, Paolo e Lino. Il primo era, aguzzo, snello, con un fare disinvolto tratteneva le inibizioni nell’ambito di un invito disincantato da fare il paio con un palato conclamato nell’ambito dell’ordito tracciato tra gli accoliti nel ramingo protrarsi della compagnia. Il secondo, Raimondo, della stessa altezza de primo, più in carne, assumeva la scioltezza di un avvezzo alla favella snella, anche se si palesava timido e inibito quasi avesse subito l’invito di una miriade di ragazze tutte dedite a circuirlo quasi a voler finirlo e non lenirlo dalla sua mancata sfrontatezza per non chiamarla riservatezza. Il terzo, Paolo, - lo conosciamo - sa’ ballare oltre che sballare mentre saltella sul più bello. Un ragazzone con infingardi e maliardi schizzi e frizzi nell’ambito di un carattere testardo da far il paio con un pardo nell’ambito di una sfida, avita, con parvenze di acidula esegesi nell’ambito del depauperarsi per i suoi magri averi da essere l’opposto di un re mida nell’ambito del suo avido vagabondare tra le strade del borgo quasi fosse l’iconografia di un orbo, furbo e peculiare nel suo da fare entro la sua riottosa scontrosità. Il quarto, Lino era il più onesto dei coetanei. Quasi mai molesto nel rappresentare le sue circonvoluzioni cerebrali che andavano tra un ipogeo sulfureo o ottenebrato e un iperuranio siderale senza eguali. Disposto tra gli strali nell’ambito di una galassia nebulosa tra una chiosa e una grande area di risulta. Ci avviammo verso il lato sinistro della piazza per fare una passeggiata per tutta la lunghezza del paese. Occupavamo la strada per circa la metà della corsia in ordine sparso, chi avanti, chi indietro, chi non ancora allineato per procedere verso il senso prefissato. Lino al centro di quel crocchio, mal serrato, un pochino ampio, e distrattamente flemmatico, disse: -Che ne pensate se fondiamo un club?
- Che cosa dobbiamo fare? Rispose Fiorello.
- Procurarci uno spazio per il divertimento. Aggiunse Lino
- Veramente una bella idea. Disse Pino: - Non sembra facile, tuttavia, da realizzare. Apostrofando con la mano alta il compagno come a volerlo indirizzare verso la problematica che gli sembrava al disopra di una possibile risoluzione immediata. Lo preoccupava il lato economico per il vezzo alla riserva mentale verso una pigrizia per la spendita di denaro che avrebbe più apprezzamento se denominato con il suo vero vocabolo: avarizia incipiente. Da insipienza sconsolata per l’accidia verso il movimento di mettere mano dentro le tasche intorciniate, dentro le quali una vedova nera aveva fatto una ragnatela per un’inezia di molecole per una sostanza organica di squame espulse dalla pelle incartapecorita per la striminzita aderenza a un’oggettiva laconicità nell’insieme.
- Per quale motivo? Rispose Lino: - Non sarà difficile mettere d’accordo gli elementi della comitiva… E poi, pensa, come sarebbe bella l’estate con un ritrovo tutto per noi.
- …. Chissà quanti sarebbero interessati… e soprattutto c’era da tener presente le difficoltà d’ordine pratico: l’affitto, la pulizia, il divertimento, le ragazze, le fregnacce, le quisquilie, le incombenze tra le riverenze e le impertinenze mai sobrie per l’annoso problema del sistema. Risposi io.
- Che cosa dici. Vaneggi? Celiò Pino
Ci fu un minuto di silenzio. Non era istituzionale, come quello all’Altare della Patria. Un’ape lavoratrice venne a ronzare tra le nostre trombe. Fu cacciata a manate da Raimondo che tondo e fecondo, non restò dietro all’insetto molesto.
- L’interesse sarà corrispondente alle opportunità che potrà, offrici? Ed io ne vedo di opportunità, anzi…. Credo proprio che le ragazze lo vedano come qualcosa di nuovo e tutto da scoprire? Sfrontato Lino. Certo di una certezza lungimirante come una sola rotaia di un tram nella Via Cristoforo Colombo con la corsia di favore chiusa ai taxi che gli facevano concorrenza. Usò un tono rassicurante.
- Uhm… mi sembra tutto nebuloso. E poi siamo stretti con i tempi ….credo! Esclamò Fiorello. Aveva la voce stridula, il pensiero formato in un ambiente di neuroni incerti e divelti dal fumo nel cavo occipitale.
- Non credo che la cosa si possa fare…. Avremo i genitori contro? Soggiunsi. Aggiunsi. Collegai. Unii e tenni stretto. La fonetica all’altezza della certezza.
- Non mi sembra così scontata la volontà contraria dei genitori. E saremo bravi, ossequiosi. Bada a chi non è capace. Sarà crocefisso in piazza. Sarà un coram populo. Osservò Fiorello e girandosi da Pino, disse: - E tu che ne pensi?
- Uhm…… non ho ancora un’idea esatta della situazione, ma sono pessimista. Rispose con un filo di voce che dava il senso della sua titubanza. Era nel suo contegno normale d’avaro conclamato e d’avizzo esacerbato.
- Noi non possiamo essere pessimisti. Disse Lino: - Anzi, dobbiamo crederci, essere convincenti menare agli amici titubanti…... E con i genitori… insistere… premere…incalzare…
- Basterebbe passare la voce… tutti i problemi potrebbero risolversi: un fuoco di paglia in un’alba con sol leone, solo il problema di estinguerlo ci dovrebbe preoccupare. Osservò Pino.
- Possiamo cominciare subito a diffondere l’idea. Soggiunsi.
- E… poi dovremmo cercare una stanza… o una casa in affitto…Precisò Fiorello: - Chi è disposto. Chi si pone a capo fila. Mi raccomando non nascondetevi. Vedo già qualche capoccia dietro la fila. Immaginate che possa essere di……… non lo dico. Lo sapete già…
………….
Pausa! Un riverbero di stanchezza e spossatezza esprime l’inclinazione degli umori e della saliva dei più a non desiderare la corriva via di una panoplia. Più. E più ancora.
- Possiamo pensarci un attimo…. E risolvere le faccende man mano che si presentano. Disse Lino e continuò: - Cercheremo di convincere gli incerti… vedremo se nel paese c’è qualche casa che si possa affittare…. E soprattutto cercheremo di essere uniti nel portare avanti l’idea …. Diciamocelo in faccia mi sembra l’unica idea nuova circolante nel paese e le difficoltà sulla sua realizzazione sono risolvibili con l’impegno di tutti … e soprattutto di quelli che ci credono di più.
- Tu sei ottimista! Esclamai.
- Non ho alcun motivo per non esserlo! Disse Lino.
- Uhm…. Quanta autostima. Osservò Fiorello.
- Dobbiamo essere realisti più del re. Aggiunsi io, rifacendomi a un vecchio adagio popolare.
- Allora cominciamo a pensare alle case disabitate che sono in paese. Aggiunse Lino.
- Con tutte le case vuote, non sarà difficile trovarne una… Disse Pino solerte e positivo rispetto al problema.
Fiorello, dallo sguardo cupo per un pensiero imminente, cambiò la posizione nella fila e venne a inserirsi tra me e Lino, che eravamo un tantino più di lato, a ridosso del marciapiede. Si apprestava ad accendere una sigaretta, quando Lino che non fumava fece una smorfia lo respinse con il braccio e disse:- Non puoi proprio farne a meno…? …E poi siamo in strada per il paese la cosa non t’importa….
- Mi metto dall’altra parte. Rispose spigliato Fiorello e andò verso Pino. Accese la sigaretta con la macchinetta rossa trasparente con il segno del gas a metà del contenitore e aspirò con soddisfazione una lunga boccata, che gli apri il viso, lo dispose bene di mente, e gli fece esprimere una smorfia.
Il sole meridiano a metà della volta celeste riscaldava un cielo azzurro carta da zucchero con un alone bianco sul lato occidentale come un lenzuolo teso per un tratto della volta dalle sembianze di una nuvola piatta e uniforme di color latte e farina, coesa, con bordi ben delineati e tondeggianti.
Pino disse: - Forse ho idea di chi potrebbe possedere una casa disponibile ?
- Si potrebbe conoscere. Risposi con fare allegro e incuriosito.
- E’ un po’ prestino. Osservò risoluto
- Eh…. Non fare lo gnorri tira fuori il nome del proprietario. Dissero per lo meno un paio.
- Al momento opportuno, ora è prematuro. Osservò con arguzia.
- Sarebbe già disponibile? - Chiese Fiorello.
- Sì. …forse sì. Ribatté titubante.
- Né fai un segreto di stato. Osservò Paolo un pochino dispiaciuto.
- Mi sembra prematuro dire quale opportunità si presenta, perché l’idea è ancora un abbozzo. Mancano le adesioni degli altri amici e soprattutto la volontà di volerla veramente affittare per quello scopo. Disse risoluto ed esaustivo Pino sull’argomento che stava incrinando un pochino il nostro umore.
- E poi dovremmo vedere la spesa da sostenere. Aggiunse Fiorello.
- Non è un problema pagare un affitto, siamo in tanti? - Suggerì Lino realista, ma non preoccupato per quella determinazione.
Andavamo a passo lento, virulento, e sonnolento dietro ai più di una gioventù con più problemi che lessemi per essere accosta a manifestazioni contro la famiglia, lo stato sociale, il capitale, l’analfabetismo, e agognando marjuana, alcool, diponibilità e sensualità femminile tra minigonne, scollature, reggiseni, e graziosi imbelletti con i merletti involti. Fiorello quasi un monello si stendeva come un tappeto vergine al virgineo accosto di un prevosto di peli inguinali assai banali, adocchiati di sfuggita in una gita della scuola superiore con discenti acconsenzienti e scolari assai amari e con pulsioni da non poter associarsi a qualcosa di concreto. Con i capelli lunghi e ricci fino alle spalle aveva la fisionomia di un cantante brillante, anche se di peso all’alcool che lo faceva abbrutire verso mezzanotte quando andava ramingo per pagliericci senza picci cercando una donzella anche se non bella. Più avanti, non troppo lontano, all’incirca la distanza di un lanciatore di martello si configurava primo della classe per l’asse di sbieco cui stare dietro senza diffidenza alcuna. Avanza sul marciapiede grigio in cemento con accoste bici, cicli, e carriole intonse, un gruppo di ragazze vocianti, allegre, pimpanti, e acclamanti il tempo in cui potessero vedersi con i ragazzi negli spazi del borgo dediti al ritrovo o solo al passeggio saggio anche di maggio col primo calore a profondere ormoni mai domi, tutte nei vestitini pastello con acconciature grandi dai riflessi neri avorio o castano alonati di oro e nocciola. La distanza ragguardevole, non permetteva di distinguere le parole pronunciate o cincischiate o espresse tra un orpello con fare monello o un complimento a un quadricipite con incipit umorale non banale o un fisico palestrato con lo strato di adipe massiccio strutturato con lo sforzo di un lavoro nei campi dei genitori. Un crogiolo di parole, di domande, di risposte, di risatine, d’ammiccamenti o di suoni incomprensibili, che c’incuriosiva e distoglieva il nostro interesse dal problema principale.
Raggiunto il limite orientale del paese, dove le abitazioni in fila finivano lasciando lo spazio alla strada, che saliva gradatamente tra siepi e terreni verdi bottiglia o smeraldo, con la vegetazione sparsa a chiazze, disposta irregolarmente, come se una mano un po’ confusa avesse preteso di inserire quelle strutture arboree e siepi in ordine sparso tra prati e frumento con colori, rossi, cadmio, ruggine, arancio, verde, guardammo in fondo per vedere se il nostro interesse poteva essere esaudito.
Le ragazze davanti a noi erano tornate indietro. Le incrociammo a metà del declivio, tra l’ombra di una quercia e la cunetta di scolo della strada. Delia ciangottava discinta e balbettando vocaboli incomprensibili per essere escussi inframezzati con un vocabolario criptico e autoptico noto solo alle donzelle belle e fringuelle che non né avevano fatto partecipe noi maschietti e Ornella sorrideva e anzi aveva il cavo orale a denti biacca con occhi brillanti e un seno più grande, una coppa di champagne che si faceva guadare con cura e ammirazione. Era coperto da un reggiseno a balconcino da sembrare un libricino chiuso per l’uso conchiuso al fuso di un occhio bieco se fosse stato il mio che espungeva anche la lingua di fuori a mo’ di Fracchia nelle novelle di razza umana di Paolo Villagio cinematografata qualche anno dopo- (a?) mente – 1981 - 1 ora e trentanove minuti - di conturbante schizofrenico masturbo mentale senza sentimento alcuno. Le salutammo calorosamente e cercammo approcci disparati per carpire il loro interesse. Qualche occhiata maliziosa passò fugace, solerte, e furtiva tra i due gruppi, però non riuscii a cogliere il senso pieno dello scambio. Rimasi nel dubbio e non dissi niente. Le ragazze lasciarono una scia d’effluvi, e fragranze, non solo di gioventù e d’avvenenza, ma anche di profumi tra il muschio e il pino, tra il sandalo e la cannella fresca e trasparente, che colpì le nostre narici come la nostra fantasia. Estasiati. Quell’immagine di diverso, ci accoglieva, ci chiamava, ci aspettava tramite l’interesse che attraeva le nostre imberbi e vellutate menti attraverso il sinuoso profilo di quelle eleganti figure femminili appena sbocciate.
Al bar della piazza ordinammo quattro aperitivi di una marca in voga, bevemmo con foga e gusto per l’ora ormai prossima del desinare e sciogliemmo l’incontro estemporaneo di quella mattinata con l’intento e l’augurio che di lì a qualche ora ci saremmo rivisti questa volta con un argomento nuovo per i nostri interessi.
II bis
La ricerca di un ritrovo per un ambito verso il quale escutere la percezione coassiale che a male a male si poteva sopportare. Spingeva la nostra attitudine a confrontarci, tra un morfema individuale o caratteriale o entro cui lasciare quell’unico silenzio dominato da un punto diverso neutro o monocromatico tendente al noir o al gotico. Entro il quale ascoltare le angustie o le ansie o le malie di un orbace mente in quel momento precedente all’oblio verso un amico o un vacuo raziocinio individuale, aleggiante nell’aria e circuendo l’interesse di. Quel giorno in piazza, nello spazio ampio e coeso con la trasparenza di una discendenza di biacca o ambra dorata, una ragazza algida e solitaria aveva la fragranza della sua organza e mostrava la sua avvenenza con supponenza e circostanza che danzava entro la sensualità della sua amenità in lontananza e con occhio dominate nel traente per una virulenza da ambizione vista già altre volte. I capelli corvini, il viso regolare, gli occhi malevoli erano le coordinate che colpivano il mio intelletto per quel qualcosa di curioso presente e scritto con inchiostro indelebile per la bile vereconda e faconda da dimostrare senza remora e ritegno degno di contegno magno e coassiale sia nei confronti degli adulti sia di noi ragazzi. Lasciai Paolo a fumare mentre si arrabattava coatto con una sigaretta negletta. Feci due passi laterali seppur banali ma consequenziali agli strali mestruali di un imeneo nel segno di un infingardo distratto per un’adesione polivalente e andai dritto verso il crocchio formato da Daniela, Delia e Ornella, giunsi a ridosso della loro fragranza e dissi:- Tu.
Indicandola con l’indice teso e con tutto il peso dei morfemi escussi con ossido di minio arancio e violetto al suo cospetto .
Lei guardò stupefatta e con malizia arguzia e trizia indolenza mentre la saliva si perdeva nel cavo orale e mentre un tentennare della mente aulente le dava un pizzicorio alle nari con spari che si udivano anche a distanza per il fragore che col cuore pulsava con battiti e anditi tutti inviperiti per riti contriti e vanti di eventi di desiderio senza sentirsi in disordine.
- Sì, tu.
- Beh. Fu la risposta.
- Tu mi piaci.
- Tu sei matto, in piazza. Dici certe cose.
- Tu….
- Non ti azzardare a dire un’altra parola che mi tolgo la scarpa e te la do in testa. Capito!
- Daniela! Vero?
- ………….
- Non si risponde.
Fece due passi verso Delia e si coprì con la spalla della compagna e con un mezzo giro si pose di lato ostacolando la mia posizione. Tardava a dire qualcosa e questo mi dava fastidio a non finire. Era su di suo e accosta al suo ego smodato e intrepido col respiro ampio e poco accomodante. Se la riteneva, come suol dirsi. Se la tirava a sua insaputa. O scientemente. Insomma era su un piedistallo in stallo e col castello arroccato da iato paludato. Aveva un modo di fare da sfida infida e trascendente onnipotente verso me che non riuscivo a capacitarmi di tale altezzosità se così vogliamo chiamarla. Altera più di un capitano di ventura o di un vecchio che ne aveva viste di tutti i colori. Tuttavia una bella immagine e quei sui modi di essere non mi dispiacevano. Il fatto che avesse mollato il discordo al mio indice teso, era un tutto dire. Che cosa avrei dovuto fare? Ve lo state chiedendo. Come avrei dovuto agganciare tale grazia, persa nel suo io ipertrofico. Non posso proprio immaginare cosa avrei fatto in quel momento. Rimasi fermo, attonito attento, attesi il consiglio di un amico evanescente o di una compagna che era per lei e non per le mie necessità. Attesi un consiglio opportuno, senza una risposta alla mia domanda. Il cipiglio di Daniela la faceva da padrone e le mie titubanze aleatorie mai superate erano in un’impasse, la narrazione langue. Niente d’originale e senza inchiostro noir china gotico vampiresco. Lasciai il crocchio sull’asfalto grigio perla e con un viso piano tornai da Paolo proprio adiacente all’ultima boccata, aveva finito di fumare e non mi degnava di uno sguardo né consenziente né dissenziente. Lo spazio della piazza si fece stretto e la nostra conoscenza ebbe i primi approcci.
III
L’attività di cura degli animali si svolgeva a ridosso del "Travaglio ". Il vecchietto, non alto dalla testa pelata, dal corpo rotondo, dagli occhi scuri, trasparenti e furbi per l’annoso avere a che fare con i contadini del paese, era