Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Club Ferraro
Club Ferraro
Club Ferraro
E-book461 pagine6 ore

Club Ferraro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Narra la storia di un gruppo di ragazzi quasi adulti che in un paese della provincia italiana si apprestano a fondare un club. il ritrovo escusivo della gioventu' del luogo sara' lo spazio entro il quale si scontreranno le tradizioni secolari di una societa' piccolo borghese e contadina con la volonta' dei ragazzi di autoaffermarsi. il contrasto sociale tra le nuove e le vecchie generazioni e' condizionato anche con la spinta evolutiva delle giovani donne che mordono il freno per andare dietro ai loro compagni. Il protagonista e' dilaniato psicologicamente tra l'empatia per una pimpante e avvenente ragazza del borgo e una turista che viene dalla francia. La bivalenza dei rapporti consumati anche di natura sessuale tiene banco tra gli origli del borgo che non ha un ingorgo ma un ingombro di situazioni difficili da distrigare. L'autore con una scrittura un pochino aulica spinge il lettore a considerare una lettura sopra la media con morfemi e parafrasi che suonano armoniose all'orecchio spingendo vetso un impegno mnemonico che non si puo' preterconsiderare. Superato l'approccio iniziale racchiuso nello stle particolare il diorama della stria si apre sui luoghi e i personaggi del borgo con una vividezza che li fa sembrare piu' realistici di una schermata visiva che non potra' mai avere la profondita' emotiva che emerge dalle inconfondibili pagine di quest'opera.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2020
ISBN9788831684446
Club Ferraro

Leggi altro di Angelo Torre

Correlato a Club Ferraro

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Club Ferraro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Club Ferraro - Angelo Torre

    in­tel­li­gen­te

    I

    Paolo, alza, rimbalza, straccia argomenta questa musica sgomenta che rammenta il tempo amico.

    Non va bene questo volume per le tue orecchie? Era un energumeno di un metro e novanta, scontroso, iroso, prescioloso. Cantava e ballava dietro a note acute e scarpe comode ginniche per l’assioma di una donzella nel più bello del suo ascoltare. Era mal disposto a stare accosto all’ordine in disordine. Mentre arrovellava a manovella su pensieri semiseri e anche un po’ sensuali. Un pizzicorio all’inguine intercalava il movimento per un memento coreo al perigeo.

    Non fare il difficile… Alza il volume, voglio sentire il ritmo di questo rock. Apostrofai caparbio con albio bio contrario all’indirizzo dell’interlocutore.

    E’ già al massimo, posso variare i toni. Vuoi ?

    Vieni in mezzo alla stanza, ascolta l’effetto stereo, anche se la testa voltola nel buio.

    Il vinile è stereo? Accampò Paolo con una sensazione pruriginosa che lo teneva vigile a margine della gamba veloce con sturbo ieratico per un assioma aulico.

    Così ha detto Fiorello.

    Vengo…. Voglio sentire l’effetto.

    La senti la batteria come ritma frenetica?

    Si! È potente! Esclamò.

    E le vibrazioni del basso?

    Eh… come sei meticoloso. Proseguì Paolo, esponendo le sue remore col tentennare della voce che assunse una tonalità d’ombra marcata color castagna – erano marroni - al momento di raccoglierli, cioè tra l’erbetta del prato a far compagnia alle radici che uscivano tra il trifoglio, la gramigna, e l’erba medica formata di soli due fili e quindici foglie contrapposte come l’indice e il pollice di una mano mancina di un aborigeno australe. Un aborigeno è anche lui un autoctono come l’albero di castagno che da chissà quanto tempo attorto o dritto dirimpetto al suo cospetto è in quello scorcio di radura.

    Bisogna sentirla con l’anima la musica. Aggiunsi nel momento in cui ripresi con un morfema alticcio quanto avevo espresso col passare delle ore. Le gambe facevano giacomo, giacomo, il bacino molle, gli occhi spenti e la mente audace con l’indole indomita per una meta non distante ma conturbante di cui non avevo contezza ma semplice contentezza.

    L’Anima è del diavolo. Continuò Paolo con una faccia ilare e pacioccona.

    L’anima è l’io che ascolta, e la musica è la rappresentazione massima per l’udito! Esclamai.

    Non fare il filosofo. Disse Paolo a disagio, ma ritmava con il corpo assecondando la musica.

    Dai così ….così…. sii partecipe. Proseguii convinto della bontà delle mie teorie.

    E la chitarra non ti piace come suona. Disse arguto.

    Vedo che ti stai immedesimando.

    La chitarra mi entra nell’orecchio. Gridò Paolo con un lezzo pernicioso senza la pazienza e con poca riverenza e senza alcuna deferenza ma col vocione impastato dall’alcool mesmerico che aveva introdotto in pancia tra l’ileo e l’intestino tenue.

    Vai ….Vaaaaiiiiii…Gridai ormai preso dall’atmosfera ritmica e assordante ammorbando anche gli spetri auricolari.

    La mu­si­ca, esa­lan­do on­de im­pal­pa­bi­li di suo­ni co­no­sciu­ti, esal­ta­va la per­ce­zio­ne dei neu­ro­ni, inon­dan­do la stan­za, sme­ri­glian­do i pa­vi­men­ti, ac­ca­rez­zan­do im­po­ste, flet­ten­do sul­le fi­ne­stre, av­vol­gen­do i sof­fit­ti, men­tre io e lui an­da­va­no a rit­mo di rock con quel di­sco dei Deep Pur­ple che fre­ne­ti­co si av­vol­ge­va nel­lo ste­reo al la­to de­stro del­la se­de del club, af­fit­ta­to da po­co.

    Pao­lo vor­ti­ca­va con le gam­be, su, giù, su, giù, su, giù, su, giù, co­me tan­te escre­scen­ze di un ve­ge­ta­le non pre­sen­te tra la flo­ra co­no­sciu­ta. Era un nuo­vo es­se­re tra le at­te­se di una con­si­sten­za so­no­ra e una re­mi­ni­scen­za tra neu­ro­ni ret­ti da scom­pen­so di dia­tri­ba al­ter­na­ta da sen­so di sca­la ar­mo­ni­ca di no­te sco­no­sciu­te. An­da­va avan­ti e in­die­tro, an­cheg­gian­do col ba­ci­no, bat­te­va le ma­ni, ro­tea­va la te­sta, scom­pi­glia­va i ca­pel­li, lun­ghi, e li­sci, bion­do ra­me, con alo­ni di noc­cio­la, quan­tun­que il fia­to­ne si fa­ces­se sen­ti­re con la man­can­za di una por­zio­ne d’os­si­ge­no all’al­tez­za de­gli al­veo­li e per la bir­ra bion­da che da­va az­zur­ro cro­mo al do­mo del­le pos­si­bi­li in­vet­ti­ve cui sta­va die­tro Pie­tro as­sen­te in­giu­sti­fi­ca­to. Non prez­za­va l’apnea, di­ven­ta­va ru­biz­zo scle­ro­ti­co osti­co e mor­da­ce e sen­za pa­ce e im­per­ter­ri­to con­ti­nua­va. Cap­ta­va il mo­vi­men­to del­le or­bi­te del­le pu­pil­le a mil­le te­nen­do­le ora chiu­se ora aper­te tra co­per­te di mal­de­stro estro trop­po gio­va­ne, en­tran­do nel­lo spi­ri­to as­sor­dan­te e in­va­den­te di quel­le no­te on­di­va­ghe che ri­fran­gen­do­si nel­le pa­re­ti tor­na­va­no al pun­to d’ori­gi­ne fra­stor­na­te per i boz­zi pre­si du­ran­te l’im­per­vio per­cor­so a dor­so di un’uma­ni­tà non con­sa­pe­vo­le del­la bel­lez­za e dell’ar­mo­nia dei suo­ni. L’at­mo­sfe­ra av­vi­lup­pa­va i cor­pi, le men­ti, la te­sta leg­ge­ra di noi stes­si nell’io re­con­di­to da au­li­co sen­so del pia­ce­re mi­schia­to ad al­cool e as­so­nan­za che bal­za nel­la dan­za, per se­gui­re le on­de so­no­re, dei no­stri sen­si, pro­te­si nel­lo sfor­zo ame­no dell’ascol­to.

    Io bal­la­vo di fron­te a lui con rit­mo for­sen­na­to, i ca­pel­li al ven­to, la boc­ca aper­ta per sor­reg­ge­re il re­spi­ro, le gam­be fles­se e le ma­ni al­za­te con fa­re rit­mi­co e mo­du­la­to.

    E’ bello, non è vero Paolo? Dissi con quel poco di voce che avevo ancora in riserbo.

    Bellissimo. Rispose e girò intorno a me con fare frenetico per un paio di volte, mentre oltre al ritmo seguiva la scansione in inglese incomprensibile della canzone.

    Non doveva venire anche Fiorello questa sera? Dissi un po’ sorpreso per quell’assenza ingiustificata.

    Ho paura che la nonna lo abbia trattenuto per la barba incolta presa col fermaglio di maglio androgino .

    Lo sai la gente anziana è apprensiva. Si preoccupa per un nonnulla. Gli adulti berciano parole vane, anche se si va a prendere dal lattaio per un litro di bevanda biacca che rimarca il sapore del buon’umore. Faremo a meno di lui. Dissi rattristato non per l’assenza ingiustificata. Avevo perso il bicchiere pieno senza fieno o paglia che raglia al mio cuore impavido.

    Non ci pensiamo …. Godiamoci questa musica. Accennò baritonale e non banale, Paolo, dal viso ammaliante.

    Il vi­ni­le nel­lo ste­reo, un di­sco tren­ta­tré gi­ri del com­ples­so in­gle­se in vo­ga in quel pe­rio­do, suo­na­va as­sor­dan­te e coin­vol­gen­te fi­no a quan­do la pun­ti­na non ol­tre­pas­sò la sca­na­la­tu­ra dell’ul­ti­ma no­ta re­boan­te. Poi fe­ce una bre­ve pau­sa. Ri­pren­dem­mo fia­to e asciu­gam­mo il su­do­re che im­per­la­va la fron­te. Un fru­scio inon­dò la stan­za per qual­che se­con­do. Le no­te ri­pre­se­ro pos­ses­so del­lo spa­zio, vee­men­ti e coin­vol­gen­ti. Il se­con­do bra­no: un Rock du­ro, rit­mi­co, di­rom­pen­te, in­com­pren­si­bi­le, ame­no, pro­du­ce­va un’at­mo­sfe­ra ag­gro­vi­glia­ta, po­li­cro­ma, che tra­spor­ta­va le no­stre men­ti nei mean­dri più re­con­di­ti dell’io, ove erom­pe­va un’aria ra­re­fat­ta espres­sio­ne di una vo­li­zio­ne ten­den­te all’ane­li­to fem­mi­neo.

    Ci to­gliem­mo la ma­gliet­ta, e re­stam­mo a tor­so nu­do. La tem­pe­ra­tu­ra ester­na era sì gra­de­vo­le, ma non ta­le da es­se­re sop­por­ta­ta dai no­stri cor­pi nu­di a me­tà, ri­scal­da­ti so­lo dal mo­vi­men­to in­coe­ren­te e im­ma­nen­te.

    La fi­ne­stra aper­ta da­va sul­la stan­za il­lu­mi­na­ta con dei lam­pion­ci­ni co­lo­ra­ti, ros­so, blu, ver­de, aran­cio, ter­ra di Sie­na. Agli an­go­li del lo­ca­le, a ri­dos­so del sof­fit­to, un can­di­do bian­co­re fil­tra­va dal re­tro dei fa­ri che, co­lo­ra­ti in mo­do non uni­for­me, la­scia­va­no tra­spa­ri­re dei ri­vo­li di lu­ce opa­le­scen­te e tra­spa­ren­te che ri­ver­be­ra­va­no nell’in­ter­sti­zio vi­si­bi­le so­lo a un at­ten­to os­ser­va­to­re.

    Dei con­te­ni­to­ri del­le uo­va in­col­la­ti gli uni ac­can­to agli al­tri, but­te­rel­la­va­no la pa­re­te de­stra gri­gio to­po coe­so per at­tu­ti­re il fra­go­re del­la mu­si­ca, ti­si­ca, tos­si­ca, as­sor­dan­te per l’ab­bon­dan­te in­con­te­ni­bi­le ri­to ira­sci­bi­le in­com­pri­mi­bi­le, con un’ef­fi­ca­cia in­fi­ma, sì che mol­ti at­tor­ti e svel­ti si chie­de­va­no in­di­stur­ba­ti dell’as­sen­za di coa­gu­lo ne­ces­sa­rio all’uti­li­tà dell’ar­chi­tet­tu­ra ma­tu­ra a una iet­ta­tu­ra po­li­cro­ma.

    La se­ra, noir con fa­scio a scia la­sci­via di lu­na pie­na, ab­bon­dan­te e am­mor­ban­te il vil­li­co pre­zio­so ozio del­le li­bel­lu­le sul la­to oc­ci­den­ta­le del cie­lo, ema­na­va un co­lor lat­teo da Teo ie­ra­ti­co e con­sen­zien­te ver­so Vin­cent, ema­nan­do una fluo­re­scen­za at­to­ni­ta sui tet­ti e sul­la ve­ge­ta­zio­ne a tra­zio­ne im­plo­den­te per ri­co­strui­re i con­tor­ni del­le fi­gu­re sia fos­se­ro al­be­ri, ca­se, uo­mi­ni, car­ret­ti, sie­pi, uc­cel­li not­tur­ni, o lam­pio­ni. In ve­ri­tà que­sti ul­ti­mi con­tra­sta­va­no col ba­glio­re mi­glio­re le gior­na­te ful­ve e pre­li­ba­te per gli or­pel­li dei gar­ga­nel­li dei fuo­chi fa­tui e le li­nee dell’oriz­zon­te all’ini­zio dell’Or­sa Mag­gio­re an­da­va­no ol­tre la ma­gio­ne di mag­gio sag­gio e a pon­teg­gio per un ma­neg­gio da pa­ne­gi­ri­co per sfu­ma­re gli og­get­ti adia­cen­ti o vi­ci­ni, non so­lo nei con­tor­ni ma an­che nel­la lo­ro fle­bi­le cor­po­si­tà, ri­schia­ran­do i co­lo­ri del­le co­se per lo me­no nell’am­bi­to d’in­fluen­za del­la lo­ro fluo­re­scen­za.

    Uno di fron­te al Club quel­la se­ra com­bat­te­va le lu­ci iri­de­scen­ti con fa­sci on­ni­scien­ti sor­ti­ti ra­min­ghi e so­li­ta­ri dal­la fi­ne­stra gri­gio per­la per la mer­la del­la not­te che tut­to in­ghiot­te ne­ra chi­na or­ri­bi­le fi­no all’in­di­ci­bi­le. An­da­va­no a ri­schia­ra­re la stra­da, il chias­so, lo sdruc­cio­lo di Eo­lo a ri­po­so per non al­za­re la ben­ché mi­ni­ma pa­gliuz­za pen­na fu­scel­lo fo­glia go­mi­to­lo di pol­ve­re al sol­ve­re del­la so­ler­te sor­te pri­ma del­la clas­se con alo­ni dif­fe­ren­ti se­con­do l’im­plo­de­re del lux ac­ce­sa. Un po’ sbia­di­ta al con­tra­sto ca­sto con la lu­cen­tez­za del lam­pio­ne da co­pio­ne di com­me­dia sa­ti­ri­ca per ri­pren­de­re la scel­ta nell’at­mo­sfe­ra a sfe­ra am­pia e am­ma­lia­ta con un chia­ro­re sfu­ma­to ai la­ti del­le im­po­ste ca­ste e all’al­tez­za del via­le ove il lu­co­re del­la stan­za mu­si­ca­le in­ci­de­va in mo­do mo­de­ra­to e at­tar­da­to da ia­to pa­lu­da­to.

    Una cop­pia di re­si­den­ti un po’ an­zia­not­ti, a pas­so svel­to, cer­ca­va di rag­giun­ge­re la di­mo­ra. Si sen­ti­ro­no de­gli ap­prez­za­men­ti ne­ga­ti­vi.

    Cosa si sono messi in testa questi ragazzi? E di rimando la donna al suo fianco:- Questa gioventù non né può più, dimmi tu cosa c’è di più.

    Dall’in­ter­no del lo­ca­le non ba­na­le le pa­ro­le eia­cu­la­te con bon ton, tut­ta­via fer­me da ter­me au­li­che, sen­za ec­ces­so di am­mas­so gras­so, am­met­te­va­no in­te­rio­ri al­go­ri per dei sem­pli­ci si­bi­li inin­fluen­ti nel rit­mo e nel­le pre­oc­cu­pa­zio­ni. Le la­sciam­mo cor­re­re co­me i due au­toc­to­ni tra ato­ni di to­ni fer­mi e ie­ra­ti­ci.

    Hai le sigarette a portata di mano? Dissi a Paolo con impazienza.

    Sì… ne vuoi una? - Rispose

    Grazie ... io, oltre alla musica, desidero il fumo e il corteggiamento di una nota acuta come uno spillo vermiglio arroventato per fare i buchi alla trama brama del fumo noir terso nell’aer disperso. Aggiunsi soddisfatto o rotto da un pensiero araldico.

    An­dò sul ta­vo­lo del­lo ste­reo e pre­se due si­ga­ret­te dal pac­chet­to pog­gia­to al­la si­ni­stra dell’ap­pa­rec­chio vec­chio co­me le ta­vo­le di no­ce con due ghe­ri­gli da co­ni­glio sve­glio e dis­se con mos­se stu­pi­de da ac­cor­do sor­do e sto­na­to: - Vie­ni, tie­ni, pren­di, ac­chiap­pa, in­ta­sca il lo­sco fu­mo.

    Af­fer­rai la si­ga­ret­ta con l’in­di­ce e il pol­li­ce tra le cor­ru­ga­zio­ni del­le im­pron­te di­gi­ta­li sen­za di­ta­le a pro­teg­ger­le e la mi­si nel ca­vo ora­le sa­pi­do e am­ben­te al re­fe­ren­te e aspet­tai Pao­lo per ac­cen­de­re. Una fiam­ma stan­ca ma bril­lan­te fe­ce in­tra­ve­de­re an­che l’oc­chio vi­schio men­tre la mia e la sua già sul­le lab­bra pren­de­va­no fuo­co e ar­de­va­no il ta­bac­co ar­ro­to­la­to.

    Io in­spi­rai una lun­ga boc­ca­ta di fu­mo. Fe­ce di­vam­pa­re la bra­ce sul bian­co­re del­la car­ta av­vol­ta con un co­lo­re car­mi­nio e vio­la. Il fu­mo sce­se lun­go la tra­chea e in­va­se i miei pol­mo­ni sol­le­ti­can­do gli al­veo­li e dan­do­mi un sen­so di pia­ce­re e di for­mi­co­lio be­ne­vo­lo e per­sua­si­vo. Espi­rai dal na­so e dal­la boc­ca un fu­mo den­so e ci­ne­reo. Sa­lì fi­no al sof­fit­to sul­la ver­ti­ca­le del­la mia te­sta per­ché non vi era ven­to o aria che tran­si­tas­se all’in­ter­no del­la stan­za. Ci fer­mam­mo un istan­te a gu­sta­re il fu­mo del­le si­ga­ret­te e smet­tem­mo di bal­la­re. La mu­si­ca rit­ma­va nell’am­bien­te da so­la co­me ad at­ten­de­re che le se­die, il ta­vo­lo, i di­schi pog­gia­ti a fian­co del­lo ste­reo, fos­se­ro par­te­ci­pi di­sin­vol­ti, co­scien­ti e ani­ma­ti per quell’at­mo­sfe­ra den­sa e spet­tra­le tra il va­ria­re del lu­co­re sul­le pa­re­ti, che des­se spriz­zi di spa­zio di­ver­si, e con­trap­po­sti, se­con­do il fa­ro che pro­iet­ta­va, e l’as­sen­za di quell’uma­ni­tà de­di­ta all’ab­bri­vo di te­no­re op­po­sto al lu­di­brio del­le no­stre aspi­ra­zio­ni.

    II

    Noi, gio­va­ni im­pe­ni­ten­ti, una do­me­ni­ca di pri­ma­ve­ra, uscim­mo dal­la por­ta la­te­ra­le dell’uni­ca chie­sa con­sa­cra­ta del pae­se per an­da­re a ri­dos­so del­la fac­cia­ta prin­ci­pa­le. L’edi­fi­cio, una co­stru­zio­ne de­gli an­ni 50, ave­va una fac­cia­ta tut­ta in pie­tra are­na­ria bian­ca, le­vi­ga­ta, e sen­za esco­ria­zio­ni o ab­bru­ma­tu­re, un ro­so­ne cen­tra­le ova­le dal ve­tro opa­co, una strut­tu­ra trian­go­la­re a pun­ta con una cro­ce in me­tal­lo for­ma­ta da una le­ga di bron­zo di co­lo­re ne­ro avo­rio, tre por­to­ni d’in­gres­so, di cui uno cen­tra­le, im­po­nen­te, in no­ce ben con­ser­va­to.

    Un sa­gra­to ret­tan­go­la­re in­si­ste­va nel­la par­te al­ta, pa­vi­men­ta­to con mat­to­nel­le bi­co­lo­ri; del­le sca­le bian­che in pie­tra scen­de­va­no ver­so un pia­ne­rot­to­lo in­ter­me­dio più pic­co­lo del pri­mo, con pa­vi­men­ta­zio­ne in mat­to­nel­le a rial­zo ver­mi­glio­ne, poi con­ti­nua­va­no a scen­de­re con­ves­se ai la­te­ra­li e sva­sa­te a ri­dos­so del­la se­de stra­da­le. La gra­di­na­ta era rac­chiu­sa en­tro un mu­ro sor­mon­ta­to da dei la­stro­ni qua­dra­ti di pie­tra are­na­ria bian­ca a co­per­tu­ra dei la­te­ri­zi.

    Ai pie­di del­la sca­li­na­ta lo spa­zio di­ve­ni­va am­pio con un asfal­to gri­gio bi­tu­mi­no­so e de­cli­na­va ver­so le ca­se del­la piaz­za, di for­ma­to ir­re­go­la­re. Dal­la piaz­za stra­de e stra­di­ne s’ir­ra­dia­va­no pia­ne e fles­suo­se an­dan­do a in­tru­fo­lar­si tra le ca­se del bor­go for­man­do, ora una cur­va stret­ta e spi­go­lo­sa, ora uno slar­go do­ve in­si­ste­va una fon­ta­na, ora pro­ce­den­do drit­ta e ta­glian­do in due le co­stru­zio­ni, ora pe­re­gri­nan­do co­me un men­di­can­te sa­zio che s’in­cu­nea­va tra lo spa­zio in­fi­mo la­scia­to da due abi­ta­zio­ni con­fi­nan­ti. Qui il pel­le­gri­no po­sa­va in­di­stur­ba­to due car­to­ni per pas­sa­re la not­te. S’in­cro­cia­va­no quel­le che scen­de­va­no dal pen­dio del­la col­li­na da do­ve scor­re­va ca­ra­col­lan­do l’ac­qua lun­go i ri­vo­li do­po una bur­ra­sca set­tem­bri­na.

    Fio­rel­lo, ul­ti­mo di una fol­la di fe­de­li, scen­de­va im­pet­ti­to, so­gnan­te e gon­go­lan­te dal por­to­ne la­te­ra­le con un pan­ta­lo­ne a vi­ta bas­sa a zam­pa d’ele­fan­te e una ma­gliet­ta a fio­ri bian­ca e ros­sa a mo’ d’in­fio­re­scen­za all’al­tez­za dei mu­sco­li del pet­to. Con ca­pel­li ric­cio­lu­ti fol­ti, ne­ri, ben pet­ti­na­ti, pro­ce­de­va ora guar­dan­do da­van­ti e ora sbir­cian­do il fol­to grup­po del­la piaz­za mo­stran­do a un me­tro di di­stan­za il suo io den­tro un tre­spo­lo di ca­ne­stra in cui si po­te­va­no pog­gia­re pen­sie­ri se­mi­se­ri ma sem­pre po­co ac­cul­tu­ra­ti per non tra­di­re la pre­sen­za con l’as­sen­za di una sco­la­ri­tà non an­co­ra giun­ta a ma­tu­ra­zio­ne. Ave­va un ri­te­gno pre­gno di con­te­gno al li­mi­te del­lo scom­pen­so den­so ma me­len­so ver­so se stes­so e, ver­so chi di pres­so, at­ten­de­va com­pres­so e per­ples­so per quel che ve­de­va en­tro il vol­to di­stol­to di quell’ac­co­li­to e in­so­li­to ira­con­do avan­za­re ver­so il cen­tro del­la piaz­za per in­con­tra­re me, Pi­no, Rai­mon­do, Pao­lo e Li­no. Il pri­mo era, aguz­zo, snel­lo, con un fa­re di­sin­vol­to trat­te­ne­va le ini­bi­zio­ni nell’am­bi­to di un in­vi­to di­sin­can­ta­to da fa­re il pa­io con un pa­la­to con­cla­ma­to nell’am­bi­to dell’or­di­to trac­cia­to tra gli ac­co­li­ti nel ra­min­go pro­trar­si del­la com­pa­gnia. Il se­con­do, Rai­mon­do, del­la stes­sa al­tez­za de pri­mo, più in car­ne, as­su­me­va la sciol­tez­za di un av­vez­zo al­la fa­vel­la snel­la, an­che se si pa­le­sa­va ti­mi­do e ini­bi­to qua­si aves­se su­bi­to l’in­vi­to di una mi­ria­de di ra­gaz­ze tut­te de­di­te a cir­cuir­lo qua­si a vo­ler fi­nir­lo e non le­nir­lo dal­la sua man­ca­ta sfron­ta­tez­za per non chia­mar­la ri­ser­va­tez­za. Il ter­zo, Pao­lo, - lo co­no­scia­mo - sa’ bal­la­re ol­tre che sbal­la­re men­tre sal­tel­la sul più bel­lo. Un ra­gaz­zo­ne con in­fin­gar­di e ma­liar­di schiz­zi e friz­zi nell’am­bi­to di un ca­rat­te­re te­star­do da far il pa­io con un par­do nell’am­bi­to di una sfi­da, avi­ta, con par­ven­ze di aci­du­la ese­ge­si nell’am­bi­to del de­pau­pe­rar­si per i suoi ma­gri ave­ri da es­se­re l’op­po­sto di un re mi­da nell’am­bi­to del suo avi­do va­ga­bon­da­re tra le stra­de del bor­go qua­si fos­se l’ico­no­gra­fia di un or­bo, fur­bo e pe­cu­lia­re nel suo da fa­re en­tro la sua riot­to­sa scon­tro­si­tà. Il quar­to, Li­no era il più one­sto dei coe­ta­nei. Qua­si mai mo­le­sto nel rap­pre­sen­ta­re le sue cir­con­vo­lu­zio­ni ce­re­bra­li che an­da­va­no tra un ipo­geo sul­fu­reo o ot­te­ne­bra­to e un ipe­ru­ra­nio si­de­ra­le sen­za egua­li. Di­spo­sto tra gli stra­li nell’am­bi­to di una ga­las­sia ne­bu­lo­sa tra una chio­sa e una gran­de area di ri­sul­ta. Ci av­viam­mo ver­so il la­to si­ni­stro del­la piaz­za per fa­re una pas­seg­gia­ta per tut­ta la lun­ghez­za del pae­se. Oc­cu­pa­va­mo la stra­da per cir­ca la me­tà del­la cor­sia in or­di­ne spar­so, chi avan­ti, chi in­die­tro, chi non an­co­ra al­li­nea­to per pro­ce­de­re ver­so il sen­so pre­fis­sa­to. Li­no al cen­tro di quel croc­chio, mal ser­ra­to, un po­chi­no am­pio, e di­strat­ta­men­te flem­ma­ti­co, dis­se: -Che ne pen­sa­te se fon­dia­mo un club?

    Che cosa dobbiamo fare? Rispose Fiorello.

    Procurarci uno spazio per il divertimento. Aggiunse Lino

    Veramente una bella idea. Disse Pino: - Non sembra facile, tuttavia, da realizzare. Apostrofando con la mano alta il compagno come a volerlo indirizzare verso la problematica che gli sembrava al disopra di una possibile risoluzione immediata. Lo preoccupava il lato economico per il vezzo alla riserva mentale verso una pigrizia per la spendita di denaro che avrebbe più apprezzamento se denominato con il suo vero vocabolo: avarizia incipiente. Da insipienza sconsolata per l’accidia verso il movimento di mettere mano dentro le tasche intorciniate, dentro le quali una vedova nera aveva fatto una ragnatela per un’inezia di molecole per una sostanza organica di squame espulse dalla pelle incartapecorita per la striminzita aderenza a un’oggettiva laconicità nell’insieme.

    Per quale motivo? Rispose Lino: - Non sarà difficile mettere d’accordo gli elementi della comitiva… E poi, pensa, come sarebbe bella l’estate con un ritrovo tutto per noi.

    …. Chissà quanti sarebbero interessati… e soprattutto c’era da tener presente le difficoltà d’ordine pratico: l’affitto, la pulizia, il divertimento, le ragazze, le fregnacce, le quisquilie, le incombenze tra le riverenze e le impertinenze mai sobrie per l’annoso problema del sistema. Risposi io.

    Che cosa dici. Vaneggi? Celiò Pino

    Ci fu un mi­nu­to di si­len­zio. Non era isti­tu­zio­na­le, co­me quel­lo all’Al­ta­re del­la Pa­tria. Un’ape la­vo­ra­tri­ce ven­ne a ron­za­re tra le no­stre trom­be. Fu cac­cia­ta a ma­na­te da Rai­mon­do che ton­do e fe­con­do, non re­stò die­tro all’in­set­to mo­le­sto.

    L’interesse sarà corrispondente alle opportunità che potrà, offrici? Ed io ne vedo di opportunità, anzi…. Credo proprio che le ragazze lo vedano come qualcosa di nuovo e tutto da scoprire? Sfrontato Lino. Certo di una certezza lungimirante come una sola rotaia di un tram nella Via Cristoforo Colombo con la corsia di favore chiusa ai taxi che gli facevano concorrenza. Usò un tono rassicurante.

    Uhm… mi sembra tutto nebuloso. E poi siamo stretti con i tempi ….credo! Esclamò Fiorello. Aveva la voce stridula, il pensiero formato in un ambiente di neuroni incerti e divelti dal fumo nel cavo occipitale.

    Non credo che la cosa si possa fare…. Avremo i genitori contro? Soggiunsi. Aggiunsi. Collegai. Unii e tenni stretto. La fonetica all’altezza della certezza.

    Non mi sembra così scontata la volontà contraria dei genitori. E saremo bravi, ossequiosi. Bada a chi non è capace. Sarà crocefisso in piazza. Sarà un coram populo. Osservò Fiorello e girandosi da Pino, disse: - E tu che ne pensi?

    Uhm…… non ho ancora un’idea esatta della situazione, ma sono pessimista. Rispose con un filo di voce che dava il senso della sua titubanza. Era nel suo contegno normale d’avaro conclamato e d’avizzo esacerbato.

    Noi non possiamo essere pessimisti. Disse Lino: - Anzi, dobbiamo crederci, essere convincenti menare agli amici titubanti…... E con i genitori… insistere… premere…incalzare…

    Basterebbe passare la voce… tutti i problemi potrebbero risolversi: un fuoco di paglia in un’alba con sol leone, solo il problema di estinguerlo ci dovrebbe preoccupare. Osservò Pino.

    Possiamo cominciare subito a diffondere l’idea. Soggiunsi.

    E… poi dovremmo cercare una stanza… o una casa in affitto…Precisò Fiorello: - Chi è disposto. Chi si pone a capo fila. Mi raccomando non nascondetevi. Vedo già qualche capoccia dietro la fila. Immaginate che possa essere di……… non lo dico. Lo sapete già…

    ………….

    Pau­sa! Un ri­ver­be­ro di stan­chez­za e spos­sa­tez­za espri­me l’in­cli­na­zio­ne de­gli umo­ri e del­la sa­li­va dei più a non de­si­de­ra­re la cor­ri­va via di una pa­no­plia. Più. E più an­co­ra.

    Possiamo pensarci un attimo…. E risolvere le faccende man mano che si presentano. Disse Lino e continuò: - Cercheremo di convincere gli incerti… vedremo se nel paese c’è qualche casa che si possa affittare…. E soprattutto cercheremo di essere uniti nel portare avanti l’idea …. Diciamocelo in faccia mi sembra l’unica idea nuova circolante nel paese e le difficoltà sulla sua realizzazione sono risolvibili con l’impegno di tutti … e soprattutto di quelli che ci credono di più.

    Tu sei ottimista! Esclamai.

    Non ho alcun motivo per non esserlo! Disse Lino.

    Uhm…. Quanta autostima. Osservò Fiorello.

    Dobbiamo essere realisti più del re. Aggiunsi io, rifacendomi a un vecchio adagio popolare.

    Allora cominciamo a pensare alle case disabitate che sono in paese. Aggiunse Lino.

    Con tutte le case vuote, non sarà difficile trovarne una… Disse Pino solerte e positivo rispetto al problema.

    Fio­rel­lo, dal­lo sguar­do cu­po per un pen­sie­ro im­mi­nen­te, cam­biò la po­si­zio­ne nel­la fi­la e ven­ne a in­se­rir­si tra me e Li­no, che era­va­mo un tan­ti­no più di la­to, a ri­dos­so del mar­cia­pie­de. Si ap­pre­sta­va ad ac­cen­de­re una si­ga­ret­ta, quan­do Li­no che non fu­ma­va fe­ce una smor­fia lo re­spin­se con il brac­cio e dis­se:- Non puoi pro­prio far­ne a me­no…? …E poi sia­mo in stra­da per il pae­se la co­sa non t’im­por­ta….

    Mi metto dall’altra parte. Rispose spigliato Fiorello e andò verso Pino. Accese la sigaretta con la macchinetta rossa trasparente con il segno del gas a metà del contenitore e aspirò con soddisfazione una lunga boccata, che gli apri il viso, lo dispose bene di mente, e gli fece esprimere una smorfia.

    Il so­le me­ri­dia­no a me­tà del­la vol­ta ce­le­ste ri­scal­da­va un cie­lo az­zur­ro car­ta da zuc­che­ro con un alo­ne bian­co sul la­to oc­ci­den­ta­le co­me un len­zuo­lo te­so per un trat­to del­la vol­ta dal­le sem­bian­ze di una nu­vo­la piat­ta e uni­for­me di co­lor lat­te e fa­ri­na, coe­sa, con bor­di ben de­li­nea­ti e ton­deg­gian­ti.

    Pi­no dis­se: - For­se ho idea di chi po­treb­be pos­se­de­re una ca­sa di­spo­ni­bi­le ?

    Si potrebbe conoscere. Risposi con fare allegro e incuriosito.

    E’ un po’ prestino. Osservò risoluto

    Eh…. Non fare lo gnorri tira fuori il nome del proprietario. Dissero per lo meno un paio.

    Al momento opportuno, ora è prematuro. Osservò con arguzia.

    Sarebbe già disponibile? - Chiese Fiorello.

    Sì. …forse sì. Ribatté titubante.

    Né fai un segreto di stato. Osservò Paolo un pochino dispiaciuto.

    Mi sembra prematuro dire quale opportunità si presenta, perché l’idea è ancora un abbozzo. Mancano le adesioni degli altri amici e soprattutto la volontà di volerla veramente affittare per quello scopo. Disse risoluto ed esaustivo Pino sull’argomento che stava incrinando un pochino il nostro umore.

    E poi dovremmo vedere la spesa da sostenere. Aggiunse Fiorello.

    Non è un problema pagare un affitto, siamo in tanti? - Suggerì Lino realista, ma non preoccupato per quella determinazione.

    An­da­va­mo a pas­so len­to, vi­ru­len­to, e son­no­len­to die­tro ai più di una gio­ven­tù con più pro­ble­mi che les­se­mi per es­se­re ac­co­sta a ma­ni­fe­sta­zio­ni con­tro la fa­mi­glia, lo sta­to so­cia­le, il ca­pi­ta­le, l’anal­fa­be­ti­smo, e ago­gnan­do ma­r­jua­na, al­cool, di­po­ni­bi­li­tà e sen­sua­li­tà fem­mi­ni­le tra mi­ni­gon­ne, scol­la­tu­re, reg­gi­se­ni, e gra­zio­si im­bel­let­ti con i mer­let­ti in­vol­ti. Fio­rel­lo qua­si un mo­nel­lo si sten­de­va co­me un tap­pe­to ver­gi­ne al vir­gi­neo ac­co­sto di un pre­vo­sto di pe­li in­gui­na­li as­sai ba­na­li, adoc­chia­ti di sfug­gi­ta in una gi­ta del­la scuo­la su­pe­rio­re con di­scen­ti ac­con­sen­zien­ti e sco­la­ri as­sai ama­ri e con pul­sio­ni da non po­ter as­so­ciar­si a qual­co­sa di con­cre­to. Con i ca­pel­li lun­ghi e ric­ci fi­no al­le spal­le ave­va la fi­sio­no­mia di un can­tan­te bril­lan­te, an­che se di pe­so all’al­cool che lo fa­ce­va ab­bru­ti­re ver­so mez­za­not­te quan­do an­da­va ra­min­go per pa­glie­ric­ci sen­za pic­ci cer­can­do una don­zel­la an­che se non bel­la. Più avan­ti, non trop­po lon­ta­no, all’in­cir­ca la di­stan­za di un lan­cia­to­re di mar­tel­lo si con­fi­gu­ra­va pri­mo del­la clas­se per l’as­se di sbie­co cui sta­re die­tro sen­za dif­fi­den­za al­cu­na. Avan­za sul mar­cia­pie­de gri­gio in ce­men­to con ac­co­ste bi­ci, ci­cli, e car­rio­le in­ton­se, un grup­po di ra­gaz­ze vo­cian­ti, al­le­gre, pim­pan­ti, e ac­cla­man­ti il tem­po in cui po­tes­se­ro ve­der­si con i ra­gaz­zi ne­gli spa­zi del bor­go de­di­ti al ri­tro­vo o so­lo al pas­seg­gio sag­gio an­che di mag­gio col pri­mo ca­lo­re a pro­fon­de­re or­mo­ni mai do­mi, tut­te nei ve­sti­ti­ni pa­stel­lo con ac­con­cia­tu­re gran­di dai ri­fles­si ne­ri avo­rio o ca­sta­no alo­na­ti di oro e noc­cio­la. La di­stan­za rag­guar­de­vo­le, non per­met­te­va di di­stin­gue­re le pa­ro­le pro­nun­cia­te o cin­ci­schia­te o espres­se tra un or­pel­lo con fa­re mo­nel­lo o un com­pli­men­to a un qua­dri­ci­pi­te con in­ci­pit umo­ra­le non ba­na­le o un fi­si­co pa­le­stra­to con lo stra­to di adi­pe mas­sic­cio strut­tu­ra­to con lo sfor­zo di un la­vo­ro nei cam­pi dei ge­ni­to­ri. Un cro­gio­lo di pa­ro­le, di do­man­de, di ri­spo­ste, di ri­sa­ti­ne, d’am­mic­ca­men­ti o di suo­ni in­com­pren­si­bi­li, che c’in­cu­rio­si­va e di­sto­glie­va il no­stro in­te­res­se dal pro­ble­ma prin­ci­pa­le.

    Rag­giun­to il li­mi­te orien­ta­le del pae­se, do­ve le abi­ta­zio­ni in fi­la fi­ni­va­no la­scian­do lo spa­zio al­la stra­da, che sa­li­va gra­da­ta­men­te tra sie­pi e ter­re­ni ver­di bot­ti­glia o sme­ral­do, con la ve­ge­ta­zio­ne spar­sa a chiaz­ze, di­spo­sta ir­re­go­lar­men­te, co­me se una ma­no un po’ con­fu­sa aves­se pre­te­so di in­se­ri­re quel­le strut­tu­re ar­bo­ree e sie­pi in or­di­ne spar­so tra pra­ti e fru­men­to con co­lo­ri, ros­si, cad­mio, rug­gi­ne, aran­cio, ver­de, guar­dam­mo in fon­do per ve­de­re se il no­stro in­te­res­se po­te­va es­se­re esau­di­to.

    Le ra­gaz­ze da­van­ti a noi era­no tor­na­te in­die­tro. Le in­cro­ciam­mo a me­tà del de­cli­vio, tra l’om­bra di una quer­cia e la cu­net­ta di sco­lo del­la stra­da. De­lia cian­got­ta­va di­scin­ta e bal­bet­tan­do vo­ca­bo­li in­com­pren­si­bi­li per es­se­re escus­si in­fra­mez­za­ti con un vo­ca­bo­la­rio crip­ti­co e au­top­ti­co no­to so­lo al­le don­zel­le bel­le e frin­guel­le che non né ave­va­no fat­to par­te­ci­pe noi ma­schiet­ti e Or­nel­la sor­ri­de­va e an­zi ave­va il ca­vo ora­le a den­ti biac­ca con oc­chi bril­lan­ti e un se­no più gran­de, una cop­pa di cham­pa­gne che si fa­ce­va gua­da­re con cu­ra e am­mi­ra­zio­ne. Era co­per­to da un reg­gi­se­no a bal­con­ci­no da sem­bra­re un li­bri­ci­no chiu­so per l’uso con­chiu­so al fu­so di un oc­chio bie­co se fos­se sta­to il mio che espun­ge­va an­che la lin­gua di fuo­ri a mo’ di Frac­chia nel­le no­vel­le di raz­za uma­na di Pao­lo Vil­la­gio ci­ne­ma­to­gra­fa­ta qual­che an­no do­po- (a?) men­te – 1981 - 1 ora e tren­ta­no­ve mi­nu­ti - di con­tur­ban­te schi­zo­fre­ni­co ma­stur­bo men­ta­le sen­za sen­ti­men­to al­cu­no. Le sa­lu­tam­mo ca­lo­ro­sa­men­te e cer­cam­mo ap­proc­ci di­spa­ra­ti per car­pi­re il lo­ro in­te­res­se. Qual­che oc­chia­ta ma­li­zio­sa pas­sò fu­ga­ce, so­ler­te, e fur­ti­va tra i due grup­pi, pe­rò non riu­scii a co­glie­re il sen­so pie­no del­lo scam­bio. Ri­ma­si nel dub­bio e non dis­si nien­te. Le ra­gaz­ze la­scia­ro­no una scia d’ef­flu­vi, e fra­gran­ze, non so­lo di gio­ven­tù e d’av­ve­nen­za, ma an­che di pro­fu­mi tra il mu­schio e il pi­no, tra il san­da­lo e la can­nel­la fre­sca e tra­spa­ren­te, che col­pì le no­stre na­ri­ci co­me la no­stra fan­ta­sia. Esta­sia­ti. Quell’im­ma­gi­ne di di­ver­so, ci ac­co­glie­va, ci chia­ma­va, ci aspet­ta­va tra­mi­te l’in­te­res­se che at­trae­va le no­stre im­ber­bi e vel­lu­ta­te men­ti at­tra­ver­so il si­nuo­so pro­fi­lo di quel­le ele­gan­ti fi­gu­re fem­mi­ni­li ap­pe­na sboc­cia­te.

    Al bar del­la piaz­za or­di­nam­mo quat­tro ape­ri­ti­vi di una mar­ca in vo­ga, be­vem­mo con fo­ga e gu­sto per l’ora or­mai pros­si­ma del de­si­na­re e scio­gliem­mo l’in­con­tro estem­po­ra­neo di quel­la mat­ti­na­ta con l’in­ten­to e l’au­gu­rio che di lì a qual­che ora ci sa­rem­mo ri­vi­sti que­sta vol­ta con un ar­go­men­to nuo­vo per i no­stri in­te­res­si.

    II bis

    La ri­cer­ca di un ri­tro­vo per un am­bi­to ver­so il qua­le escu­te­re la per­ce­zio­ne coas­sia­le che a ma­le a ma­le si po­te­va sop­por­ta­re. Spin­ge­va la no­stra at­ti­tu­di­ne a con­fron­tar­ci, tra un mor­fe­ma in­di­vi­dua­le o ca­rat­te­ria­le o en­tro cui la­scia­re quell’uni­co si­len­zio do­mi­na­to da un pun­to di­ver­so neu­tro o mo­no­cro­ma­ti­co ten­den­te al noir o al go­ti­co. En­tro il qua­le ascol­ta­re le an­gu­stie o le an­sie o le ma­lie di un or­ba­ce men­te in quel mo­men­to pre­ce­den­te all’oblio ver­so un ami­co o un va­cuo ra­zio­ci­nio in­di­vi­dua­le, aleg­gian­te nell’aria e cir­cuen­do l’in­te­res­se di. Quel gior­no in piaz­za, nel­lo spa­zio am­pio e coe­so con la tra­spa­ren­za di una di­scen­den­za di biac­ca o am­bra do­ra­ta, una ra­gaz­za al­gi­da e so­li­ta­ria ave­va la fra­gran­za del­la sua or­gan­za e mo­stra­va la sua av­ve­nen­za con sup­po­nen­za e cir­co­stan­za che dan­za­va en­tro la sen­sua­li­tà del­la sua ame­ni­tà in lon­ta­nan­za e con oc­chio do­mi­na­te nel traen­te per una vi­ru­len­za da am­bi­zio­ne vi­sta già al­tre vol­te. I ca­pel­li cor­vi­ni, il vi­so re­go­la­re, gli oc­chi ma­le­vo­li era­no le coor­di­na­te che col­pi­va­no il mio in­tel­let­to per quel qual­co­sa di cu­rio­so pre­sen­te e scrit­to con in­chio­stro in­de­le­bi­le per la bi­le ve­re­con­da e fa­con­da da di­mo­stra­re sen­za re­mo­ra e ri­te­gno de­gno di con­te­gno ma­gno e coas­sia­le sia nei con­fron­ti de­gli adul­ti sia di noi ra­gaz­zi. La­sciai Pao­lo a fu­ma­re men­tre si ar­ra­bat­ta­va coat­to con una si­ga­ret­ta ne­glet­ta. Fe­ci due pas­si la­te­ra­li sep­pur ba­na­li ma con­se­quen­zia­li agli stra­li me­strua­li di un ime­neo nel se­gno di un in­fin­gar­do di­strat­to per un’ade­sio­ne po­li­va­len­te e an­dai drit­to ver­so il croc­chio for­ma­to da Da­nie­la, De­lia e Or­nel­la, giun­si a ri­dos­so del­la lo­ro fra­gran­za e dis­si:- Tu.

    In­di­can­do­la con l’in­di­ce te­so e con tut­to il pe­so dei mor­fe­mi escus­si con os­si­do di mi­nio aran­cio e vio­let­to al suo co­spet­to .

    Lei guar­dò stu­pe­fat­ta e con ma­li­zia ar­gu­zia e tri­zia in­do­len­za men­tre la sa­li­va si per­de­va nel ca­vo ora­le e men­tre un ten­ten­na­re del­la men­te au­len­te le da­va un piz­zi­co­rio al­le na­ri con spa­ri che si udi­va­no an­che a di­stan­za per il fra­go­re che col cuo­re pul­sa­va con bat­ti­ti e an­di­ti tut­ti in­vi­pe­ri­ti per ri­ti con­tri­ti e van­ti di even­ti di de­si­de­rio sen­za sen­tir­si in di­sor­di­ne.

    Sì, tu.

    Beh. Fu la risposta.

    Tu mi piaci.

    Tu sei matto, in piazza. Dici certe cose.

    Tu….

    Non ti azzardare a dire un’altra parola che mi tolgo la scarpa e te la do in testa. Capito!

    Daniela! Vero?

    ………….

    Non si risponde.

    Fe­ce due pas­si ver­so De­lia e si co­prì con la spal­la del­la com­pa­gna e con un mez­zo gi­ro si po­se di la­to osta­co­lan­do la mia po­si­zio­ne. Tar­da­va a di­re qual­co­sa e que­sto mi da­va fa­sti­dio a non fi­ni­re. Era su di suo e ac­co­sta al suo ego smo­da­to e in­tre­pi­do col re­spi­ro am­pio e po­co ac­co­mo­dan­te. Se la ri­te­ne­va, co­me suol dir­si. Se la ti­ra­va a sua in­sa­pu­ta. O scien­te­men­te. In­som­ma era su un pie­di­stal­lo in stal­lo e col ca­stel­lo ar­roc­ca­to da ia­to pa­lu­da­to. Ave­va un mo­do di fa­re da sfi­da in­fi­da e tra­scen­den­te on­ni­po­ten­te ver­so me che non riu­sci­vo a ca­pa­ci­tar­mi di ta­le al­tez­zo­si­tà se co­sì vo­glia­mo chia­mar­la. Al­te­ra più di un ca­pi­ta­no di ven­tu­ra o di un vec­chio che ne ave­va vi­ste di tut­ti i co­lo­ri. Tut­ta­via una bel­la im­ma­gi­ne e quei sui mo­di di es­se­re non mi di­spia­ce­va­no. Il fat­to che aves­se mol­la­to il di­scor­do al mio in­di­ce te­so, era un tut­to di­re. Che co­sa avrei do­vu­to fa­re? Ve lo sta­te chie­den­do. Co­me avrei do­vu­to ag­gan­cia­re ta­le gra­zia, per­sa nel suo io iper­tro­fi­co. Non pos­so pro­prio im­ma­gi­na­re co­sa avrei fat­to in quel mo­men­to. Ri­ma­si fer­mo, at­to­ni­to at­ten­to, at­te­si il con­si­glio di un ami­co eva­ne­scen­te o di una com­pa­gna che era per lei e non per le mie ne­ces­si­tà. At­te­si un con­si­glio op­por­tu­no, sen­za una ri­spo­sta al­la mia do­man­da. Il ci­pi­glio di Da­nie­la la fa­ce­va da pa­dro­ne e le mie ti­tu­ban­ze alea­to­rie mai su­pe­ra­te era­no in un’im­pas­se, la nar­ra­zio­ne lan­gue. Nien­te d’ori­gi­na­le e sen­za in­chio­stro noir chi­na go­ti­co vam­pi­re­sco. La­sciai il croc­chio sull’asfal­to gri­gio per­la e con un vi­so pia­no tor­nai da Pao­lo pro­prio adia­cen­te all’ul­ti­ma boc­ca­ta, ave­va fi­ni­to di fu­ma­re e non mi de­gna­va di uno sguar­do né con­sen­zien­te né dis­sen­zien­te. Lo spa­zio del­la piaz­za si fe­ce stret­to e la no­stra co­no­scen­za eb­be i pri­mi ap­proc­ci.

    III

    L’at­ti­vi­tà di cu­ra de­gli ani­ma­li si svol­ge­va a ri­dos­so del "Tra­va­glio ". Il vec­chiet­to, non al­to dal­la te­sta pe­la­ta, dal cor­po ro­ton­do, da­gli oc­chi scu­ri, tra­spa­ren­ti e fur­bi per l’an­no­so ave­re a che fa­re con i con­ta­di­ni del pae­se, era

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1