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Le fiamme del peccato (eLit): eLit
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Le fiamme del peccato (eLit): eLit
E-book421 pagine6 ore

Le fiamme del peccato (eLit): eLit

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Info su questo ebook

ROMANZO INEDITO

In una fredda notte invernale, in una piccola cittadina del Minnesota, Grace Meade viene uccisa e la sua casa incendiata. Incredibilmente, il primo sospetto cade sulla figlia Jillian che, salvata dalle fiamme, è ricoverata in ospedale e non parla.
Ignaro di quello che è successo, l'agente speciale dell'FBI Alex Cruz arriva nel Minnesota per parlare con Jillian che pare essere l'ultima persona ad aver visto vive due donne anziane trovate uccise. Quando apprende degli ultimi tragici fatti, Cruz si rende però conto che c'è molto più di quanto chiunque abbia mai immaginato. E quando Jillian scompare improvvisamente, lui ha solo il diario su cui lei scriveva per decifrare la storia. Una storia che affonda le radici nel passato , che parla di tradimenti imperdonabili e azioni spietate. Ora che un segreto mortale è emerso Jillian rischia di pagare un prezzo molto alto.
LinguaItaliano
Data di uscita2 gen 2019
ISBN9788858996843
Le fiamme del peccato (eLit): eLit
Autore

Taylor Smith

"Amo l'ambiguità che c'è in ognuno di noi: luce ed ombra dice Taylor Smith e la racconto nei miei libri". Un'autrice che interpreta il genere thriller in modo personale e coinvolgente, con grande attenzione ai caratteri dei personaggi.

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    Anteprima del libro

    Le fiamme del peccato (eLit) - Taylor Smith

    successivo.

    1

    Non aveva ricordo della propria morte. Non aveva idea di quando o come fosse avvenuta. Ma nel momento in cui riprese conoscenza, Jillian Meade era certa di trovarsi all'inferno.

    Tutto era esattamente come lo descriveva il reverendo Owens nei sermoni domenicali che la terrorizzavano, da bambina. Esalazioni acri che bruciavano narici e polmoni, aria rovente che corrodeva la pelle come acido, turbini di fuliggine che oscuravano ogni cosa facendo lacrimare gli occhi. Un luogo di totale desolazione in un buio lacerato solo da guizzi rossi e arancio che serpeggiavano nel fumo turbinante. E tutt'attorno una sorda vibrazione, come il ringhio di una belva pronta ad aggredire.

    Indolenzita, su una superficie dura, con qualcosa che le premeva contro un fianco. Cambiò faticosamente posizione e, come emergendo da un sogno, cominciò a riconoscere delle forme nell'ombra caliginosa che la circondava: dei mobili. Era sul pavimento, incastrata in un angolo e sotto di lei c'era una sedia rovesciata. La spinse via e sollevò la testa, tossendo. Come mai l'inferno somigliava tanto alla cucina di sua madre? C'era una spiegazione semplice: non era morta e si trovava in casa di sua madre, nel Minnesota. Ma perché era stesa sul pavimento? Per quale ragione la casa era immersa nel buio, salvo quello strano baluginio rossastro proveniente dal corridoio?

    Oh, Dio! Un incendio!

    «Mamma?» Boccheggiante, cercò di rialzarsi, ma quando posò le mani sulle piastrelle, i palmi umidi scivolarono via. Si puntellò allora sui gomiti e di nuovo gridò: «Mamma! Dove sei?».

    Con gli occhi lacrimanti riusciva appena a distinguere le sagome delle altre tre sedie attorno al tavolo ovale di quercia. Una fitta bruma grigia aleggiava nel locale, scivolava contro gli armadietti, fluttuava sotto il soffitto come seta venefica.

    Si sollevò sulle ginocchia. Al di là dell'apertura ad arco che dava sul corridoio e il resto della casa, la carta da parati a delicati fiorami vittoriani mandava barbagli arancioni. Il fuoco pareva provenire dal soggiorno.

    Riuscì a mettersi in piedi. «Mamma!»

    La voce era un gemito strozzato. Uno spasmo le artigliò i polmoni e dovette piegarsi in due, tossendo e sputando un denso catarro. Quando l'accesso si placò, Jillian srotolò il collo ad anello del maglione per ripararsi il naso e aspirare brevi boccate d'aria filtrata.

    «Mamma, dove sei?»

    Questa volta ebbe una risposta, ma si trattava di una voce maschile. «Jillian? Sei qui?»

    Proveniva da dietro di lei, dalla porta posteriore. Si voltò e scorse un'ombra al di là del rettangolo di vetro. La maniglia venne scossa, ma l'uscio pareva bloccato.

    «Jillian!»

    «Sì! Sono qui!» Doveva correre ad aprire. O andare a cercare sua madre. Fai qualcosa! Ma era raggelata dal panico, disorientata e sempre più debole per via della mancanza di ossigeno.

    Un altro tentativo alla maniglia, poi l'ombra sparì e un attimo dopo una mano guantata mandò in frantumi il vetro. Il fumo si spinse turbinando verso quella via d'uscita mentre un braccio robusto entrava dall'aperture e abbassava la maniglia spalancando la porta. Jillian cadde in ginocchio sotto l'impeto dell'aria surriscaldata proveniente dall'interno. L'incendio, ora alimentato da nuovo ossigeno, prese ad avanzare.

    «Jillian!»

    Due mani l'afferrarono sotto le ascelle facendola rialzare e lei si trovò di fronte il volto sgomento di Nils Berglund. I contrassegni gialli fluorescenti della sua uniforme spiccavano nella fioca luce. Era a capo scoperto e i capelli corti erano cosparsi di fiocchi di neve che in quella calura andavano rapidamente sciogliendosi.

    «Che ci fai qui? Dov'è tua madre?»

    Le gambe non la reggevano: Jillian dovette aggrapparsi al giubbotto di lui. «Non lo so! Ero priva di sensi e quando mi sono ripresa...» Un altro accesso di tosse le impedì di continuare.

    «Devi uscire subito da qui, andiamo!» La sospinse verso la porta, sorreggendola, ma dopo un paio di passi Jillian puntò i piedi, scalzi, si accorse a quel punto, contro il pavimento.

    «No, Nils! Prima dobbiamo trovare mia madre!»

    «Ci penso io, dopo che sarai fuori.»

    Ma lei si aggrappò al bordo del ripiano della cucina. «No, va' subito!»

    «Fuori, ho detto!» urlò lui trascinandola a forza fino al portico. «Allontanati! Le autopompe stanno per arrivare. Vai!»

    La lasciò lì e rientrò di corsa. «Signora Meade! Grace! Dov'è?»

    Jillian si afferrò a uno dei sostegni del portico e aspirò avidamente una boccata d'aria pura, ma era troppo fredda e fu come se mille frammenti di vetro le trafiggessero i polmoni. Fu presa da un nuovo attacco di tosse.

    Poi le parve di udire un lontano gemito di sirene. Si appoggiò al parapetto del portico, respirando a stento, e scrutò nella notte in cui danzavano grandi fiocchi di neve. Gli occhi le bruciavano, lacrimavano. La casa era in gran parte circondata da alberi, ma ai margini della vegetazione le parve di vedere muoversi qualcosa o qualcuno. Forse uno dei Newkirk? Erano stati i vicini a dare l'allarme?

    Un colpo secco risuonò alle sue spalle. La porta esterna aveva sbattuto contro il muro. Tentò di bloccarla, poi si azzardò a lanciare un'occhiata verso la cucina, da cui si riversavano fumo e aria torrida.

    «Nils! Riesci a vederla?»

    Unica risposta fu lo schianto del vetro della finestra davanti all'acquaio e l'assito del portico fu invaso da una pioggia di schegge. In quel nuovo vortice d'aria il fumo si schiarì brevemente e Jillian poté scorgere Nils incorniciato nell'apertura ad arco. Ma subito dopo lui si chinò e scomparve dietro il tavolo della cucina.

    «L'ho trovata!»

    Jillian tenne ferma la porta mentre aspettava che lui portasse fuori sua madre. Le sirene risuonavano acute, adesso, nella fredda notte invernale. Si volse a mezzo e attraverso gli abeti scorse le luci rosse delle autopompe che apparivano dalla curva in fondo a Lakeshore Road. Adesso le gambe avevano ripreso la normale sensibilità e i piedi nudi avvertivano l'assito gelato. Rabbrividì: i jeans e il maglione nero la proteggevano ben poco dall'aria tagliente.

    Si protese di nuovo oltre lo stipite della porta. «Presto, Nils! Stanno arrivando!»

    Silenzio.

    «Nils?»

    Il fumo che roteava contro il soffitto, denso e greve, stava calando verso il basso. Jillian aspirò a fondo ed entrò in cucina, rannicchiandosi il più possibile, girando attorno al grande tavolo ovale. Vide il dorso di Nils, con la scritta POLIZIA in grandi lettere luminose. Era inginocchiato. Da un lato sporgevano un paio di gambe, che calzavano delle scarpette scollate nere. Gambe che Jillian avrebbe riconosciuto ovunque: affusolate, lisce, senza tracce bluastre di vene. Notevoli per una donna di sessant'anni. Sua madre ne andava molto orgogliosa.

    «Oh, Nils! È...»

    Lui rialzò il capo di scatto. «Jill, no!» Allungò un braccio per allontanarla.

    Troppo tardi. Jillian restò paralizzata quando vide ciò che la sagoma di lui le aveva fino ad allora nascosto. Poi cadde in ginocchio.

    «Oh, mio Dio! No! Mamma!»

    Sua madre era abbandonata sul pavimento, la testa girata di lato, gli occhi azzurri e vitrei sotto le palpebre semiabbassate. I capelli biondo argento raccolti come sempre in uno chignon basso sulla nuca erano quasi perfettamente ravviati, salvo una ciocca che ricadeva sulla guancia. Una macchia scura deturpava il golf di cachemire. I colori erano alterati dal riverbero proveniente dall'ingresso, ma Jillian sapeva che quel golf era di un turchese chiaro, come gli occhi di sua madre. Gliel'aveva visto addosso mentre occupava la sua poltrona preferita, nel soggiorno... Quando? Solo pochi istanti prima, le pareva. Ben eretta, le mani intrecciate in grembo, le caviglie compostamente incrociate. Sempre la perfetta signora. Un pensiero irrazionale attraversò la mente di Jillian: Grace Meade sarebbe inorridita all'idea di farsi trovare in condizioni così ineleganti.

    «Andiamocene da qui!» gridò Nils e tossì nell'aria che stava facendosi del tutto irrespirabile mentre raccoglieva tra le braccia quel corpo esanime.

    Jillian si rialzò premendosi contro la parete, sommersa da un'ondata di raccapriccio ma incapace di distogliere lo sguardo. Lo vide rialzarsi. Era un uomo poderoso e la sagoma minuta di sua madre pareva ancora più esile contro la mole di lui.

    Nils accennò con il capo alla porta. «Vai! Io ti seguo!»

    Spostò il carico che reggeva per sostenerlo meglio e con quel gesto il capo di Grace si mosse e gli occhi chiari, senza vita, fissarono accusatori Jillian. Lei ebbe un sussulto e le ginocchia le cedettero. Scivolò lungo il muro finendo a terra con un tonfo.

    «Per amor del cielo, tirati su!» urlò Nils. «L'incendio sta dilagando! Qui va a fuoco tutto!»

    Lei avrebbe voluto muoversi, ma era inchiodata dal biasimo che leggeva negli occhi di sua madre. Nils si caricò il cadavere su una spalla e con la mano libera afferrò Jillian per un braccio, ma lei si sottrasse alla stretta chiudendo gli occhi. Avrebbe fatto di tutto pur di non vedere quella cosa mostruosa che sua madre era adesso.

    Mamma, no, ti prego!

    Lui l'agguantò di nuovo, ma Jillian si divincolò e si lanciò nel corridoio precipitandosi verso le fiamme ruggenti che ormai avevano completamente invaso il soggiorno.

    «Jill! Torna qui, maledizione!»

    Ma lei si lasciò cadere sulla soglia della sala da pranzo, premendo la guancia contro il lucido parquet. Avvertiva il crepitio del fuoco e la pressione dell'aria, ma non altro. A occhi chiusi si abbandonò con sollievo al nulla che l'avrebbe accolta.

    Ma non le fu concesso. Si sentì afferrare, sollevare a mezzo, sostenere. Scuotere con forza. Rialzò le palpebre. Nils stava reggendola per i gomiti, privo adesso del suo carico. La scrollò di nuovo, ma lei era ormai svuotata di ogni forza, di ogni volontà. Era come una bambola di pezza.

    «Maledizione, Jill! Vuoi morire qui dentro?»

    Era invasa da un'inerzia totale. Sì. Lasciami stare.

    Lui le prese il volto tra le mani. «Jill, ti prego!»

    Le loro fronti si toccavano e lui la teneva stretta a sé. Poi la baciò, con forza. Sentì la bocca di lui sulla sua e per un attimo ebbe di nuovo diciassette anni. Tutto il tempo intercorso, sparito. Erano loro: Nils e Jill, inseparabili, perdutamente innamorati, presi dall'intensità che si conosce solo la prima volta, quando ogni esperienza è nuova, ogni contatto una rivelazione. Tutto tornò: l'odore, il sapore di lui, il rifugio che rappresentava.

    Quando lui si ritrasse guardandola con espressione intensa, dolorosa, Jillian annuì. Nils si rialzò e le porse una mano. Lei stava per prenderla, poi vide la chiazza scura sulla spalla sinistra del giubbotto. Sangue. Il sangue di sua madre. Cercò di respingerlo, di respingere ogni cosa, poi si accorse che anche le sue mani erano sporche, appiccicose di sangue. Le fissò, inorridita, e cominciò a urlare.

    Nils l'afferrò rudemente. Lei si dibatté scalciando, ma lui era quasi un metro e novanta e ben più massiccio di quando, alle superiori, giocava a football. La sollevò senza fatica e stava per issarsela sulla medesima spalla quando una pedata casuale di lei lo colpì all'inguine, facendogli allentare per qualche attimo la presa. Jillian riuscì a sfuggirgli, ma dopo due passi scivolò su una chiazza viscida finendo a terra, di schiena.

    Senza fiato, rimase immobile per qualche istante, poi si girò su un fianco e si trovò a un palmo di distanza dal punto in cui Nils aveva depositato il cadavere di sua madre. Ne incontrò lo sguardo spento, duro.

    Era davvero finita all'inferno, pensò Jillian. Il posto che si meritava.

    2

    Washington, D.C.

    Mercoledì, 10 gennaio 1979

    Molto tempo dopo, quando tutto era ormai risolto o magari no perché, come lui ben sapeva, certi avvenimenti non si risolvono, ma vanno a finire negli oscuri recessi della mente dove regnano gli incubi, Alex Cruz rifece all'indietro il percorso ricostruendo l'esatta sequenza dei fatti da quando aveva avuto il primo contatto con i nomi di Jillian e Grace Meade. Si chiese se non avesse avuto qualche premonizione circa la complessa perversità alla base del caso che gli si stava presentando.

    Già in precedenza Cruz era stato ampiamente testimone degli orrori che gli esseri umani possono infliggersi a vicenda. Aveva combattuto nella giungla del Vietnam e in seguito si era fatto più di dieci anni come investigatore della polizia militare USA occupandosi di omicidi, stupri e altri atti di violenza. Adesso, in qualità di agente speciale dell'FBI, si dedicava a dare la caccia al peggio del peggio: terroristi, sequestratori e serial killer che consideravano l'intero pianeta territorio loro.

    A quel punto non erano molte le scelleratezze in cui non si fosse imbattuto, ma i fatti alla base dell'omicidio di Grace Meade e di altri casi a esso collegati avrebbero sempre occupato un posto ben preciso nella sua mente, in quanto a totale ferocia. Ne aveva avuto un minimo sentore il giorno in cui il caso gli era capitato per le mani?

    Una cosa era certa: la sera in cui Jillian Meade aveva cercato la morte nel Minnesota, lui si trovava a tremila chilometri di distanza, e data la differenza di fuso orario era già a letto.

    Mentre nel Minnesota divampava l'incendio che distruggeva la villa sul lago, Cruz lottava con l'agitata insonnia che non gli dava requie da anni, parte del prezzo da pagare per gli errori passati. Se Jillian Meade quella notte aveva cercato la morte, lui si era da tempo rassegnato alla condanna a vivere, inflittagli per i suoi peccati.

    Il giorno dopo l'incendio, Cruz arrivò presto in ufficio. Se non avesse voluto schivare Sean Finney, che lavorava nel box attiguo, forse non avrebbe puntato sulla segnalazione riguardante Jillian Meade: una delle cinque o sei arrivate quella mattina e riguardanti casi da definire. Dati i suoi già fitti impegni, l'avrebbe probabilmente passata a qualcun altro o se ne sarebbe occupato di lì a qualche giorno. Ma quella mattina lui era deciso a trovare un motivo per allontanarsi dall'ufficio e sottrarsi alle domande sempre più pressanti del collega. Gli serviva qualcosa che lo dirottasse altrove.

    Undici mesi prima, appena approdato all'FBI, lui era quasi venuto meno a una delle sue regole: mai valicare il confine tra il lavoro e la vita privata. Maryanne Finney era cugina di Sean e Cruz l'aveva conosciuta alla festa di Capodanno a casa del collega. Una ragazza molto carina, con fitti ricci rossi che le arrivavano a metà schiena, dal sorriso contagioso, che non si era lasciata smontare dall'atteggiamento chiuso del nuovo arrivato, che stava a segnalare che non era disponibile per relazioni sentimentali. Nel giro di poche ore Cruz, affascinato dal suo dolce accento irlandese, si era trovato ad accettare l'invito al pranzo domenicale a casa della famiglia di lei, a Bethesda. Niente di impegnativo, gli aveva assicurato, e le avrebbe fatto un favore.

    «Bravissime persone, i miei, ma mi assillano continuamente aspettandosi una sfilza di nipotini. È più forte di loro. Un difetto genetico... sono cattolici, capisci. Ma è proprio l'ultima cosa che desidero visto che passo le mie giornate a tenere a bada i pestiferi marmocchi altrui. Ma se ci fosse un ospite mi lascerebbero in pace. Potrebbero addirittura evitare di fare mesti commenti sulla mia desolata esistenza.»

    E così era cominciata, in modo allegro e amichevole. L'entusiasmo di Maryanne a letto, aveva scoperto Cruz, era spontaneo e gioioso come la sua indole, ma dopo che lei era scivolata nel sonno, lui era rimasto sveglio con la coscienza che gli rimordeva, guardando le curve chiare delle sue spalle nella luce tenue delle candele che lei aveva voluto accendere prima che facessero l'amore. Una morbida immagine botticelliana, una ragazza senza complicazioni che, per quanto lo negasse, era alla ricerca di un legame concreto.

    E lui non faceva al caso suo. Dopo tanti anni era troppo sposato alla sua solitudine, troppo preso dal suo lavoro. Prima o poi tutte le donne con cui aveva avuto delle storie se n'erano rese conto e la conclusione era sempre stata la stessa: lacrime, collera, accuse.

    Quindi Cruz era ricorso alla mossa che gli era parsa più gentile e onesta: il giorno dopo aveva telefonato a Maryanne per ringraziarla della serata e scusarsi per essersi spinto troppo in là.

    Da allora aveva evitato Sean Finney che, entusiasta all'idea che l'incontro tra la cugina e il suo collega potesse dare dei frutti, perseverava a sondarlo in proposito con sottili aggiramenti. Maryanne meritava di meglio, rifletté Cruz mentre passava in rassegna le sue scartoffie.

    Lavorava nella Sezione Collegamenti Internazionali e si occupava di una vasta gamma di reati, atti terroristici, criminalità organizzata, rapimenti, furti d'arte, omicidi, stupri, rapine, seguendo le varie piste e tenendosi in contatto con vari dipartimenti di polizia nazionali ed esteri. Durante il periodo trascorso nella polizia militare aveva indagato su delitti avvenuti in molti paesi del mondo e l'FBI, che aveva un gran bisogno di agenti specializzati, se l'era accaparrato non appena lui si era congedato.

    Alle nove di mattina aveva già individuato, per quel giorno, due o tre casi che gli davano modo di allontanarsi dell'ufficio. Prima di sera il caso Meade avrebbe messo in disparte tutti gli altri e di lì a pochissimo lui vi si sarebbe dedicato con una determinazione quasi maniacale.

    Stava prendendo la giacca quando la testa color ruggine di Sean Finney comparve al di sopra del divisorio che separava i loro box. «Ehi, Alex! Sei in arrivo o di partenza?»

    «Esco» rispose Cruz, rimpiangendo di non essersi mosso più alla svelta. Assorto nella lettura dei vari ragguagli, non si era neppure accorto dell'arrivo di Finney. E adesso eccolo lì, con la sua voce roca da fumatore e la ciarliera allegria.

    «Cos'hai in ballo?»

    Cruz mostrò il modulo azzurro. «Devo rintracciare un soggetto, cercare di ottenere una deposizione.»

    I vari avvisi che giungevano sulle loro scrivanie erano contrassegnati per colore a seconda del tipo di reato che segnalavano.

    Un modulo azzurro come quello che teneva in mano Cruz rappresentava la richiesta da parte di una polizia straniera, in quel caso Scotland Yard, Inghilterra, di rintracciare una persona collegata a un delitto. Spesso si trattava in realtà d'indiziati che, se le prove lo confermavano, sarebbero passati nella categoria dei ricercati per i quali, una volta individuati, sarebbe stata emessa una richiesta di estradizione.

    Su quel modulo azzurro era indicato l'indirizzo di Washington di un soggetto che doveva essere interrogato in merito a due omicidi avvenuti in Inghilterra un paio di settimane prima. Una delle vittime era una certa Vivian Atwater, settantun anni, pubblico funzionario in pensione, uccisa da un colpo d'arma da fuoco nel suo appartamento londinese che poi era stato incendiato. L'altra era una sessantunenne nubile, di Dover, Inghilterra: Margaret Entwistle era stata uccisa con modalità analoghe. Entrambe le donne erano in qualche modo collegate a una cittadina americana residente lì nella capitale, a circa tre chilometri dall'ufficio di Cruz.

    «L'ha mandato Scotland Yard» spiegò lui. «Hanno per le mani due omicidi. Ci chiedono di interrogare una donna residente qui nel D.C. che conosceva entrambe le vittime. Bisogna verificare se può fornire degli elementi utili.»

    «Un'indiziata?»

    «Non lo so. A quanto risulta, si è incontrata con le due vittime pochi giorni prima che venissero uccise. Che si sia recata da una potrebbe essere una coincidenza, ma da tutt'e due... comincia a essere un po' sospetto.»

    «Se avessi bisogno di rinforzi...»

    «Certo, te lo farò sapere.» Cruz lasciò l'ufficio.

    La sala agenti ormai era affollata: fruscio di carte, ticchettio di tastiere, telefoni che squillavano senza sosta.

    «Ehi, Alex, a proposito... hai visto Maryanne ultimamente?»

    Cruz fece finta di non sentire e raggiunse in fretta l'ascensore.

    Stando ai particolari forniti da Scotland Yard, il soggetto in questione aveva doppia cittadinanza in quanto figlia di madre inglese e padre americano. Data di nascita: 14 luglio 1944. Luogo di nascita: Drancy, Francia, il che a rigore, suppose Cruz, le dava diritto anche alla cittadinanza francese se mai ne avesse fatto richiesta. Una figlia di guerra, evidentemente. Trentacinque anni, nata il giorno dell'anniversario della presa della Bastiglia.

    Anche Cruz aveva una data di nascita con forti connotazioni storiche: 7 dicembre 1941, il giorno in cui i giapponesi avevano sferrato l'attacco di sorpresa a Pearl Harbor. Una coincidenza che sarebbe potuta apparire significativa se lui al momento ci avesse pensato e se fosse stato il tipo da dare importanza a certe cose. In tal caso forse avrebbe potuto predire che lui e quella donna erano destinati a diventare nemici acerrimi.

    L'indirizzo corrispondeva a una casa di quattro piani vicino a Dupont Circle. Sul pannello dei citofoni, posto tra la porta esterna, aperta, e quella interna, chiusa, accanto al nome di Jillian Meade c'era il numero 204. Cruz premette il pulsante e attese, osservando attraverso la vetrata della porta interna il pavimento a piastrelle bianche e nere dell'atrio. Non ebbe risposta e ritentò, poi provò la maniglia: chiusa a chiave. Riesaminò il pannello e vide una strisciolina di plastica rossa con la scritta Custode. Schiacciò il pulsante corrispondente: stesso risultato. Stava per concludere che era stato un viaggio a vuoto quando dall'altoparlante scaturì un gracidio aggressivo.

    «Guardate che ho già chiamato la polizia, dannati imbecilli!»

    Interdetto, Cruz esitò. «Parlo con il custode?» chiese poi.

    «Chi è?»

    «Sono un agente federale. Avrei bisogno di parlarle, se non le spiace.» Silenzio. Cruz suonò di nuovo. Niente. Era quasi deciso a tenere pigiato il pulsante per un tempo indefinito quando udì una voce soffocata ma irascibile dall'altra parte della vetrata.

    «Un momento, calma! Mica vado a motore!» Cruz intravide un ometto dai capelli grigi in tuta sportiva scura, che avanzava zoppicando. «Lei non è un poliziotto!» strepitò questi, quando fu vicino.

    «Sì, invece. Una specie.»

    «Cosa vuol dire una specie? Dov'è l'uniforme? Guardi che i poliziotti veri stanno per arrivare.»

    «Sono un agente federale» ripeté Cruz tirando fuori il tesserino e premendolo contro il vetro.

    Il vecchio lo scrutò, poi scosse il capo. «Ha l'aria autentica, ma non riesco a leggere niente, soprattutto senza gli occhiali.»

    «Sono dell'FBI.»

    L'uomo si portò una mano all'orecchio. «Del che?»

    «Se potesse farmi entrare, per favore...»

    «Un momento, prima devo aprire questa dannata porta.» Il custode la socchiuse appena bloccando l'apertura con tutta la sua stazza di peso mosca. «Faccia vedere» ordinò. «Oh, l'FBI! Perché non l'ha detto subito? Io mi aspettavo la polizia di qui.»

    «Sto cercando una delle sue inquiline.»

    «Allora non è venuto perché ho telefonato alla polizia?»

    «No, io non c'entro.»

    «Da aspettarselo, naturale.» Il vecchio diede un'occhiata alla strada. «Li ho chiamati tre quarti d'ora fa, ma mai che arrivino quando ce n'è bisogno.»

    «Cos'è successo?»

    «Alcuni inquilini si sono lamentati perché qualcuno suona ai citofoni e quando vanno a rispondere non c'è nessuno. Dei ragazzi, probabilmente. È già successo. Quelle canaglie pigiano tutti i bottoni e magari c'è uno che sta aspettando la consegna di una pizza e apre senza controllare chi è. E poi ci troviamo coi corridoi coperti di graffiti e porte scassinate. Una vera rottura. Un'inquilina ha detto di aver visto un tipo con i capelli crespi che girovagava qui dentro con l'aria di non sapere bene dove andare.»

    «Gli ha chiesto cosa voleva?»

    «No. Ha pensato che stesse cercando qualcuno. L'ha raccontato solo perché, quando è scesa, ha sentito un paio di altri inquilini che protestavano per via dei citofoni. Sarei salito a controllare, solo che ho questa maledetta ernia. Me la sistemano settimana prossima. Altrimenti non ci avrei messo niente ad agguantare quei cialtroni e fargli passare la voglia di fare certi scherzi. Così ho pensato che era meglio chiamare la polizia. E invece arriva lei, che non è neanche uno sbirro» aggiunse in tono d'accusa.

    «Mi spiace. Senta, se vuole posso salire con lei a dare una controllata.»

    Il custode lo squadrò, come per decidere se Cruz potesse essere un'accettabile guardia del corpo. «No. Ormai è già passata un'ora. Se quel tizio aveva in mente qualcosa, ormai l'ha già combinata. Presto verranno a dirmelo. Allora, cosa vuole?»

    «Sto cercando una persona che mi risulta abiti qui. Jillian Meade.»

    «Ah sì, certo.»

    «È in casa, che lei sappia?»

    «Non lo so. Ha provato a suonare?»

    «Sì, ma non ha risposto nessuno.»

    «Allora probabilmente è al lavoro.»

    «Sa dirmi dove lavora?»

    L'ometto si strinse nelle spalle.

    «Da quanto risiede qui?» insistette Cruz.

    «Oh, almeno due o tre anni. Sì, almeno tre, ora che ci penso, perché era qui durante il Bicentenario. Era di quelli che hanno addobbato il balcone con festoni rossi, bianchi e blu.»

    «Cosa può dirmi di lei?» Cruz tirò fuori il taccuino.

    «Bah. Paga regolarmente l'affitto. Tipo tranquillo.»

    «È single? Vive da sola?»

    «Sì. Un po' sulle sue, ma a posto. Va al lavoro presto, rientra quasi sempre tra... bah, diciamo tra le sei e le sette. Mai avuto seccature da lei.»

    «Saprebbe indicarmi dei conoscenti? Magari un amico speciale?»

    Il custode ci meditò su grattandosi il mento ispido. «Mi pare di no. Non l'ho vista uscire molto, la sera. Ogni tanto capita un tipo di una certa età. Non che io stia a controllare giorno e notte quel che succede, ma abito qui al pianterreno e tengo gli occhi aperti. Per forza, in una città come questa. Ne capitano di tutti i colori.»

    «Già. E questo tale che frequenta la signorina Meade, sa per caso come si chiama?»

    «No. È venuto solo qualche volta, tutto qui. Non fa gran vita sociale, la signorina Meade.»

    «E nessun altro?»

    «Io ho notato solo quello. E mica è bruttina, lei, anzi. Soprattutto a vederla senza occhiali. Ma non è più una giovincella, capisce? Dev'essere una delle tante impiegate di un certo livello di cui questa città è zeppa. Ma non dà proprio nessun fastidio. Fossero tutti così, i miei inquilini!»

    «Ha detto che rientra verso le sei o poco dopo... non sa che attività svolge?»

    «Be', un momento, mi ci faccia pensare.» L'ometto aggrottò le sopracciglia, riflettendo intensamente. «In effetti una volta gliel'ho chiesto. Qualche mese fa. Ero su da lei ad aggiustare lo sciacquone che perdeva. Tanto per fare due chiacchiere, sa. E le ho chiesto dove lavorava, e lei ha fatto il nome di un posto... cos'era? Ah sì!» fece schioccare le dita. «Ora ricordo, lo Smithsonian!»

    Cruz si fermò con la penna a mezz'aria. «Presso la sede principale oppure in uno degli altri musei collegati?»

    «Ah, questo non saprei dirglielo. Ma cosa vuole l'FBI dalla signorina Meade? Guai in vista?»

    «Normali accertamenti.»

    «Un tempo qui ci stava uno che lavorava presso il Dipartimento di Stato. E anche allora sono venuti i federali per saperne qualcosa. Parlavano di verifiche, controlli per ragioni di sicurezza. Si tratta della stessa cosa?»

    «Più o meno» rispose Cruz. Giusto in quel momento un'autopattuglia si fermò davanti all'ingresso, con i lampeggianti accesi. «Be', a quanto pare la polizia è arrivata.»

    «Alla buonora.»

    «Bene, la ringrazio dell'aiuto, signor...»

    «Ripkin. Prego, nessun disturbo.»

    «Senta, ora cercherò la signorina Meade attraverso il suo ufficio, ma se non riuscissi a trovarla ripasserò stasera. Se la vedesse prima di allora, le sarei grato se non accennasse alla mia visita.» Cruz non sapeva se Jillian Meade avrebbe potuto tentare di filarsela, ma non voleva correre rischi.

    «Sì, d'accordo» rispose il custode fissando trucemente i due nerboruti poliziotti che stavano risalendo i gradini d'ingresso. «Finalmente vi siete dati una mossa!» sbraitò.

    All'angolo c'era un bar. Cruz entrò e si servì del telefono per chiamare il centralino dello Smithsonian. L'operatore, consultata la guida interna, poté dirgli che c'era una Jillian Meade presso il Museo Nazionale di Storia Americana, una delle numerose fondazioni sparse per la città poste sotto l'egida di quella vasta organizzazione.

    Il museo era sull'altro lato di Constitution Avenue, quasi di fronte al Triangolo Federale. Una struttura squadrata di marmo rosa che ospitava una ricca collezione di cimeli che andavano dalla prima bandiera a stelle e strisce alla bussola tascabile usata da Lewis e Clark durante la loro storica spedizione.

    All'ufficio informazioni, nell'atrio gremito di rumorose scolaresche, gli dissero che avrebbe trovato la signorina Jillian Meade al terzo piano, negli uffici della direzione, vicino alla mostra permanente di storia militare americana. Per arrivarci, Cruz dovette passare tra una schiera di manichini nelle uniformi delle epoche più disparate, oggetti e fotografie legati ai vari conflitti: dalla guerra di Secessione all'intervento in Corea. Vetrine che ospitavano orgogliosamente armi, piani tattici, cartine e ritratti di vincitori.

    Per contro, la sezione riservata al Vietnam era modestissima, rimpiattata in un angolo. Una guerra senza possibilità di vittoria, costata la vita di cinquantottomila giovani americani. A cinque anni dalla caduta di Saigon i sentimenti al riguardo erano ancora troppo accesi per arrivare a una sorta di consenso nazionale. Un giorno si sarebbe giunti a una definizione, si disse Cruz, ma per il momento no.

    Era arrivato quasi in fondo quando lo sguardo gli cadde su una teca. Si fermò di botto: un gruppo di soldati in tuta mimetica, terribilmente giovani, con i volti anneriti, l'aria falsamente spavalda. Ma furono le costruzioni e le colline circostanti a colpirlo. Conosceva quel posto. C'era stato. Una zona nei pressi di Da Nang, un campo da cui un giorno del 1966 un piccolo gruppo di ricognizione, lui compreso, era partito sotto il comando di Darryl Houghton, tenente, di Dayton, Ohio. Un ragazzo spaventato, sprovveduto, che cercava di nascondere la paura con una dura aggressività e poi aveva dato un ordine stupido di troppo, e non era più tornato indietro.

    D'un tratto Cruz si sentì isolato nel tempo e nello spazio. Logicamente sapeva che il rombo sordo che avvertiva nelle orecchie era lo scalpiccio dei ragazzini che percorrevano i vari corridoi e non quello dei rotori di elicotteri, ma non si spiegava come mai d'un tratto cogliesse l'odore inconfondibile di olio surriscaldato che si diffondeva dalla bocca di un M-16 dopo che aveva fatto fuoco. E c'era qualcos'altro: il lezzo acido di vegetazione marcia che sempre impregnava gli indumenti, la bocca e il naso quando si strisciava sul ventre, nella giungla, cercando di tenersi fuori dalla mira dei vietcong. Peggio: avvertiva il tanfo delle sacche di plastica destinate ai cadaveri quando, una volta occupate, restavano troppo a lungo esposte a quella calura brutale.

    Uno scoppio di risate infantili lo riportò al presente. Cruz si sottrasse ai suoi fantasmi e proseguì.

    Arrivò alla reception degli uffici che gli erano stati indicati. La ragazza occupata a battere sui tasti di una macchina da scrivere gli volgeva solo parzialmente le spalle e non diede segno di udire il clic della porta né la confusione di fuori.

    Mentre si avvicinava, Cruz capì il motivo: seminascoste tra la massa di capelli biondi aveva le cuffie di un dittafono. Si accostò, diede un colpetto di tosse, poi un altro. Lei trasalì e alzò lo sguardo.

    «Buon Dio! Mi ha fatto prendere uno spavento dell'accidenti!» esclamò togliendosi le cuffie.

    «Mi scusi, ho cercato di farmi sentire...»

    «Oh, niente di grave. Capita spesso. A volte sono così concentrata... capisce?» Gli sorrise. «Posso esserle utile?»

    «Vorrei parlare con Jillian Meade.»

    Lei corrugò la fronte. «Ha un appuntamento?»

    «No, ma speravo di trovarla qui. Si tratta di una cosa importante.»

    «Mi spiace, non c'è. Se avesse dato un colpo di telefono si sarebbe risparmiato il viaggio.»

    «Arriverà più tardi?»

    «No, non

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