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Il coltello di Van Gogh
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E-book379 pagine5 ore

Il coltello di Van Gogh

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Info su questo ebook

A Los Angeles una folle banda dopo aver rubato un van Gogh uccide brutalmente i guardiani del museo. Un esperto investigatore di Scotland Yard indaga sull'accaduto, mentre Hannah, ribelle detective privata, viene incaricata di consegnare una tela di un noto autore a Gladding, un tempo trafficante d'armi ed ora gallerista in Messico. Giunta a Puerto Vallarta un folle piano travolge Hannah. Travis e Ruben, ben introdotti negli affari del governo federale, l'avevano avvertita, ma lei non aveva capito il senso del messaggio. Sarà John Russo, affascinante detective della squadra omicidi di LA, a dire l'ultima parola.



La follia di van Gogh e quella degli uomini. Il rigore di un vecchio detective di Scotland Yard e la corruzione della polizia messicana. Il traffico di opere d'arte e gli intrighi internazionali. La determinazione, il carattere, il coraggio di Hannah e la bellezza colta e distaccata di sua sorella Nora. Ai confini fra Messico e California una trama fitta e tesa che vi terrà inchiodati alla lettura. Un thriller intenso e pieno di colpi di scena.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ago 2018
ISBN9788858986400
Il coltello di Van Gogh
Autore

Taylor Smith

"Amo l'ambiguità che c'è in ognuno di noi: luce ed ombra dice Taylor Smith e la racconto nei miei libri". Un'autrice che interpreta il genere thriller in modo personale e coinvolgente, con grande attenzione ai caratteri dei personaggi.

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    Anteprima del libro

    Il coltello di Van Gogh - Taylor Smith

    Immagine di copertina:

    © Simonfocus / Stocksy

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Night Café

    Mira Books

    © 2008 Taylor Smith

    Traduzione di Maria Barbara Piccioli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5898-640-0

    Prologo

    Los Angeles

    1 gennaio

    «La gente ricorda il dolore. Sono stati effettuati degli studi. Se vuoi far capire qualcosa a una persona e accertarti che non lo dimentichi, falle del male. Funziona sempre.»

    In seguito, prima che smettesse completamente di parlare, la guida di museo volontaria Dorrie Schaeffer continuava a ripetere all’infinito ciò che uno degli intrusi aveva detto. Era sotto shock, naturalmente; soffriva di quello che lo strizzacervelli definiva disturbo da stress post-traumatico. Ma c’era anche stupore nella sua voce tremante - incredulità davanti al mostruoso cinismo dell’uomo.

    Non che Dorrie fosse un’ingenua per quanto concerneva il potenziale dell’umana crudeltà. Non sopravvivi settantasei anni senza assistere a qualche reale malvagità. Ma la brutalità compiuta all’Arlen Hunter Museum sembrava scaturita dal nulla.

    Il sole era tramontato dopo un piovoso Capodanno, e in Santa Monica Boulevard baluginavano le luci natalizie ancora appese agli edifici e sopra la carreggiata. Fin dall’apertura, una lunga coda si era formata davanti al museo, visitatori ansiosi di non perdere l’ultima opportunità di vedere la mostra La Follia e il Capolavoro, culmine della stagione autunnale dell’Arlen Hunter.

    Quando erano cominciati i guai, Dorrie avrebbe dovuto essere lontana. La gente se ne era tornata a casa, e le porte del museo erano chiuse. Per le dodici ore successive, una squadra di sicurezza ridotta all’osso avrebbe avuto il tesoro tutto per sé, e si sarebbe goduta i capolavori ancora per qualche ora prima che il gruppo si separasse e le opere d’arte prese in prestito facessero ritorno ai rispettivi proprietari.

    Dorrie era nel parcheggio sotterraneo, con una gran voglia di tornare a casa per vedere Cime Tempestose, della serie Capolavori del Teatro. Ma mentre apriva la portiera dell’auto, si era ricordata la riproduzione di Van Gogh comprata per una nipote che sarebbe arrivata l’indomani. La figlia di suo fratello non mancava mai di ricordare il suo compleanno e neppure di includerla nelle feste di famiglia. Sapendo quanto Renata amasse Van Gogh, Dorrie aveva acquistato una bella litografia del Caffè di notte, pezzo forte della mostra in corso. Solo che, da vera stupida, l’aveva dimenticata nell’armadietto.

    Rimproverandosi per la propria distrazione, entrò nuovamente nell’edificio, ripercorrendo il tragitto fino alla saletta destinata al personale, adiacente alla galleria sud. Era in corridoio quando sentì un grido. La vista di due uomini vicino all’estremità opposta della galleria, la schiena rivolta verso di lei, la pietrificò. Bert Fernandez, un anziano guardiano notturno, era in ginocchio rivolto verso di lei, benché la sua attenzione fosse interamente concentrata sugli intrusi. Il calcio brutale di uno di loro lo mandò lungo per terra, il sangue che gli sgorgava dalla bocca.

    La fortuna volle che Dorrie fosse accanto a un armadio aperto, riservato ai custodi, e la paura la spinse a entrarvi. Tremava in tutto il corpo, mentre da una fessura tra la porta e lo stipite, osservava un terzo uomo, incappucciato di nero come gli altri, spuntare da dietro l’angolo della sala ovest, spingendo davanti a sé un altro addetto alla sicurezza.

    Non c’era da dubitare che fosse lui al comando. A Dorrie sembrò giovane, con il corpo snello, ma quasi animato da un senso di superiorità intellettuale che lo spingeva a percepire come una missione la necessità di istruire i colleghi sull’efficacia della tortura per assicurarsi l’obbedienza. Non c’erano altre spiegazioni per quella violenza. Da quello che Dorrie poteva vedere, nessuna delle due guardie aveva opposto una reale resistenza.

    «La gente ricorda il dolore» disse il capo. «Un proiettile nel cranio la zittisce per sempre, ovviamente, ma se più tardi ti servisse un codice d’entrata o qualcos’altro? I cadaveri insanguinati sul pavimento non servono a granché.»

    E così usarono pugni che mandavano lampi metallici - tirapugni d’ottone. Dorrie guardava, attonita e terrorizzata da quella brutalità apparentemente gratuita. La guardia più giovane, solo un ragazzo, in realtà, cercò di protestare, ma il capo manovrò una corta mazza di legno, e il ginocchio dell’altro si sgretolò come una tazza di porcellana. Dorrie si portò le mani alla bocca mentre lui si accasciava gridando per terra. Bert tentò di trascinarsi nella sua direzione, e venne ricompensato da un colpo altrettanto feroce.

    Poi il capo si chinò su di lui, mormorando qualcosa a voce troppo bassa perché Dorrie potesse sentire. Il vecchio alzò una mano tremante e indicò l’angolo.

    «Aspetta qui» disse il capo a uno degli altri. «Se si muovono, spara.» Guardò l’altro con il pollice alzato, e tutti e due sparirono nell’ala est.

    Dorrie tremava come se fosse posseduta. La guardia più giovane giaceva sul pavimento di marmo, gemendo e dimenandosi per il dolore, le braccia strette intorno alla gamba ferita, mentre il vecchio Bert, il viso gonfio e insanguinato, guardava bieco il criminale che li sorvegliava.

    Il tempo parve fermarsi. Dorrie non avrebbe saputo dire quanti minuti fossero passati prima che i due ladri ricomparissero portando l’unico oggetto per cui evidentemente si trovavano lì: il Van Gogh.

    Come la brochure di La Follia e il Capolavoro rammentava ai visitatori, Platone aveva definito la creatività follia divina, un dono degli dei. Psicociance del testo di accompagnamento si dilungavano sulla paura che nutriva la visione necessaria a produrre grande arte.

    Quel dono degli dei era un’arma a doppio taglio, aveva detto Dorrie ai suoi pivelli, i visitatori ciarlieri che la seguivano obbedienti durante le visite guidate. Gli artisti esposti nella mostra - Jackson Pollack, William Blake, Edvard Munch, Georgia O’Keeffe e una dozzina o giù di lì di altri - avevano tutti sofferto di gravi forme di depressione o altre patologie psichiatriche. E Vincent Van Gogh, naturalmente. Nessuna mostra che collegasse arte, angoscia e follia avrebbe potuto ignorare lo sparuto olandese dall’orecchio reciso. Gran parte di quegli artisti, spiegava Dorrie ai novellini, in un certo momento della loro vita era stata rinchiusa in manicomio. Parecchi, come Vincent stesso, si erano suicidati.

    Era il Caffè di notte di Vincent la tela raffigurata sui poster e sugli striscioni che pubblicizzavano l’esposizione. Il dipinto raffigurava una scena notturna in un locale crudamente illuminato e popolato da clienti che sembravano non avere altri posti in cui andare. Vincent aveva praticamente vissuto in quel caffè durante il suo soggiorno nel sud della Francia, quando la sua psiche aveva cominciato a deteriorarsi. Poco tempo dopo aver dipinto la tela, si era tagliato un pezzo d’orecchio e lo aveva offerto in dono a una prostituta.

    Ora, il capo dei ladri avvolse il quadro in un lenzuolo di cui annodò gli angoli.

    «Okay, abbiamo fatto. Finiteli.»

    Terrorizzata, Dorrie vide uno degli uomini sparare alla testa del custode più anziano. L’esplosione echeggiò nelle sale di marmo e Bert si accasciò in una pozza di sangue. L’altro esitò il tempo sufficiente a permettere al ragazzo di cominciare a strisciare, trascinandosi dietro la gamba ferita. Il capo abbaiò un ordine, poi, gli occhi accesi di disprezzo, strappò l’arma dalle mani del complice, raggiunse il giovane e premette il grilletto.

    Il viso rigato di lacrime, Dorrie seguì con gli occhi i tre intrusi dirigersi verso l’atrio. Pochi istanti più tardi, sentì aprirsi e chiudersi la porta delle scale che conducevano al parcheggio.

    Poi ci fu soltanto silenzio.

    «La gente ricorda il dolore.»

    In seguito, la polizia continuò a insistere perché Dorrie richiamasse alla mente altri particolari. Anche un dettaglio insignificante, dissero, poteva contenere la chiave che avrebbe assicurato alla giustizia gli assassini. Provi, ripetevano. Ma Dorrie non voleva ricordare. Voleva dimenticare, invece. Tutto quanto.

    Alla fine smise di rispondere alle domande. Serrò le labbra quando il detective della sezione Rapine/Omicidi del Dipartimento di Polizia di Los Angeles incaricato delle indagini fece pressioni per ulteriori particolari. Rifiutò di parlare con gli agenti in grigio della divisione Furti d’Opere d’Arte dell’FBI che si presentarono alla sua porta. Fu perfino scortese con la vicina di buon cuore che era passata a chiederle come stesse.

    Dio, come desiderava che se ne andassero tutti.

    Divenne distaccata e inavvicinabile. Sua sorella, a Minneapolis, riferì che aveva smesso di richiamarla. La nipote che faceva base a LA partì con riluttanza per un viaggio di lavoro, decisa a rivolgersi a un professionista se al suo ritorno non avesse trovato la zia migliorata.

    Solo che allora era già troppo tardi.

    Il direttore del supermercato Vons ubicato nella stessa strada del complesso per anziani dove Dorrie viveva, raccontò che la donna aveva cominciato a fare la sua modesta spesa per telefono. L’addetto alle consegne disse che lasciava i soldi in una busta sotto lo zerbino e che gli faceva depositare i sacchetti davanti alla porta. Un vicino che la scorse un giorno osservò che il suo ordinato caschetto di riccioli castani si era fatto floscio e grigio alle radici. Gli abiti, normalmente in perfetto ordine, pendevano addosso a un corpo che sembrava essersi fatto ossuto e fragile nel giro di una notte.

    Un giorno, il postino trovò la sua cassetta delle lettere rigurgitante di fatture e pubblicità. Quando bussò alla porta, sperava che lei fosse semplicemente andata in vacanza dimenticandosi di far sospendere il servizio, ma l’istinto gli raccontava una storia diversa. Non ricevendo risposta, decise di avvertire la polizia.

    Fu il naso esperto degli agenti a riconoscere il lieve odore dolciastro che fuoriusciva dalle fessure intorno alla porta e alle finestre sbarrate. Con il cuore gonfio, temendo quello che avrebbero trovato, forzarono le serrature, fecero saltare la catenella di sicurezza ed entrarono.

    Dorrie Schaeffer era morta da circa una settimana. Sonniferi, stabilì il rapporto dell’anatomopatologo. Ne aveva presi abbastanza da uccidere un cavallo.

    La gente ricorda il dolore...

    Dorrie Schaeffer aveva ricordato. E come Vincent, quando l’angoscia era diventata insopportabile, aveva messo fine alle proprie sofferenze.

    1

    Contea di Orange, California

    Domenica, 16 aprile

    Hannah Nicks, perdente. Pecora nera. Quella il cui bizzarro lavoro non è precisamente adatto alle conversazioni a cena.

    Durante quelle riunioni familiari, nella mente di Hannah le accuse si alimentavano da sole in un circolo vizioso. Come poteva chiunque non sentirsi inadeguato davanti a quell’esempio di perfezione che era sua sorella Nora?

    Issandosi su un alto sgabello, Hannah ravviò dietro le orecchie gli scuri capelli arruffati e prese una delle focaccine fatte in casa dal cesto rivestito di lino posato sull’isola della cucina.

    L’isola stessa era un’oasi di granito in un oceano di perfezione. La casa di Nora, situata nell’elegante comunità marina di Corona del Mar, sembrava uscita dalle pagine di Architectural Digest. La sua cucina era una visione di design ispirata alla Toscana nelle tonalità della terracotta e del miele, il tutto legato da un motivo di tralci di viti. Al di là delle portefinestre a montanti che occupavano l’intero lato occidentale della casa, erano visibili gazebo, patio e piscina, e più oltre l’acqua grigio-azzurra del Pacifico che si stendeva all’orizzonte.

    Scegliendo uno dei barattoli della serie che le stava di fronte, Hannah spalmò della confettura sulla focaccina. Ne staccò un boccone ed emise un sospiro di contentezza. «Sono felicità pura.»

    Nora, in piedi all’altra estremità dell’isola, la guardò sorridendo. «Sono gli ultimi lamponi che i ragazzi e io abbiamo raccolto al cottage, l’estate scorsa.» La famiglia di suo marito possedeva un’imponente dimora in legno a Ogunquit, nel Maine, dove i Quinn del ramo californiano trascorrevano parte dell’estate. Era un cottage più o meno come il diamante Hope era un gingillo da poco prezzo.

    Quanto ad Hannah, i suoi viaggi la portavano quasi sempre in zone di guerra, dove gli alloggi erano a dir poco spartani. Il suo appartamento, in un condominio del quartiere di Silver Lake di Los Angeles, era andato a sostituire l’unica vera casa che avesse mai posseduto - be’, non esattamente posseduto, considerato l’ammontare del mutuo, ma era stata una casa vera, un vecchio bungalow a Los Feliz. Il suo ex marito lo aveva lasciato a lei dopo il divorzio, ma sciaguratamente, prima che Hannah potesse dare inizio ai lavori di ristrutturazione, il bungalow era stato fatto saltare in aria da gangster russi decisi a eliminarla.

    Oltre a un appartamento in condominio e a un matrimonio fallito, Hannah era la madre di un figlio che vedeva solo saltuariamente e possedeva un conto bancario che oscillava costantemente verso il rosso. Inutile dirlo, non era lei la figlia di cui la madre si vantava con le altre signore dai capelli bianchi durante le lezioni di aquagym del martedì e mercoledì. Nora, figlia maggiore di genitori immigrati, era il sogno americano fatto persona. Per Hannah era già un successo arrivare alla fine della settimana senza che qualcuno le sparasse addosso.

    Ora, spalmò un altro cucchiaio di marmellata sulla focaccina. «Posso dire, giusto per la cronaca, che queste saranno la mia morte?» Masticò con gusto. «Vuoi che ne prepari una anche per te?» borbottò.

    «No, sono a posto così. Grazie tante per lo spettacolo, comunque.»

    Hannah sbarrò gli occhi. «Bhaaaa....»

    Nora scosse la testa. «Davvero molto maturo.»

    Hannah stava sorridendo. Non poteva farne a meno. Quando era in una stanza con Nora tornava ad avere dieci anni.

    Chi le incontrava per la prima volta scambiava spesso Nora per la gemella meglio educata di Hannah. Nessuno immaginava che la donna dagli occhi scuri e i capelli lucenti avesse dodici anni in più della rampolla disadattata del clan Demetrius. Ovviamente, nell’agiata contea di Orange, il botulino e il bisturi del chirurgo contribuivano a garantire a un sacco di donne un aspetto innaturalmente giovane. Nel caso di Nora, tuttavia, l’unica magia al lavoro era quella di Madre Natura. A quarantadue anni, era una bellezza elegante, la grazia personificata. Conosceva l’ikebana, l’arte giapponese di disporre i fiori, ed era in grado di preparare una cena da gourmet per venti persone con un preavviso di poche ore.

    Hannah conosceva i nomi falsi e i sospetti nascondigli di una dozzina dei più pericolosi terroristi della scena mondiale, e sapeva smontare e montare un fucile d’assalto M16 in sessanta secondi netti. Nora sapeva mettere gli altri a loro agio. Hannah, che si irrigidiva a ogni porta che si apriva e scrutava gli sconosciuti alla ricerca di cattive intenzioni, non sapeva neppure come mettere a suo agio se stessa.

    E come se la grazia, il cervello e la bellezza non bastassero, c’erano anche la splendida casa di Nora, affacciata sull’Oceano Pacifico, il marito innamorato e di successo, Neal, e i due figli perfetti, Nolan e Natalie. (Nora, Neal, Nolan, Natalie... i Quinn ci davano dentro con le allitterazioni. Perfino i cani, golden retriever con lucidi manti dorati, si chiamavano Nugget e Noodle.) L’intera impeccabile esistenza di Nora era una pagina uscita dalla maledettissima rivista Martha Stewart Living.

    A trent’anni, Hannah era sola, ma già alla sua seconda carriera, intrapresa dopo otto anni passati presso la polizia di Los Angeles. Passare dal lavoro di polizia al mondo della sicurezza privata avrebbe dovuto essere una mossa quanto mai lucrativa, che, aveva sperato, le avrebbe garantito una migliore situazione finanziaria, e di conseguenza la custodia del figlio, che avrebbe portato via all’ex marito e alla sua attuale compagna. Solo che non era andata così.

    Finì la ciambella, poi abbassò gli occhi e si irrigidì. Sul polso, una goccia rossa scintillava nel bagliore delle luci sospese sopra l’isola. Le sembrò quasi di sentire il dolore della ferita, benché la ragione le dicesse che si trattava soltanto di un grumo di marmellata. Con la memoria tornò a uno sparo esploso in una buia notte nel deserto. A un giovane di cui lei cullava in grembo la testa sanguinante. Alla vita di lui che scivolava via davanti ai suoi occhi.

    «Ecco, usa questo.» Nora si protese verso di lei.

    Colta di sorpresa dal movimento improvviso, Hannah si ritrasse di colpo, facendo stridere le gambe dello sgabello sul pavimento di travertino.

    «Hannah?» Il viso di Nora inalberava l’espressione preoccupata che le era solita quando in giro c’era la sorellina. Indicò lo strofinaccio azzurro che aveva in mano. «Va tutto bene. Volevo solo darti una mano.»

    Hannah le scoccò un sorriso, e portatosi il polso alle labbra leccò la dolce goccia di marmellata, ma quando Nora sospirò, cedette, e preso lo strofinaccio si pulì doverosamente il polso. Avrebbe vissuto con risentimento il fatto che Nora la trattava ancora come la ragazzina goffa che era un tempo, se non avesse saputo che la sorella non poteva fare a meno di fungere da figura materna nella sua vita.

    Non che non avessero una madre, tutt’altro. Ida Demetrius, Nana per i tre nipoti, stava sbucciando fagiolini sul tavolo di legno di pino di Nora proprio in quel momento. Nondimeno, Nora era stata sentita dire in più di un’occasione di avere cresciuto Hannah. Non del tutto esatto. Né qualcosa di cui vantarsi, tutto considerato.

    Era vero che a diciassette anni Hannah era stata allontanata da Chicago per andare a vivere con i Quinn nella contea di Orange. Fu in quel periodo che il loro padre, Takis Demetrius cominciò a manifestare i primi segni di quell’Alzheimer che lo avrebbe privato della mente, della grande forza fisica e infine della vita stessa. Povera Nana. Non era facile tenere testa a un marito ammalato e a una figlia adolescente ribelle, soprattutto cercando al tempo stesso di mantenere a galla la società di import; l’attività familiare un tempo prospera che la sporadica confusione di Takis e l’intransigenza e la paranoia che cominciava a dimostrare minacciavano di mandare a rotoli. A qualcosa doveva rinunciare, e quel qualcosa era stata Hannah.

    All’epoca i figli di Nora avevano quattro e sette anni. Hannah avrebbe potuto darle una mano, si pensò allora, e forse, non più raggiunta dalle imprevedibili esplosioni di collera di Takis, sarebbe stata meno incline a comportarsi male. Invece, era arrivata alla Newport Beach High School animata da un risentimento che la divorava. Questo, e una timidezza che veniva scambiata per altezzosità, le garantirono l’appellativo di imperscrutabile sotto la foto dell’annuario scolastico. Non aveva scelto di essere coscientemente antisociale, ma perfino le Porsche e le BMW del parcheggio degli studenti sembravano farsi gioco della ragazzina del Midwest disperatamente fuori moda, con i capelli arruffati e gli occhi scuri pieni di disagio. Hannah rimase con Neal e Nora due anni, prima di trasferirsi in un dormitorio dell’UCLA.

    A febbraio del secondo anno di college rimase incinta. Abbandonò gli studi e andò a lavorare come centralinista del Dipartimento dello Sceriffo di LA, così che il marito sposato in tutta fretta potesse finire gli studi di giurisprudenza.

    Una scelta patetica, che induceva Hannah a chiedersi perché mai Nora si prendesse la colpa per averla cresciuta.

    «Yuhuu!»

    A casa da Stenford per le vacanze di primavera, Nolan galoppò all’interno della grande cucina, gli enormi infradito che schioccavano sul pavimento. Lo seguiva da vicino il decenne Gabe, che sogghignava cercando di imitare l’andatura galoppante del cugino. «L’ultimo è un orso, un cavallo, una...» Nolan si interruppe per sbirciare la madre «... cacca di cavallo!»

    Hannah alzò la mano nello stile di un vigile che diriga il traffico. «Fermo lì! Gabriel Nicks, non azzardarti neppure a pensare di uscire prima che ti abbia messo la protezione solare.»

    I corpi dei ragazzini conservavano il pallore dell’inverno, ma nella California meridionale la primavera significava l’inizio della stagione in piscina, e in quella particolare domenica la temperatura era salita di parecchio. Neal era fuori, in short e maglietta, sdraiato su una delle comode chaiselongue e alle prese con il cruciverba della domenica, mentre Natalie era in spiaggia con un’amica. Con l’acqua della piscina calibrata per raggiungere i venticinque gradi, perfino gli adulti avrebbero voluto avventurarvisi, anche se solo per immergere i piedi.

    «Ah, mamma» gemette Gabe. «Siamo solo in aprile. Non mi scotterò. E poi, sono duro come te. Posso sopportare qualunque cosa.»

    Ad Hannah non sfuggì un’altra di quelle occhiate cosa dobbiamo fare con Hannah? che passò fra Nora e la madre. La sua non era quel genere di famiglia dove avventurarsi con coraggio in vicoli bui veniva considerata una caratteristica desiderabile.

    «I raggi ultravioletti non leggono il calendario» obiettò, trattenendo il figlio con una mano mentre con l’altra afferrava la lozione.

    «Sì, questo è un fatto, fratello» disse Nolan girandosi. Gabe smise immediatamente di dimenarsi. Sì, sua madre vedeva tutto nero, ma se Nolan diceva che qualcosa era in un certo modo, per lui quello diventava Vangelo.

    «Mettila anche tu» disse Nora senza voltarsi.

    I due ragazzi si scambiarono un sogghigno d’intesa, poi però Nolan prese il flacone dalle mani di Hannah e cominciò a spalmarsi.

    Nora era tornata alla baklava che stava preparando per dessert. Le cene della domenica dai Queen erano sempre una faccenda impegnativa. Quel giorno sarebbero stati in otto - Nora e la sua gang; Hannah e Gabe; Nana Demetrius, che si era trasferita nella contea di Orange dopo la morte di Takis, più l’ex compagna di camera di Nora al college. Non molti, quindi. A Nora capitava spesso di nutrire quella che le sembrava la metà dei cuori solitari della California orientale, compresi i single invitati con l’esplicito intento di far loro conoscere la sorella divorziata - e non sarebbe stato carino per Hannah ritrovarsi in coppia senza neppure saperlo? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui lei non sarebbe più stata il grande problema di famiglia da risolvere?

    Praga - Repubblica Ceca

    Il rasoio baluginava nel sole mattutino mentre si spostava avanti e indietro, indietro e avanti sulla coramella di cuoio scuro fatta passare in un porta asciugamani incassato nella parete di piastrelle bianche e azzurre. L’ex soprintendente di Scotland Yard, William Teagarden, sprofondava sempre nelle fantasticherie durante la toilette mattutina. Quello che gli piaceva dei rasoi a manico era che con quelli non si poteva avere fretta. Il ritmo lento dell’arcaica routine della rasatura - lama sulla coramella, pennello nella ciotola, acciaio sulle basette - lo costringeva a rallentare a sua volta, e a pensare.

    In quel momento era profondamente immerso nei propri pensieri. Posato il rasoio sul bordo del lavabo della camera d’albergo, prese la ciotola del sapone e con il pennello cominciò ad applicarselo sul viso, mentre bisbigliava lo stesso ritornello: «Dove, dove, dov’era finito quel maledetto Van Gogh?».

    Il rasoio a manico e il pennello di peli di cinghiale erano oggetti antiquati, ma accessori perfetti per un uomo dal portamento militare e i baffi a manubrio che sembravano usciti dai giorni dell’impero. Teagarden aveva lavorato trent’anni come agente della polizia metropolitana di Londra, gli ultimi sei e mezzo nel ruolo di capo dell’unità Arti e Antichità. Era cresciuto a Manchester, figlio unico di un operaio tessile di buon cuore ma un po’ rude e una donna bella e colta che la famiglia aveva abbandonato quando si era sposata al di sotto del suo ceto sociale. Lei aveva affrontato con stoicismo le rinunce legate al matrimonio, lo squallido appartamento popolare, la cronica mancanza di denaro per un viaggio o per comprare qualcosa di grazioso, ma aveva instillato nel figlio l’amore per la musica e per l’arte, portandolo a concerti e nei musei ogni qualvolta le era possibile, attingendo alle biblioteche per fargli conoscere libri che descrivevano le meraviglie del mondo. Non c’era quindi da sorprendersi che Teagarden si fosse letteralmente lanciato sull’opportunità di contribuire a recuperare alcune delle opere d’arte del valore di milioni di sterline che ogni anno venivano trafugate.

    Mentre si insaponava il collo, tornò con la mente all’elenco di opere rubate che figurava nell’Art Loss Register britannico e nell’IFAR, ossia International Foundation For Art Research, con base a New York. Erano cifre che bastavano a farlo star male: quasi trecento Picasso, un paio di centinaia di Mirò e Chagall, parecchi Rembrandt, Manet, Munch, Vermeer, Da Vinci, Goya... la lista sembrava non finire mai. E naturalmente, c’era il Van Gogh.

    L’incarico di responsabile dell’Unità Arte non aveva solo dato il tocco finale alla sua carriera presso la polizia metropolitana; rappresentava anche il lavoro dei suoi sogni. Sarebbe stato felice di continuare a svolgerlo fino alla morte, se non fosse stato costretto dai burocrati a ritirarsi. «Clinicamente non idoneo al lavoro» avevano detto dopo il secondo attacco cardiaco; ma erano idiozie. Il comandante a cui rispondeva era in cerca di un pretesto per liberarsi di lui. Esile micromanager con illusioni di genialità, il comandante era arrivato traboccante risentimento e ambizioni elevate - che Dio aiutasse chiunque veniva percepito come una minaccia alle sue aspirazioni. Era già abbastanza irritante che Teagarden si fosse mostrato impervio al suo arrogante stile manageriale, ma l’ultima goccia era stata un vistoso articolo di più pagine del Daily Mirror sui successi dell’Unità Arte, completo di foto a colori di Teagarden e di alcune delle opere da lui recuperate - l’incomparabile Vergine delle rocce di Leonardo, una scultura di Brancusi, una delle ballerine di Degas.

    «Inopportuno» aveva decretato gelido il comandante. Ovviamente, non muoveva mai obiezioni agli articoli che comprendevano una sua citazione, o una foto del suo brutto muso, neppure su un giornalaccio come il Mirror.

    Teagarden riprese il rasoio e ricominciò a occuparsi della sua faccia. Della stampa non gliene importava nulla, ma ogni volta che veniva pubblicato uno di quei pezzi, le visite al sito web dell’unità andavano alle stelle, e così le informazioni fornite dalla gente. Non era bastato. Poco tempo dopo l’uscita dell’articolo del Mirror il comandante gli aveva ordinato di sottoporsi a un checkup completo, quindi si era impadronito dei risultati per citargli le linee guida del Dipartimento e cacciarlo dall’Unità. Nel giro di tre mesi, la stessa era stata ridotta di numero e ingoiata da un’altra sezione - una ridistribuzione di risorse per compiti di priorità più elevata.

    Lo sgomento di Teagarden aveva avuto vita breve. I clienti privati provvisti di soldi e disposti a pagare molto bene per lo stesso lavoro di indagine che a lui aveva garantito solo una misera pensione da funzionario civile e una frettolosa cacciata dalla MET, non mancavano. Aveva risolto casi difficili durante gli anni di attività e la reputazione che si era fatto gli era tornata utile quando si era messo in proprio, oliando cardini e aprendogli le porte dell’Interpol, dell’FBI e di altre agenzie internazionali. Capitava perfino che gli mandassero clienti quando le loro risorse investigative si trovavano con le mani legate. Era così che la Yale University, proprietaria del Caffè di notte lo aveva contattato. Teagarden era sulle tracce del dipinto quarantotto ore dopo il furto di Capodanno presso l’Arlen Hunter Museum.

    Quei furti non erano mai provocati dall’amore per l’arte. Messi di fronte alla possibilità di essere scoperti o arrestati, i ladri erano più inclini a distruggere un dipinto che a permettergli di fungere da prova.

    Ogni giorno che passava, cresceva esponenzialmente il rischio che le fragili vecchie tele venissero gravemente danneggiate o perdute per sempre.

    La polizia di Los Angeles era stata molto meno cordiale, concentrata com’era sugli omicidi che avevano accompagnato il furto. Anche Teagarden era rimasto sgomento davanti a quella tragedia, ma come aveva cercato di far capire ai detective della Omicidi, l’unica maniera per arrivare agli assassini stava nello scoprire chi si era interessato solo a quel capolavoro fra i tanti esposti durante la mostra La Follia e il Capolavoro.

    I casi precedenti gli avevano insegnato che i colpevoli erano spesso ladri da due soldi. Occasio facit furem - l’occasione rende l’uomo ladro. Ecco perché erano così tante le

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