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Prigioniera dei sensi: Harmony Destiny
Prigioniera dei sensi: Harmony Destiny
Prigioniera dei sensi: Harmony Destiny
E-book141 pagine1 ora

Prigioniera dei sensi: Harmony Destiny

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Info su questo ebook

La sua vacanza da sogno non poteva concludersi in modo peggiore. Rinchiusa in prigione con un'accusa di furto, Debbie Harris non riesce ancora a credere di essersi cacciata in un simile guaio. E il fatto che il proprietario dell'intera isola sia un suo ex fidanzato non depone certo a proprio favore. Gabriel Vaughn è ancora sexy come lo ricordava e il suo fascino è addirittura incrementato da quella luce pericolosa che brilla nei suoi occhi. Una cosa è certa, deve stargli alla larga, ma sarà difficile, visto che lui l'ha costretta agli arresti domiciliari nella sua camera da letto!
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2016
ISBN9788858950852
Prigioniera dei sensi: Harmony Destiny
Autore

Maureen Child

Maureen Child ha al suo attivo più di novanta tra romanzi e racconti d'amore. È un'autrice molto amata non solo dal pubblico ma anche dalla critica, infatti è stata nominata per ben cinque volte come migliore autrice per il prestigioso premio Rita.

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    Anteprima del libro

    Prigioniera dei sensi - Maureen Child

    successivo.

    1

    «Santo cielo, sono in prigione.» Debbie Harris serrò le dita attorno alle sbarre della cella in cui era stata rinchiusa e vi diede una scossa, in preda alla frustrazione. La vibrazione metallica echeggiò sinistra attorno a lei. «Sono una criminale, perdiana. Verrò schedata.»

    Batté la fronte contro le aste d'acciaio e la paura le tolse il fiato.

    Forza, Deb, si disse, cercando di tirarsi su di morale, non ti avvilire. È tutto un errore. Presto l'equivoco verrà chiarito e sarai liberata. In fondo, non sei ad Alcatraz.

    Effettivamente, si trovava in una linda stanzetta dalle pareti imbiancate di fresco, con un grazioso plaid bianco e rosso disteso sopra la branda. C'erano un tavolo e una sedia addossati a una parete, un lavandino e un water discretamente nascosti dietro un paravento. La cella accanto alla sua era vuota e una porta chiusa la separava dall'ufficio della guardia carceraria.

    Guardò crucciata quella porta perché altro non poteva fare. L'uomo che l'aveva rinchiusa in quella cella era stato gentile, ma del tutto disinteressato ad ascoltare le sue ragioni. E ora lei era lì, attonita, a chiedersi che razza di reato avesse commesso.

    Fuori dalla finestra protetta dalle sbarre, il cielo tropicale era di un azzurro intenso, con solo qualche bianco batuffolo di nubi qua e là, e i raggi del sole si allungavano in strisce dorate sui mattoni di terracotta. Debbie poggiò la testa contro le sbarre, ricordando le circostanze che l'avevano condotta in prigione.

    Dopo quasi quattro settimane su quell'isola tropicale, ospite del Fantasy, il magnifico villaggio turistico famoso in tutto il mondo, Debbie aveva fatto i bagagli e si era diretta al piccolo aeroporto per prendere l'aereo che l'avrebbe riportata a casa, a Long Beach, in California. Dove si sarebbe già dovuta trovare.

    Insieme agli altri passeggeri, aveva depositato i bagagli al check-in ed era passata lungo il corridoio del metal detector.

    Giunta davanti all'ufficiale di dogana, aveva consegnato il passaporto e aveva osservato la faccia dell'uomo mutare espressione e diventare gelida e marmorea mentre controllava il documento e la scrutava, con la fronte corrugata.

    Nonostante avesse avuto la coscienza a posto, era entrata in agitazione all'istante, sentendosi una sorta di trafficante di diamanti o di droga. Il panico l'aveva assalita quando un poliziotto l'aveva invitata ad abbandonare la fila e a seguirlo.

    «Che cosa succede?» aveva chiesto, fissando lo sguardo sulla mano dell'agente stretta attorno al suo braccio. «Che problema c'è? Me lo volete dire?»

    L'uomo non aveva detto una parola mentre la trascinava via dalla folla neanche fosse una pericolosa terrorista.

    «Lei è la signorina Deborah Harris, vero?» le era stato chiesto.

    «Sì.»

    «Americana?»

    «Sì.» Debbie aveva evitato di guardarsi intorno, ma aveva sentito gli sguardi di tutti addosso. Sollevando il mento e allargando le spalle, aveva cercato di assumere un atteggiamento austero e dignitoso.

    Ma non era stato facile, considerata la paura divorante.

    Sono innocente, avrebbe voluto gridare, ma sapeva che nessuno le avrebbe creduto.

    «Pare ci siano problemi con il suo passaporto» le aveva detto l'agente.

    «Che cosa? Quali problemi? Era tutto a posto fino a qualche minuto fa.»

    «Le riferisco solo quello che mi hanno detto alla dogana.»

    «Ma è assurdo. Non so che cosa diamine stia succedendo, ma le assicuro che non ho fatto nulla di male e ho un aereo da prendere.»

    «Temo che dovrà rimandare la partenza, signorina. Se vuole seguirmi...»

    Perché non era ripartita una settimana prima insieme a Janine e Caitlyn? In compagnia delle sue amiche, sarebbe stata molto più tranquilla. Janine avrebbe fatto qualche battuta delle sue e Caitlyn avrebbe cercato di fare la carina con l'ufficiale della dogana. Unendo le forze, si sarebbero cavate da quell'impiccio in quattro e quattr'otto.

    Ma le sue amiche erano a casa, ora, ciascuna alle prese con i preparativi del proprio matrimonio.

    Era stato un mese decisamente movimentato. Erano arrivate a Fantasy con la precisa idea di svagarsi. Nel corso dell'anno precedente, erano state tutte e tre lasciate dai rispettivi fidanzati alla vigilia delle nozze. E così avevano deciso di utilizzare i soldi messi da parte per il matrimonio regalandosi una vacanza a cinque stelle. Si erano divertite come matte finché l'affiatato terzetto non si era sciolto quando era sopraggiunto il grande amore sia per Janine sia per Caitlyn.

    Caitlyn si era fidanzata proprio con il capo dal quale inizialmente era fuggita e Janine... Debbie emise un sospiro, trasognata. Aveva parlato con l'amica appena il giorno prima e aveva saputo che il suo innamorato londinese l'aveva raggiunta nientemeno che in California per proporle di sposarlo. E ora Janine si accingeva a trasferirsi in Inghilterra, Caitlyn stava preparando il ricevimento nuziale che sua madre aveva sempre sognato... e lei era finita in prigione.

    Non era giusto. Le sue amiche avevano trovato l'amore, mentre a lei non sarebbe potuta andare peggio di così.

    «Dev'esserci un errore» aveva detto, puntando i piedi, allorché l'agente in scintillante uniforme bianca l'aveva trascinata attraverso le porte del terminal. «Controlli bene...»

    «Non c'è nessun errore, signorina Harris.» Era un tipo alto, carnagione scura, con un paio di occhi marroni che la scrutavano come fosse uno strano esemplare di insetto. E aveva anche una discreta forza. I suoi tentativi di liberarsi dalla sua presa erano tutti falliti miseramente. «Sono della sicurezza. Deve venire con me.»

    «Ma i miei bagagli...» Aveva gettato uno sguardo all'indietro, al piccolo aeroporto brulicante di persone.

    «Stia tranquilla, verranno recuperati.» Aveva una voce musicale, ma lo sguardo era implacabile.

    «Sono una cittadina americana» aveva provato a ricordargli, nella speranza che la precisazione sortisse qualche positivo effetto.

    «Lo so» le aveva risposto lui semplicemente, sospingendola all'interno della jeep rossa e bianca.

    Durante il tragitto, Debbie aveva anche pensato di gettarsi fuori dalla vettura e correre a rotta di collo. Ma per andare dove? Era su un'isola. Non poteva andarsene se non a bordo di un'imbarcazione o di un velivolo. E così, senza reagire, aveva atteso che l'agente prendesse posto accanto a lei per domandargli che cosa stesse succedendo.

    Lui le aveva semplicemente risposto che obbediva a ordini superiori e alla sua domanda su chi fossero i suoi superiori, l'uomo aveva messo in moto la piccola vettura, conducendola per una strada lunga e dritta che li aveva riportati al villaggio turistico, senza darle alcuna risposta.

    Il vento in faccia le aveva fatto lacrimare gli occhi, ma Debbie temeva che le lacrime vere non fossero così lontane. Aveva lo stomaco contratto, le mani sudate, un nodo di paura e di tensione che le occludeva la gola.

    Era su quell'isola sperduta, da sola.

    E non aveva la più pallida idea di che cosa le sarebbe successo.

    Con un sospiro, Debbie si sottrasse al turbine dei ricordi e si guardò intorno, sforzandosi di dominare l'ansia crescente. Erano passate due ore da quando la guardia l'aveva rinchiusa in quella cella. Da allora non aveva più visto nessuno. Non le era stato concesso di telefonare a nessuno.

    Quali erano le leggi in vigore su quell'isola? Aveva dei diritti? Nessuno le diceva nulla. A nessuno pareva importare che fosse stata sbattuta in prigione senza un perché.

    «Potrei pure marcire per il resto dei miei anni qui dentro» si lamentò, scrutando la graziosa stanzetta come se fosse un umido sotterraneo con delle minacciose catene di ferro agganciate alle pareti. «Nessuno lo verrà mai a sapere. Nessuno si chiederà che fine ho fatto e...»

    Si bloccò di scatto, interrompendo il lavorio della propria immaginazione. «Per la miseria, Deb, cerca di non perdere il controllo. Ragiona. Prima o poi Janine e Cait si chiederanno dove sei e ti verranno a cercare. In fondo, non sei ad Alcatraz. Vedrai, è un equivoco che presto si chiarirà.»

    Sembrava convinta.

    Ma dentro di sé sapeva che non era così.

    A un tratto udì delle voci provenire dall'ufficio attiguo. Erano solo dei bisbiglii, ma perlomeno non era sola in quel posto. «Ehi, c'è qualcuno?»

    Si aggrappò alle sbarre. «C'è qualcuno?» ripeté. «Devo fare una telefonata! Vi prego, ho bisogno di fare una telefonata!»

    La porta si aprì lentamente e Debbie tirò un sospiro di sollievo. Doveva mantenere la calma, insistere per parlare con il proprietario dell'isola, per sapere che cosa diamine fosse successo e pretendere di essere liberata. Basta con i piagnistei. D'ora in poi avrebbe sfoderato la grinta e sostenuto le sue ragioni. Non poteva mollare proprio adesso.

    Si fece forza, preparandosi ad affrontare chiunque stesse per entrare. Ma quando vide l'uomo in pantaloni scuri e camicia bianca, capelli biondi lunghi fino alle spalle, che le sorrideva, provò un qualcosa di caldo e intenso che non sperimentava da almeno una decina d'anni.

    «Gabe?» articolò con un filo di voce. «Gabriel Vaughn?»

    «Ciao, Debbie» echeggiò una voce intensa e pastosa, proprio come lei la ricordava. «Da quanto tempo.»

    Lei batté le palpebre e lo osservò dirigersi verso la sua cella. Nonostante la situazione, un'ondata di emozioni e di ricordi la assalì. Ricordi di ciò che lei e Gabe avevano condiviso un tempo.

    Le bastò guardarlo in viso per cancellare gli anni passati e rinnovare il ricordo dell'ultima loro notte insieme.

    La notte in cui lui le aveva chiesto di sposarlo.

    La notte in cui lei gli aveva detto di no ed era sparita.

    I suoi passi rimbombavano contro l'impiantito di cemento. Quando si avvicinò, i fasci di luce che penetravano dalle sbarre gli delinearono la figura; ma il viso rimase in ombra. «A quanto pare, sei nei guai, Deb.»

    «Puoi dirlo forte» ammise, e allorché lui non le rispose, limitandosi a osservarla, continuò a parlare poiché non sopportava

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