Il mio posto
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Anteprima del libro
Il mio posto - Orazio Viscuso
633/1941.
PREFAZIONE
I giovani e il mondo moderno. Con l'accesso alla tecnologia, i vestiti alla moda a basso costo e tutti gli svaghi, che le passate generazioni si sognavano, si pensa di certo che abbiano molte opportunità, ma è più corretto dire che molti giovani subiscono oggi una pressione maggiore che mai nella storia. Queste pressioni e stress crescono, tanto da non far meravigliare che i giovani possano perdere la loro strada nella vita e che non sappiano cosa possa riservargli il futuro. Alcuni si forzano molto per riuscire a superare gli esami, perché sanno che andare all'università o avere dei risultati a scuola può aiutare il loro futuro, riconoscendo i sacrifici fatti dai propri genitori per mantenerli agli studi. Altri, invece, vivono il mito degli anni dell’università come se fosse eterno, l’affitto pagato dai genitori, qualche esame dato di tanto in tanto senza troppa convinzione, e aspettano che un giorno succederà qualcosa, che il mondo, prima o poi, capisca quanto valgano. Aspettano di trovare finalmente il loro posto. Senza troppa convinzione.
Perché i nuovi giovani non si accontentano più, non conoscono il senso di sacrificio, vogliono tutto e il processo della loro indipendenza è sempre più lontano. Il tutto è ricercato a spese della famiglia e, intanto, si resta in sosta dentro una situazione che da un lato non si sente propria, ma dall’altro, fa invece molto comodo e prolunga lo stato di non crescita e non responsabilità. Certo i tempi sono politicamente incerti, c’è la pressione di dover andare all’università e dall’altra c’è anche un’allarmante mancanza di impiego giovanile, a prescindere dal titolo di studio. Questo porta ad aver paura del futuro, a perdere la speranza e la fiducia in se stessi.
Questa è la storia di Paolo. Tanti sogni e aspirazioni, ma vaghi e confusi. Detesta la noia, la routine, ma anche l’eccesso di responsabilità, le banalità, non riesce a concretizzare le aspirazioni, limitandosi a vivere alla giornata, senza fare alcun vero progetto per il futuro. Studente di Lettere, sogna di diventare uno scrittore. Forse. Orfano di padre, con un fratello artista che invidia, e una madre dedita alla figlia disabile, Paolo è studente fuorisede a Catania, e divide con Carlo un bivani. Decide di abbandonare l’idea di continuare gli studi, ma quando comprende che in cambio dovrà lavorare, ripensa di riprendere l’università e di ritornare dal suo coinquilino a Catania. Con un affitto rigorosamente pagato dalla madre, Paolo rispolvera i suoi libri e cerca il suo posto. Quando le nuove vicine di appartamento saranno catapultate nella sua monotona e incerta esistenza, troverà il suo posto tra corde scordate di chitarra e un canto soave. Confinerà, forse, nei sogni di una ragazza?
I
Da qualche tempo mi trattenevo a lungo a letto la mattina. Il fragore del sole, sulle socchiuse persiane, rimbombava tra le alte pareti della camera, alternando scure bande orizzontali a macchie d’abbagliante chiarore; gravoso chiarore, come nebbia tutt’intorno, soffocante. Ma sotto il leggero lenzuolo, che mi nascondeva gli occhi e la fronte, un piccolo mondo sommerso si raccoglieva nell’ombra schiudendo i suoi segreti. Il gualcito tessuto di cotone, a righe azzurre e verdi, come vetro smerigliato rifulgeva alla luce che la sottile trama lasciava filtrare. Rannicchiato al sicuro in quell’involucro, quasi uno scrigno dai riflessi opalini, m’immaginavo sospinto alla deriva da mansuete correnti d’oceani lontani. Altri pensieri si accompagnavano, ma, come risacca, scivolavano via, dissolvendosi l’uno dentro l’altro prima che io potessi riconoscerli, dar loro una forma, un’identità. Con risolutezza troppo repentina perché la mia pigra volontà potesse rigettarne i solerti propositi, poggiai il piede sinistro sul pavimento. La dolce melassa di quel torpore svaporò improvvisamente. Al suo posto solo una sottile patina di sudore sulla pelle, residuo di quel mondo liquido nel quale i sogni mi avevano condotto. L’emersione del risveglio, a volte, mi lasciava smarrito.
D’improvviso avvertivo, con sconcertante disinvoltura, che regole e criteri, logici e naturali sino a qualche istante prima, al momento non possedevano più alcuna validità; qualcosa nella mia mente li aveva abrogati. Solo pochi attimi. Poi lo spazio spoglio della camera mi appariva in tutta la solida ineluttabilità della sua disarmante fattualità: le forme, gli oggetti; ne riconoscevo la consuetudine e la noia. Smarriti i contorni labili di quel mondo che persiste, ancora per pochi attimi, negli occhi velati di sonno, poco prima che la coscienza si posi sugli oggetti, sulle cose di sempre, imprigionate in un nome assegnato, tutto appariva esattamente per ciò che sembrava.
Pareti bianche, intonaco scrostato, rombi rossi e neri ripetuti dalle piastrelle del pavimento, una larga macchia per infiltrazioni d’acqua sul tetto. Lo scrittoio polveroso era disseminato di libri: una grammatica latina accanto ad un manuale di geografia; letteratura italiana, filosofia e filologia romanza formavano una pila dalla precaria stabilità. Sullo schienale della sedia, di fronte allo scrittoio, stavano ravvolti gli indumenti smessi: il costume per la smisurata rappresentazione alla quale anch’io (come ognuno, d’altronde, a suo modo), che lo volessi o meno, partecipavo. Solitamente sfilavo dalle grucce dell’armadio quegli abiti che l’uso aveva reso confortevoli, abbinandoli secondo immutabili combinazioni. Sul lato opposto della camera rispetto al letto, rimaneva, solo, un piccolo tavolino. Spesso, soprattutto la sera, preferivo mangiare nella mia stanza piuttosto che unirmi in cucina a Carlo, il coinquilino con cui dividevo il bivani preso in affitto.
Mi diressi alla finestra, accanto ai piedi del letto. Aprii le persiane e un’aria dorata, vischiosa come miele invase la camera irrorandola d’effluvi sfrontati. Guardai in basso verso la strada dalla quale proveniva una grigia sarabanda di suoni metallici mescolati all’indistinto vociare dei passanti. Qualcuno di essi curvo, con passo spedito e gli occhi fissi sulle scarpe; i più con volto sereno, camminavano lentamente, osservando le vetrine sul fianco ombreggiato del marciapiede. Via Vittorio Emanuele si proiettava verso il lungomare che sfumava nella densa luminescenza dell’orizzonte e una serpeggiante colonna di automobili dai motori borbottanti invadeva disordinatamente la corsia preferenziale. Tra i vecchi palazzi che fiancheggiavano la via, alcuni conservavano ancora un’eleganza capricciosa, una cupa magnificenza che si mostrava nelle solide lesene dai conci squadrati, nelle dentellate cimase che ne cingevano i volumi, nei conturbanti e lascivi stucchi barocchi, nelle mensole dai volti cornuti di satiri che sorreggevano piccoli balconcini appena aggettanti e negli ampi portoni verso cortili immersi in un’ombrosa frescura.
Sotto la calura degli ultimi giorni di Settembre che, in Sicilia, si trascina almeno sino al mese successivo, vidi un ragazzo accanto ad una ragazza. Camminavano sul marciapiede tenendosi di tanto in tanto per mano. A tratti si voltavano verso le vetrine dei negozi, forse cercando i riflessi di loro due insieme, per sapere che aspetto avessero dall’esterno. Avrebbero discusso dei loro studi, delle inutili lezioni, degli esami imminenti e di tutto il tempo che andava sprecato perché impiegato lontano dalle braccia l’uno dell’altra o in pensieri che non riguardavano le larghe mani di lui, i corti capelli castani di lei, le loro labbra unite, i loro sguardi fissi su un mondo lontano che fosse solo per loro.
Sul balcone dirimpetto alla mia finestra, una signora, vestita di un’ampia veste da casa a fiori gialli e rossi, era curva come una contadina e lavava il pavimento spingendo, con un manico di scopa, uno straccio intriso d’acqua. Robusta di corpo, il volto scuro e rugoso che non aveva età. Lavorava ad ore come donna delle pulizie. A mezzogiorno circa, con lo scampanio della sesta canonica, si sarebbe incamminata verso la sua piccola abitazione, dove nessuno l’avrebbe attesa. Dopo aver pranzato con del tonno in scatola ed un’insalata di pomodori conditi con olio sale e aceto, si sarebbe distesa sulla sua comoda sdraio mentre il mormorio della televisione accesa le avrebbe conciliato il sonno. A pomeriggio inoltrato si sarebbe svegliata e avrebbe innaffiato le sue innumerevoli piante poste in vasi d’ogni foggia e misura.
Si sarebbe poi certamente ricordata di far visita alla sua vicina per la quale nutriva una grande antipatia per qualche ragione che non riusciva più a ricordare (ma un motivo c’era, ne era sicura). Erano ormai tre giorni che non si faceva vedere e non era più possibile rinviare. Per cena si sarebbe accontentata di un po’ di pane e formaggio. Sarebbe poi andata subito a dormire in quell’ampio letto matrimoniale, rimasto per metà vuoto da quasi dieci anni, se non le fosse improvvisamente sovvenuto il ricordo di quella foto, riposta nel cassetto del comò, sotto le sue camicie da notte e la biancheria intima. L’avrebbe ritrovata immediatamente, quasi l’avesse avuta sempre sott’occhio. Un rapido sguardo: lei ed il marito, Piazza San Marco, il viaggio di nozze.
Un anziano indossava un cappello di feltro grigio con la tesa leggermente abbassata sul viso. La mano destra faceva oscillare avanti ed indietro, con moto elegante, un bastone da passeggio di cui non mostrava alcun bisogno. Camminava spedito. Usciva da un bar con in mano un involto stretto da un nastro d’argento. Portava delle paste per sua nipote, che, seduta sulle gambe del nonno, avrebbe tentato di costruire precarie casette di carta con piccole mani unte di zucchero, mentre piedini altalenanti, chiusi in graziose scarpette di vernice rossa, avrebbero martoriato le illividite ginocchia dell’anziano signore. Si sarebbe diretto verso casa di suo figlio, dove era atteso, come ogni settimana a quell’ora, per pranzare con le persone a lui più care da quando aveva dato l’ultimo bacio in fronte alla moglie, stesa su un feretro foderato di velluto bianco.
Giù per la strada il sole continuava a frangersi contro il garbuglio mutevole delle lamiere luccicanti, rimbalzando, a barbagli intermittenti, tra le automobili che procedevano a passo d’uomo.
Osservare immobile e distante… Interrogare i tratti, i gesti e le abitudini di vite affatto sconosciute e avvertire la vertigine, esaltante come un tuffo nel vuoto, delle innumerevoli esistenze possibili; combinazioni, potenzialmente infinite, dalle quali ero inevitabilmente escluso. Non era necessario credere, l’inaccessibile congegno si dispiegava immane, sfidando l’assurdo. Aveva senso, forse, chiedersi della felicità?
Lo sforzo affabulatorio, per sciogliermi da quell’asfissiante estraneità, si risolveva nell’invenzione che, rassicurante, ogni cosa dispone all’ordine e al fine. Ma era come suonare uno strumento stonato e svisare tra le note alla ricerca di un accordo con altri, più talentuosi musicanti, stravolgendone inevitabilmente l’armonia e mancando d’intesa con l’orchestra.
Tutti sembravano occupare un posto in quella misteriosa danza. Ma per quella festa, non avevo invito; attendevo che mi fosse assegnato, ma forse l’avevo perduto.
Mi ritrassi dalla finestra, lasciandola aperta per consentire il ricambio d’aria. Mi vestii rapidamente indossando gli abiti appoggiati sullo schienale della sedia.
Andai in bagno per sciacquarmi il viso e gli occhi ancora gonfi di sonno. Per la scarsa pressione, l’acqua che scorreva dal rubinetto era un sottile filo d’argento; la raccoglievo sulle mani congiunte a conca e, dopo averne accumulata una quantità sufficiente, la gettavo sul volto. Il mio riflesso sullo specchio sopra il lavabo mi diceva di giornate vissute pigramente, in attesa di risposte a domande oziose con le quali mi lambiccavo per paura d’agire.
Carlo, nella stanza accanto alla mia, aveva acceso l’amplificatore per iniziare, come quasi ogni giorno, i suoi esercizi di chitarra elettrica; iniziò con una banale scala pentafonica, probabilmente in Do maggiore. Un tempo anch’io prendevo lezioni di chitarra, ma mollai tutto nel giro di quattro anni. Avrei dovuto decidermi molto tempo prima ma mi riusciva odiosa l’idea d’aver fallito.
Perseveravo nei miei esercizi svogliatamente e con assoluta superficialità, spinto solo da un gravoso bisogno di dimostrare d’essere capace in qualcosa. Ero convinto che, attraverso quello strumento, sarei riuscito a procurarmi approvazione, ammirazione, forse persino invidia. L’insegnante da cui prendevo lezioni private (pagato da mia madre anche più di quanto meritasse) era un ragazzone robusto, sui trent’anni e con lunghi capelli neri completamente lisci, che, con esuberanza, ricadevano sul manico della chitarra durante assoli particolarmente virili nei quali tutto il suo massiccio corpo era coinvolto e piegato in avanti. Dava lezioni in uno spoglio appartamento che abitava da solo, arredato con pochi e cadenti mobili che erano appartenuti ai suoi genitori, morti da qualche anno. Beveva litri di caffè e lamentava continui mal di testa. Gettava in un bicchiere colmo d’acqua due pasticche d’aspirina effervescente e sperava che il dolore sarebbe rapidamente scomparso. Sono quasi sicuro, però, che quelle pasticche su cui riponeva tanta fiducia fossero perfettamente inutili: considerando le occhiaie scure attorno alle sue palpebre stanche per mancanza di sonno, sarebbe stata certamente più fruttuosa una profonda dormita. Seppi, infatti, da lui, che di notte provava i pezzi che avrebbe dovuto suonare giusto la mattina seguente con la sua band. Era un insegnante molto tollerante ed indulgente. Probabilmente aveva bisogno di soldi e riteneva che un suo rimprovero avrebbe potuto scoraggiarmi, perdendo così la mia mensilità, versata sempre con estrema puntualità. In questo aveva agito con estrema avvedutezza. Un giorno, però, eseguii un esercizio d’improvvisazione in modo talmente atroce che lui non riuscì a trattenere una risata. Divenni rosso di rabbia. È vero che, forse per pigrizia, avevo dedicato a quell’esercizio non più di una decina di minuti; in altre occasioni, però, la reazione del mio insegnante non era stata certo quella di ridermi in faccia, anzi, spesso ripeteva quanto fosse soddisfatto dei miei costanti progressi. Era chiaro che la chitarra aveva smesso da tempo d’esercitare su di me il ben che minimo interesse. Avevo già capito da un pezzo che con quello strumento non avrei ottenuto un bel nulla: niente approvazione, né ammirazione, sarei rimasto ciò che ero e nessuno mi avrebbe purtroppo invidiato.
Ciò che c’era di buono in quelle lezioni era la loro cadenza regolare, un rito rassicurante che mi permetteva di continuare ad aspettare che qualcosa, prima o dopo, cambiasse. Una scelta radicale, come quella d’abbandonare i miei studi musicali, avrebbe richiesto uno sforzo troppo grande, avrei dovuto ricominciare da capo, cercando qualcos’altro da dare in pasto alle mie vaghe ambizioni di rivalsa. Ciò nonostante bastò quella risata appena trattenuta, ma in fondo bonaria, a farmi crollare.
Mi sentii umiliato, dopotutto se le mie abilità erano tanto carenti, era soprattutto colpa sua. Non andai a lezione per diverse settimane fingendo d’essere ammalato. Ovviamente questa scusa non avrebbe retto a lungo, così, alla terza settimana, gli telefonai comunicandogli che, d’ora in poi, non avrei più potuto prendere lezioni perché oberato dagli studi universitari. Quella volta, la vergogna d’un nuovo incontro faccia a faccia, fu più forte della mia riluttanza a risolvermi per una decisione irrevocabile. Da allora non so se mi ritrovai ancora a strimpellare qualcosa alla chitarra, proprio non ricordo.
Attraversai il corridoio per entrare in cucina. Lì, in quella stagione, il silenzio era un costante ronzio di mosche attorno alla vecchia tendina bianca appesa alla finestra e un penetrante odore di cibi conservati troppo a lungo. La mobilia era vecchia e cadente. Un’anta della credenza inclinava verso il pavimento retta dalla sola cerniera inferiore che, eroicamente, si ostinava, tutta sola, a reggere il peso dello scadente pannello di truciolato (nonostante la resa, ormai lontana nel tempo, della compagna superiore). Il piano cottura, ancora sporco di sugo dal pranzo del giorno precedente, aveva due bruciatori su quattro otturati; il frigo emetteva un fastidioso brusio ad intervalli irregolari e spesso perdeva acqua dal congelatore. Entrare in quella cucina mi metteva immediatamente di cattivo umore. Era soprattutto il mio coinquilino a prendersi cura che fosse sporca il meno possibile. Lavava piatti e posate e spazzava anche il pavimento; tutti compiti ai quali assolveva in maniera sommaria e con poca costanza. In compenso non si lamentò mai della mia scarsa disponibilità ad aiutarlo. Per quel che riguardava pranzo e cena, solitamente, ognuno pensava per sé. Io mangiavo spesso alla mensa universitaria. Qualche volta, la sera, acquistavo una pizza o del cibo cinese che poi consumavo nella mia stanza, da solo, o, se non aveva già cenato, in cucina insieme al mio compagno d’alloggio. Carlo, in ogni caso, preferiva deliziarsi con enormi piattoni di pasta che cucinava con un certo estro, intingendo maccheroni o spaghetti in salse d’ogni tipo: alle melanzane, ai finocchietti, ai peperoni, ai funghi (attenendosi a ricette sperimentate da lui personalmente e delle quali io detestavo anche solo l’odore), il tutto coronato, ovviamente, da un’ abbondante nevicata di parmigiano grattugiato.
Quando mi trasferii a Catania per frequentare la facoltà di lettere, Carlo fu la prima persona che conobbi. Abitava in quello stesso appartamento già da circa due anni. Era al primo anno di specializzazione, frequentavamo la stessa facoltà ma corsi diversi. Le sue maniere cordiali, la voce vivace e rotonda disponevano facilmente alla simpatia e riuscirono persino a piegare la mia tenace timidezza. Aveva una carnagione scura, capelli crespi neri, un timido accenno di pancia che deformava lievemente la polo rossa che indossava il giorno che ci conoscemmo. Mi fece vedere la sua camera: vestiti e libri buttati un po’ ovunque sul letto e sul pavimento, la sua chitarra elettrica poggiata al muro e sulle pareti immagini di gruppi rock degli anni ‘80 e dei primi anni ‘90. Parlammo di musica, di rock soprattutto: di epici assoli di chitarra,