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Il mio posto
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E-book235 pagine3 ore

Il mio posto

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I giovani e le loro incertezze. C’è chi dipende ancora economicamente dai propri genitori, chi fa qualche lavoretto giusto per ribellarsi ad essi, chi è ligio al dovere e si laurea in tempi record con massimo dei voti e chi prova a dare qualche esame all’università senza troppa convinzione. Questo è il ritratto di Paolo e dei suoi amici. Paolo, dai sogni confusi e vaghi, studente di Lettere che aspira a fare lo scrittore ma che non ha mai scritto veramente qualcosa. Forse non ci crede nemmeno lui. Orfano di padre, fuorisede a Catania, mantenuto dalla madre, distante e indifferente nei confronti di una sorella disabile, invidioso di un fratello artista, Paolo non sa cosa vuole realmente dalla vita. Prima decide di abbandonare gli studi, ma quando comprende che gli toccherà lavorare, pensa di ritornare ai suoi libri impolverati. Cerca con disperazione il suo posto, aspetta che un giorno succederà qualcosa, che il mondo, prima o poi, capisca quanto valga.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2020
ISBN9788831684644
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    Anteprima del libro

    Il mio posto - Orazio Viscuso

    633/1941.

    PREFAZIONE

    I gio­va­ni e il mon­do mo­der­no. Con l'ac­ces­so al­la tec­no­lo­gia, i ve­sti­ti al­la mo­da a bas­so co­sto e tut­ti gli sva­ghi, che le pas­sa­te ge­ne­ra­zio­ni si so­gna­va­no, si pen­sa di cer­to che ab­bia­no mol­te op­por­tu­ni­tà, ma è più cor­ret­to di­re che mol­ti gio­va­ni su­bi­sco­no og­gi una pres­sio­ne mag­gio­re che mai nel­la sto­ria. Que­ste pres­sio­ni e stress cre­sco­no, tan­to da non far me­ra­vi­glia­re che i gio­va­ni pos­sa­no per­de­re la lo­ro stra­da nel­la vi­ta e che non sap­pia­no co­sa pos­sa ri­ser­var­gli il fu­tu­ro. Al­cu­ni si for­za­no mol­to per riu­sci­re a su­pe­ra­re gli esa­mi, per­ché san­no che an­da­re all'uni­ver­si­tà o ave­re dei ri­sul­ta­ti a scuo­la può aiu­ta­re il lo­ro fu­tu­ro, ri­co­no­scen­do i sa­cri­fi­ci fat­ti dai pro­pri ge­ni­to­ri per man­te­ner­li agli stu­di. Al­tri, in­ve­ce, vi­vo­no il mi­to de­gli an­ni dell’uni­ver­si­tà co­me se fos­se eter­no, l’af­fit­to pa­ga­to dai ge­ni­to­ri, qual­che esa­me da­to di tan­to in tan­to sen­za trop­pa con­vin­zio­ne, e aspet­ta­no che un gior­no suc­ce­de­rà qual­co­sa, che il mon­do, pri­ma o poi, ca­pi­sca quan­to val­ga­no. Aspet­ta­no di tro­va­re fi­nal­men­te il lo­ro po­sto. Sen­za trop­pa con­vin­zio­ne.

    Per­ché i nuo­vi gio­va­ni non si ac­con­ten­ta­no più, non co­no­sco­no il sen­so di sa­cri­fi­cio, vo­glio­no tut­to e il pro­ces­so del­la lo­ro in­di­pen­den­za è sem­pre più lon­ta­no. Il tut­to è ri­cer­ca­to a spe­se del­la fa­mi­glia e, in­tan­to, si re­sta in so­sta den­tro una si­tua­zio­ne che da un la­to non si sen­te pro­pria, ma dall’al­tro, fa in­ve­ce mol­to co­mo­do e pro­lun­ga lo sta­to di non cre­sci­ta e non re­spon­sa­bi­li­tà. Cer­to i tem­pi so­no po­li­ti­ca­men­te in­cer­ti, c’è la pres­sio­ne di do­ver an­da­re all’uni­ver­si­tà e dall’al­tra c’è an­che un’al­lar­man­te man­can­za di im­pie­go gio­va­ni­le, a pre­scin­de­re dal ti­to­lo di stu­dio. Que­sto por­ta ad aver pau­ra del fu­tu­ro, a per­de­re la spe­ran­za e la fi­du­cia in se stes­si.

    Que­sta è la sto­ria di Pao­lo. Tan­ti so­gni e aspi­ra­zio­ni, ma va­ghi e con­fu­si. De­te­sta la no­ia, la rou­ti­ne, ma an­che l’ec­ces­so di re­spon­sa­bi­li­tà, le ba­na­li­tà, non rie­sce a con­cre­tiz­za­re le aspi­ra­zio­ni, li­mi­tan­do­si a vi­ve­re al­la gior­na­ta, sen­za fa­re al­cun ve­ro pro­get­to per il fu­tu­ro. Stu­den­te di Let­te­re, so­gna di di­ven­ta­re uno scrit­to­re. For­se. Or­fa­no di pa­dre, con un fra­tel­lo ar­ti­sta che in­vi­dia, e una ma­dre de­di­ta al­la fi­glia di­sa­bi­le, Pao­lo è stu­den­te fuo­ri­se­de a Ca­ta­nia, e di­vi­de con Car­lo un bi­va­ni. De­ci­de di ab­ban­do­na­re l’idea di con­ti­nua­re gli stu­di, ma quan­do com­pren­de che in cam­bio do­vrà la­vo­ra­re, ri­pen­sa di ri­pren­de­re l’uni­ver­si­tà e di ri­tor­na­re dal suo coin­qui­li­no a Ca­ta­nia. Con un af­fit­to ri­go­ro­sa­men­te pa­ga­to dal­la ma­dre, Pao­lo ri­spol­ve­ra i suoi li­bri e cer­ca il suo po­sto. Quan­do le nuo­ve vi­ci­ne di ap­par­ta­men­to sa­ran­no ca­ta­pul­ta­te nel­la sua mo­no­to­na e in­cer­ta esi­sten­za, tro­ve­rà il suo po­sto tra cor­de scor­da­te di chi­tar­ra e un can­to soa­ve. Con­fi­ne­rà, for­se, nei so­gni di una ra­gaz­za?

    I

    Da qual­che tem­po mi trat­te­ne­vo a lun­go a let­to la mat­ti­na. Il fra­go­re del so­le, sul­le soc­chiu­se per­sia­ne, rim­bom­ba­va tra le al­te pa­re­ti del­la ca­me­ra, al­ter­nan­do scu­re ban­de oriz­zon­ta­li a mac­chie d’ab­ba­glian­te chia­ro­re; gra­vo­so chia­ro­re, co­me neb­bia tutt’in­tor­no, sof­fo­can­te. Ma sot­to il leg­ge­ro len­zuo­lo, che mi na­scon­de­va gli oc­chi e la fron­te, un pic­co­lo mon­do som­mer­so si rac­co­glie­va nell’om­bra schiu­den­do i suoi se­gre­ti. Il gual­ci­to tes­su­to di co­to­ne, a ri­ghe az­zur­re e ver­di, co­me ve­tro sme­ri­glia­to ri­ful­ge­va al­la lu­ce che la sot­ti­le tra­ma la­scia­va fil­tra­re. Ran­nic­chia­to al si­cu­ro in quell’in­vo­lu­cro, qua­si uno scri­gno dai ri­fles­si opa­li­ni, m’im­ma­gi­na­vo so­spin­to al­la de­ri­va da man­sue­te cor­ren­ti d’ocea­ni lon­ta­ni. Al­tri pen­sie­ri si ac­com­pa­gna­va­no, ma, co­me ri­sac­ca, sci­vo­la­va­no via, dis­sol­ven­do­si l’uno den­tro l’al­tro pri­ma che io po­tes­si ri­co­no­scer­li, dar lo­ro una for­ma, un’iden­ti­tà. Con ri­so­lu­tez­za trop­po re­pen­ti­na per­ché la mia pi­gra vo­lon­tà po­tes­se ri­get­tar­ne i so­ler­ti pro­po­si­ti, pog­giai il pie­de si­ni­stro sul pa­vi­men­to. La dol­ce me­las­sa di quel tor­po­re sva­po­rò im­prov­vi­sa­men­te. Al suo po­sto so­lo una sot­ti­le pa­ti­na di su­do­re sul­la pel­le, re­si­duo di quel mon­do li­qui­do nel qua­le i so­gni mi ave­va­no con­dot­to. L’emer­sio­ne del ri­sve­glio, a vol­te, mi la­scia­va smar­ri­to.

    D’im­prov­vi­so av­ver­ti­vo, con scon­cer­tan­te di­sin­vol­tu­ra, che re­go­le e cri­te­ri, lo­gi­ci e na­tu­ra­li si­no a qual­che istan­te pri­ma, al mo­men­to non pos­se­de­va­no più al­cu­na va­li­di­tà; qual­co­sa nel­la mia men­te li ave­va abro­ga­ti. So­lo po­chi at­ti­mi. Poi lo spa­zio spo­glio del­la ca­me­ra mi ap­pa­ri­va in tut­ta la so­li­da ine­lut­ta­bi­li­tà del­la sua di­sar­man­te fat­tua­li­tà: le for­me, gli og­get­ti; ne ri­co­no­sce­vo la con­sue­tu­di­ne e la no­ia. Smar­ri­ti i con­tor­ni la­bi­li di quel mon­do che per­si­ste, an­co­ra per po­chi at­ti­mi, ne­gli oc­chi ve­la­ti di son­no, po­co pri­ma che la co­scien­za si po­si su­gli og­get­ti, sul­le co­se di sem­pre, im­pri­gio­na­te in un no­me as­se­gna­to, tut­to ap­pa­ri­va esat­ta­men­te per ciò che sem­bra­va.

    Pa­re­ti bian­che, in­to­na­co scro­sta­to, rom­bi ros­si e ne­ri ri­pe­tu­ti dal­le pia­strel­le del pa­vi­men­to, una lar­ga mac­chia per in­fil­tra­zio­ni d’ac­qua sul tet­to. Lo scrit­to­io pol­ve­ro­so era dis­se­mi­na­to di li­bri: una gram­ma­ti­ca la­ti­na ac­can­to ad un ma­nua­le di geo­gra­fia; let­te­ra­tu­ra ita­lia­na, fi­lo­so­fia e fi­lo­lo­gia ro­man­za for­ma­va­no una pi­la dal­la pre­ca­ria sta­bi­li­tà. Sul­lo schie­na­le del­la se­dia, di fron­te al­lo scrit­to­io, sta­va­no rav­vol­ti gli in­du­men­ti smes­si: il co­stu­me per la smi­su­ra­ta rap­pre­sen­ta­zio­ne al­la qua­le an­ch’io (co­me ognu­no, d’al­tron­de, a suo mo­do), che lo vo­les­si o me­no, par­te­ci­pa­vo. So­li­ta­men­te sfi­la­vo dal­le gruc­ce dell’ar­ma­dio que­gli abi­ti che l’uso ave­va re­so con­for­te­vo­li, ab­bi­nan­do­li se­con­do im­mu­ta­bi­li com­bi­na­zio­ni. Sul la­to op­po­sto del­la ca­me­ra ri­spet­to al let­to, ri­ma­ne­va, so­lo, un pic­co­lo ta­vo­li­no. Spes­so, so­prat­tut­to la se­ra, pre­fe­ri­vo man­gia­re nel­la mia stan­za piut­to­sto che unir­mi in cu­ci­na a Car­lo, il coin­qui­li­no con cui di­vi­de­vo il bi­va­ni pre­so in af­fit­to.

    Mi di­res­si al­la fi­ne­stra, ac­can­to ai pie­di del let­to. Aprii le per­sia­ne e un’aria do­ra­ta, vi­schio­sa co­me mie­le in­va­se la ca­me­ra ir­ro­ran­do­la d’ef­flu­vi sfron­ta­ti. Guar­dai in bas­so ver­so la stra­da dal­la qua­le pro­ve­ni­va una gri­gia sa­ra­ban­da di suo­ni me­tal­li­ci me­sco­la­ti all’in­di­stin­to vo­cia­re dei pas­san­ti. Qual­cu­no di es­si cur­vo, con pas­so spe­di­to e gli oc­chi fis­si sul­le scar­pe; i più con vol­to se­re­no, cam­mi­na­va­no len­ta­men­te, os­ser­van­do le ve­tri­ne sul fian­co om­breg­gia­to del mar­cia­pie­de. Via Vit­to­rio Ema­nue­le si pro­iet­ta­va ver­so il lun­go­ma­re che sfu­ma­va nel­la den­sa lu­mi­ne­scen­za dell’oriz­zon­te e una ser­peg­gian­te co­lon­na di au­to­mo­bi­li dai mo­to­ri bor­bot­tan­ti in­va­de­va di­sor­di­na­ta­men­te la cor­sia pre­fe­ren­zia­le. Tra i vec­chi pa­laz­zi che fian­cheg­gia­va­no la via, al­cu­ni con­ser­va­va­no an­co­ra un’ele­gan­za ca­pric­cio­sa, una cu­pa ma­gni­fi­cen­za che si mo­stra­va nel­le so­li­de le­se­ne dai con­ci squa­dra­ti, nel­le den­tel­la­te ci­ma­se che ne cin­ge­va­no i vo­lu­mi, nei con­tur­ban­ti e la­sci­vi stuc­chi ba­roc­chi, nel­le men­so­le dai vol­ti cor­nu­ti di sa­ti­ri che sor­reg­ge­va­no pic­co­li bal­con­ci­ni ap­pe­na ag­get­tan­ti e ne­gli am­pi por­to­ni ver­so cor­ti­li im­mer­si in un’om­bro­sa fre­scu­ra.

    Sot­to la ca­lu­ra de­gli ul­ti­mi gior­ni di Set­tem­bre che, in Si­ci­lia, si tra­sci­na al­me­no si­no al me­se suc­ces­si­vo, vi­di un ra­gaz­zo ac­can­to ad una ra­gaz­za. Cam­mi­na­va­no sul mar­cia­pie­de te­nen­do­si di tan­to in tan­to per ma­no. A trat­ti si vol­ta­va­no ver­so le ve­tri­ne dei ne­go­zi, for­se cer­can­do i ri­fles­si di lo­ro due in­sie­me, per sa­pe­re che aspet­to aves­se­ro dall’ester­no. Avreb­be­ro di­scus­so dei lo­ro stu­di, del­le inu­ti­li le­zio­ni, de­gli esa­mi im­mi­nen­ti e di tut­to il tem­po che an­da­va spre­ca­to per­ché im­pie­ga­to lon­ta­no dal­le brac­cia l’uno dell’al­tra o in pen­sie­ri che non ri­guar­da­va­no le lar­ghe ma­ni di lui, i cor­ti ca­pel­li ca­sta­ni di lei, le lo­ro lab­bra uni­te, i lo­ro sguar­di fis­si su un mon­do lon­ta­no che fos­se so­lo per lo­ro.

    Sul bal­co­ne di­rim­pet­to al­la mia fi­ne­stra, una si­gno­ra, ve­sti­ta di un’am­pia ve­ste da ca­sa a fio­ri gial­li e ros­si, era cur­va co­me una con­ta­di­na e la­va­va il pa­vi­men­to spin­gen­do, con un ma­ni­co di sco­pa, uno strac­cio in­tri­so d’ac­qua. Ro­bu­sta di cor­po, il vol­to scu­ro e ru­go­so che non ave­va età. La­vo­ra­va ad ore co­me don­na del­le pu­li­zie. A mez­zo­gior­no cir­ca, con lo scam­pa­nio del­la se­sta ca­no­ni­ca, si sa­reb­be in­cam­mi­na­ta ver­so la sua pic­co­la abi­ta­zio­ne, do­ve nes­su­no l’avreb­be at­te­sa. Do­po aver pran­za­to con del ton­no in sca­to­la ed un’in­sa­la­ta di po­mo­do­ri con­di­ti con olio sa­le e ace­to, si sa­reb­be di­ste­sa sul­la sua co­mo­da sdra­io men­tre il mor­mo­rio del­la te­le­vi­sio­ne ac­ce­sa le avreb­be con­ci­lia­to il son­no. A po­me­rig­gio inol­tra­to si sa­reb­be sve­glia­ta e avreb­be in­naf­fia­to le sue in­nu­me­re­vo­li pian­te po­ste in va­si d’ogni fog­gia e mi­su­ra.

    Si sa­reb­be poi cer­ta­men­te ri­cor­da­ta di far vi­si­ta al­la sua vi­ci­na per la qua­le nu­tri­va una gran­de an­ti­pa­tia per qual­che ra­gio­ne che non riu­sci­va più a ri­cor­da­re (ma un mo­ti­vo c’era, ne era si­cu­ra). Era­no or­mai tre gior­ni che non si fa­ce­va ve­de­re e non era più pos­si­bi­le rin­via­re. Per ce­na si sa­reb­be ac­con­ten­ta­ta di un po’ di pa­ne e for­mag­gio. Sa­reb­be poi an­da­ta su­bi­to a dor­mi­re in quell’am­pio let­to ma­tri­mo­nia­le, ri­ma­sto per me­tà vuo­to da qua­si die­ci an­ni, se non le fos­se im­prov­vi­sa­men­te sov­ve­nu­to il ri­cor­do di quel­la fo­to, ri­po­sta nel cas­set­to del co­mò, sot­to le sue ca­mi­cie da not­te e la bian­che­ria in­ti­ma. L’avreb­be ri­tro­va­ta im­me­dia­ta­men­te, qua­si l’aves­se avu­ta sem­pre sott’oc­chio. Un ra­pi­do sguar­do: lei ed il ma­ri­to, Piaz­za San Mar­co, il viag­gio di noz­ze.

    Un an­zia­no in­dos­sa­va un cap­pel­lo di fel­tro gri­gio con la te­sa leg­ger­men­te ab­bas­sa­ta sul vi­so. La ma­no de­stra fa­ce­va oscil­la­re avan­ti ed in­die­tro, con mo­to ele­gan­te, un ba­sto­ne da pas­seg­gio di cui non mo­stra­va al­cun bi­so­gno. Cam­mi­na­va spe­di­to. Usci­va da un bar con in ma­no un in­vol­to stret­to da un na­stro d’ar­gen­to. Por­ta­va del­le pa­ste per sua ni­po­te, che, se­du­ta sul­le gam­be del non­no, avreb­be ten­ta­to di co­strui­re pre­ca­rie ca­set­te di car­ta con pic­co­le ma­ni un­te di zuc­che­ro, men­tre pie­di­ni al­ta­le­nan­ti, chiu­si in gra­zio­se scar­pet­te di ver­ni­ce ros­sa, avreb­be­ro mar­to­ria­to le il­li­vi­di­te gi­noc­chia dell’an­zia­no si­gno­re. Si sa­reb­be di­ret­to ver­so ca­sa di suo fi­glio, do­ve era at­te­so, co­me ogni set­ti­ma­na a quell’ora, per pran­za­re con le per­so­ne a lui più ca­re da quan­do ave­va da­to l’ul­ti­mo ba­cio in fron­te al­la mo­glie, ste­sa su un fe­re­tro fo­de­ra­to di vel­lu­to bian­co.

    Giù per la stra­da il so­le con­ti­nua­va a fran­ger­si con­tro il gar­bu­glio mu­te­vo­le del­le la­mie­re luc­ci­can­ti, rim­bal­zan­do, a bar­ba­gli in­ter­mit­ten­ti, tra le au­to­mo­bi­li che pro­ce­de­va­no a pas­so d’uo­mo.

    Os­ser­va­re im­mo­bi­le e di­stan­te… In­ter­ro­ga­re i trat­ti, i ge­sti e le abi­tu­di­ni di vi­te af­fat­to sco­no­sciu­te e av­ver­ti­re la ver­ti­gi­ne, esal­tan­te co­me un tuf­fo nel vuo­to, del­le in­nu­me­re­vo­li esi­sten­ze pos­si­bi­li; com­bi­na­zio­ni, po­ten­zial­men­te in­fi­ni­te, dal­le qua­li ero ine­vi­ta­bil­men­te esclu­so. Non era ne­ces­sa­rio cre­de­re, l’inac­ces­si­bi­le con­ge­gno si di­spie­ga­va im­ma­ne, sfi­dan­do l’as­sur­do. Ave­va sen­so, for­se, chie­der­si del­la fe­li­ci­tà?

    Lo sfor­zo af­fa­bu­la­to­rio, per scio­glier­mi da quell’asfis­sian­te estra­nei­tà, si ri­sol­ve­va nell’in­ven­zio­ne che, ras­si­cu­ran­te, ogni co­sa di­spo­ne all’or­di­ne e al fi­ne. Ma era co­me suo­na­re uno stru­men­to sto­na­to e svi­sa­re tra le no­te al­la ri­cer­ca di un ac­cor­do con al­tri, più ta­len­tuo­si mu­si­can­ti, stra­vol­gen­do­ne ine­vi­ta­bil­men­te l’ar­mo­nia e man­can­do d’in­te­sa con l’or­che­stra.

    Tut­ti sem­bra­va­no oc­cu­pa­re un po­sto in quel­la mi­ste­rio­sa dan­za. Ma per quel­la fe­sta, non ave­vo in­vi­to; at­ten­de­vo che mi fos­se as­se­gna­to, ma for­se l’ave­vo per­du­to.

    Mi ri­tras­si dal­la fi­ne­stra, la­scian­do­la aper­ta per con­sen­ti­re il ri­cam­bio d’aria. Mi ve­stii ra­pi­da­men­te in­dos­san­do gli abi­ti ap­pog­gia­ti sul­lo schie­na­le del­la se­dia.

    An­dai in ba­gno per sciac­quar­mi il vi­so e gli oc­chi an­co­ra gon­fi di son­no. Per la scar­sa pres­sio­ne, l’ac­qua che scor­re­va dal ru­bi­net­to era un sot­ti­le fi­lo d’ar­gen­to; la rac­co­glie­vo sul­le ma­ni con­giun­te a con­ca e, do­po aver­ne ac­cu­mu­la­ta una quan­ti­tà suf­fi­cien­te, la get­ta­vo sul vol­to. Il mio ri­fles­so sul­lo spec­chio so­pra il la­va­bo mi di­ce­va di gior­na­te vis­su­te pi­gra­men­te, in at­te­sa di ri­spo­ste a do­man­de ozio­se con le qua­li mi lam­bic­ca­vo per pau­ra d’agi­re.

    Car­lo, nel­la stan­za ac­can­to al­la mia, ave­va ac­ce­so l’am­pli­fi­ca­to­re per ini­zia­re, co­me qua­si ogni gior­no, i suoi eser­ci­zi di chi­tar­ra elet­tri­ca; ini­ziò con una ba­na­le sca­la pen­ta­fo­ni­ca, pro­ba­bil­men­te in Do mag­gio­re. Un tem­po an­ch’io pren­de­vo le­zio­ni di chi­tar­ra, ma mol­lai tut­to nel gi­ro di quat­tro an­ni. Avrei do­vu­to de­ci­der­mi mol­to tem­po pri­ma ma mi riu­sci­va odio­sa l’idea d’aver fal­li­to.

    Per­se­ve­ra­vo nei miei eser­ci­zi svo­glia­ta­men­te e con as­so­lu­ta su­per­fi­cia­li­tà, spin­to so­lo da un gra­vo­so bi­so­gno di di­mo­stra­re d’es­se­re ca­pa­ce in qual­co­sa. Ero con­vin­to che, at­tra­ver­so quel­lo stru­men­to, sa­rei riu­sci­to a pro­cu­rar­mi ap­pro­va­zio­ne, am­mi­ra­zio­ne, for­se per­si­no in­vi­dia. L’in­se­gnan­te da cui pren­de­vo le­zio­ni pri­va­te (pa­ga­to da mia ma­dre an­che più di quan­to me­ri­tas­se) era un ra­gaz­zo­ne ro­bu­sto, sui trent’an­ni e con lun­ghi ca­pel­li ne­ri com­ple­ta­men­te li­sci, che, con esu­be­ran­za, ri­ca­de­va­no sul ma­ni­co del­la chi­tar­ra du­ran­te as­so­li par­ti­co­lar­men­te vi­ri­li nei qua­li tut­to il suo mas­sic­cio cor­po era coin­vol­to e pie­ga­to in avan­ti. Da­va le­zio­ni in uno spo­glio ap­par­ta­men­to che abi­ta­va da so­lo, ar­re­da­to con po­chi e ca­den­ti mo­bi­li che era­no ap­par­te­nu­ti ai suoi ge­ni­to­ri, mor­ti da qual­che an­no. Be­ve­va li­tri di caf­fè e la­men­ta­va con­ti­nui mal di te­sta. Get­ta­va in un bic­chie­re col­mo d’ac­qua due pa­stic­che d’aspi­ri­na ef­fer­ve­scen­te e spe­ra­va che il do­lo­re sa­reb­be ra­pi­da­men­te scom­par­so. So­no qua­si si­cu­ro, pe­rò, che quel­le pa­stic­che su cui ri­po­ne­va tan­ta fi­du­cia fos­se­ro per­fet­ta­men­te inu­ti­li: con­si­de­ran­do le oc­chia­ie scu­re at­tor­no al­le sue pal­pe­bre stan­che per man­can­za di son­no, sa­reb­be sta­ta cer­ta­men­te più frut­tuo­sa una pro­fon­da dor­mi­ta. Sep­pi, in­fat­ti, da lui, che di not­te pro­va­va i pez­zi che avreb­be do­vu­to suo­na­re giu­sto la mat­ti­na se­guen­te con la sua band. Era un in­se­gnan­te mol­to tol­le­ran­te ed in­dul­gen­te. Pro­ba­bil­men­te ave­va bi­so­gno di sol­di e ri­te­ne­va che un suo rim­pro­ve­ro avreb­be po­tu­to sco­rag­giar­mi, per­den­do co­sì la mia men­si­li­tà, ver­sa­ta sem­pre con estre­ma pun­tua­li­tà. In que­sto ave­va agi­to con estre­ma av­ve­du­tez­za. Un gior­no, pe­rò, ese­guii un eser­ci­zio d’im­prov­vi­sa­zio­ne in mo­do tal­men­te atro­ce che lui non riu­scì a trat­te­ne­re una ri­sa­ta. Di­ven­ni ros­so di rab­bia. È ve­ro che, for­se per pi­gri­zia, ave­vo de­di­ca­to a quell’eser­ci­zio non più di una de­ci­na di mi­nu­ti; in al­tre oc­ca­sio­ni, pe­rò, la rea­zio­ne del mio in­se­gnan­te non era sta­ta cer­to quel­la di ri­der­mi in fac­cia, an­zi, spes­so ri­pe­te­va quan­to fos­se sod­di­sfat­to dei miei co­stan­ti pro­gres­si. Era chia­ro che la chi­tar­ra ave­va smes­so da tem­po d’eser­ci­ta­re su di me il ben che mi­ni­mo in­te­res­se. Ave­vo già ca­pi­to da un pez­zo che con quel­lo stru­men­to non avrei ot­te­nu­to un bel nul­la: nien­te ap­pro­va­zio­ne, né am­mi­ra­zio­ne, sa­rei ri­ma­sto ciò che ero e nes­su­no mi avreb­be pur­trop­po in­vi­dia­to.

    Ciò che c’era di buo­no in quel­le le­zio­ni era la lo­ro ca­den­za re­go­la­re, un ri­to ras­si­cu­ran­te che mi per­met­te­va di con­ti­nua­re ad aspet­ta­re che qual­co­sa, pri­ma o do­po, cam­bias­se. Una scel­ta ra­di­ca­le, co­me quel­la d’ab­ban­do­na­re i miei stu­di mu­si­ca­li, avreb­be ri­chie­sto uno sfor­zo trop­po gran­de, avrei do­vu­to ri­co­min­cia­re da ca­po, cer­can­do qual­cos’al­tro da da­re in pa­sto al­le mie va­ghe am­bi­zio­ni di ri­val­sa. Ciò no­no­stan­te ba­stò quel­la ri­sa­ta ap­pe­na trat­te­nu­ta, ma in fon­do bo­na­ria, a far­mi crol­la­re.

    Mi sen­tii umi­lia­to, do­po­tut­to se le mie abi­li­tà era­no tan­to ca­ren­ti, era so­prat­tut­to col­pa sua. Non an­dai a le­zio­ne per di­ver­se set­ti­ma­ne fin­gen­do d’es­se­re am­ma­la­to. Ov­via­men­te que­sta scu­sa non avreb­be ret­to a lun­go, co­sì, al­la ter­za set­ti­ma­na, gli te­le­fo­nai co­mu­ni­can­do­gli che, d’ora in poi, non avrei più po­tu­to pren­de­re le­zio­ni per­ché obe­ra­to da­gli stu­di uni­ver­si­ta­ri. Quel­la vol­ta, la ver­go­gna d’un nuo­vo in­con­tro fac­cia a fac­cia, fu più for­te del­la mia ri­lut­tan­za a ri­sol­ver­mi per una de­ci­sio­ne ir­re­vo­ca­bi­le. Da al­lo­ra non so se mi ri­tro­vai an­co­ra a strim­pel­la­re qual­co­sa al­la chi­tar­ra, pro­prio non ri­cor­do.

    At­tra­ver­sai il cor­ri­do­io per en­tra­re in cu­ci­na. Lì, in quel­la sta­gio­ne, il si­len­zio era un co­stan­te ron­zio di mo­sche at­tor­no al­la vec­chia ten­di­na bian­ca ap­pe­sa al­la fi­ne­stra e un pe­ne­tran­te odo­re di ci­bi con­ser­va­ti trop­po a lun­go. La mo­bi­lia era vec­chia e ca­den­te. Un’an­ta del­la cre­den­za in­cli­na­va ver­so il pa­vi­men­to ret­ta dal­la so­la cer­nie­ra in­fe­rio­re che, eroi­ca­men­te, si osti­na­va, tut­ta so­la, a reg­ge­re il pe­so del­lo sca­den­te pan­nel­lo di tru­cio­la­to (no­no­stan­te la re­sa, or­mai lon­ta­na nel tem­po, del­la com­pa­gna su­pe­rio­re). Il pia­no cot­tu­ra, an­co­ra spor­co di su­go dal pran­zo del gior­no pre­ce­den­te, ave­va due bru­cia­to­ri su quat­tro ot­tu­ra­ti; il fri­go emet­te­va un fa­sti­dio­so bru­sio ad in­ter­val­li ir­re­go­la­ri e spes­so per­de­va ac­qua dal con­ge­la­to­re. En­tra­re in quel­la cu­ci­na mi met­te­va im­me­dia­ta­men­te di cat­ti­vo umo­re. Era so­prat­tut­to il mio coin­qui­li­no a pren­der­si cu­ra che fos­se spor­ca il me­no pos­si­bi­le. La­va­va piat­ti e po­sa­te e spaz­za­va an­che il pa­vi­men­to; tut­ti com­pi­ti ai qua­li as­sol­ve­va in ma­nie­ra som­ma­ria e con po­ca co­stan­za. In com­pen­so non si la­men­tò mai del­la mia scar­sa di­spo­ni­bi­li­tà ad aiu­tar­lo. Per quel che ri­guar­da­va pran­zo e ce­na, so­li­ta­men­te, ognu­no pen­sa­va per sé. Io man­gia­vo spes­so al­la men­sa uni­ver­si­ta­ria. Qual­che vol­ta, la se­ra, ac­qui­sta­vo una piz­za o del ci­bo ci­ne­se che poi con­su­ma­vo nel­la mia stan­za, da so­lo, o, se non ave­va già ce­na­to, in cu­ci­na in­sie­me al mio com­pa­gno d’al­log­gio. Car­lo, in ogni ca­so, pre­fe­ri­va de­li­ziar­si con enor­mi piat­to­ni di pa­sta che cu­ci­na­va con un cer­to estro, in­tin­gen­do mac­che­ro­ni o spa­ghet­ti in sal­se d’ogni ti­po: al­le me­lan­za­ne, ai fi­noc­chiet­ti, ai pe­pe­ro­ni, ai fun­ghi (at­te­nen­do­si a ri­cet­te spe­ri­men­ta­te da lui per­so­nal­men­te e del­le qua­li io de­te­sta­vo an­che so­lo l’odo­re), il tut­to co­ro­na­to, ov­via­men­te, da un’ ab­bon­dan­te ne­vi­ca­ta di par­mi­gia­no grat­tu­gia­to.

    Quan­do mi tra­sfe­rii a Ca­ta­nia per fre­quen­ta­re la fa­col­tà di let­te­re, Car­lo fu la pri­ma per­so­na che co­nob­bi. Abi­ta­va in quel­lo stes­so ap­par­ta­men­to già da cir­ca due an­ni. Era al pri­mo an­no di spe­cia­liz­za­zio­ne, fre­quen­ta­va­mo la stes­sa fa­col­tà ma cor­si di­ver­si. Le sue ma­nie­re cor­dia­li, la vo­ce vi­va­ce e ro­ton­da di­spo­ne­va­no fa­cil­men­te al­la sim­pa­tia e riu­sci­ro­no per­si­no a pie­ga­re la mia te­na­ce ti­mi­dez­za. Ave­va una car­na­gio­ne scu­ra, ca­pel­li cre­spi ne­ri, un ti­mi­do ac­cen­no di pan­cia che de­for­ma­va lie­ve­men­te la po­lo ros­sa che in­dos­sa­va il gior­no che ci co­no­scem­mo. Mi fe­ce ve­de­re la sua ca­me­ra: ve­sti­ti e li­bri but­ta­ti un po’ ovun­que sul let­to e sul pa­vi­men­to, la sua chi­tar­ra elet­tri­ca pog­gia­ta al mu­ro e sul­le pa­re­ti im­ma­gi­ni di grup­pi rock de­gli an­ni ‘80 e dei pri­mi an­ni ‘90. Par­lam­mo di mu­si­ca, di rock so­prat­tut­to: di epi­ci as­so­li di chi­tar­ra,

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