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Vittima del caso: eLit
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E-book290 pagine3 ore

Vittima del caso: eLit

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Info su questo ebook

È notte. La pioggia fitta nel bosco attorno a Garberville rende difficile la fuga di Victor Holland, inseguito da un uomo che ha il preciso compito di metterlo a tacere. Il brillante biochimico, infatti, tempo prima ha assistito a una scoperta sconcertante e ora ne sta pagando le conseguenze sulla propria pelle.

Investito da Cathy Weaver, che si trova per la prima volta a percorrere quelle strade, il fuggitivo rimane privo di sensi, costretto così a interrompere la sua corsa. Questo inaspettato incontro sconvolge la vita di entrambi e, sebbene l'attrazione sia evidente, Cathy, scottata dal recente divorzio, non riesce a smettere di porsi domande riguardo a ciò che è accaduto. Cosa nasconderà Victor? E cosa lo porta a scappare in modo così frenetico? 

Tra omicidi, sotterfugi e inseguimenti, ai due è presto chiaro che, assieme alle loro vite, in pericolo sono anche i loro cuori...

ROMANZO INEDITO

LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2020
ISBN9788830505025
Vittima del caso: eLit

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    Anteprima del libro

    Vittima del caso - Tess Gerritsen

    Prologo

    I rami gli sferzavano il viso e il suo cuore batteva così forte che pensò fosse sul punto di esplodere, ma non poteva fermarsi. Gli sembrava già di sentire l'uomo che riguadagnava terreno, riusciva quasi a immaginare il proiettile che fendeva la notte e si conficcava nella sua schiena.

    Forse era già successo. Forse stava già lasciando una scia di sangue; era troppo stordito dalla paura per sentire qualcosa, a parte il disperato desiderio di vivere.

    La pioggia cadeva fitta sul suo viso, gelata, in scrosci accecanti, battendo sulle foglie che l'inverno aveva fatto morire.

    Inciampò in una pozza buia e si trovò lungo disteso nel fango. Il rumore della sua caduta fu assordante. Il suo inseguitore, avvertito dallo schianto secco dei rami, cambiò traiettoria e puntò di nuovo verso di lui. Il colpo sordo del silenziatore e il sibilo del proiettile che sfiorava la sua guancia gli comunicarono che era stato scoperto.

    Si costrinse ad alzarsi in piedi e scartò a destra, correndo a zig-zag verso l'autostrada. Lì nei boschi sarebbe stato un uomo morto. Ma se fosse riuscito a fermare una macchina, ad attirare l'attenzione di qualcuno, forse avrebbe avuto una possibilità.

    Un rumore di rami seguito da un'imprecazione gli fece capire che il suo inseguitore era inciampato. Aveva guadagnato qualche secondo prezioso. Continuò a correre, orientandosi solo con l'istinto. Non c'erano luci che lo guidassero, niente tranne il vago bagliore delle nuvole nella notte. La strada doveva essere proprio davanti a lui. Pochi secondi e avrebbe sentito l'asfalto sotto i piedi.

    E poi? Cosa faccio se non ci sono macchine da fermare, se non c'è nessuno che mi aiuti?

    In quel momento, attraverso gli alberi, scorse un debole tremolio, due pallidi fasci di luce.

    Con uno scatto disperato, si lanciò verso la macchina, con i polmoni in fiamme e gli occhi accecati dalle frustate dei rami e della pioggia. Un altro proiettile sferzò l'aria vicino a lui, andando a colpire un albero con un tonfo, ma l'uomo armato che lo inseguiva aveva improvvisamente perso importanza. Contavano solo quelle luci, che lo aspettavano nell'oscurità, che si prendevano gioco di lui con una promessa di salvezza.

    Quando a un tratto i suoi piedi pestarono l'asfalto, rimase pietrificato. Le luci della macchina erano ancora là che sobbalzavano da qualche parte dietro agli alberi. L'aveva mancata? Stava solo descrivendo una curva mentre se ne andava? No, eccola lì. La luce si faceva più intensa. Veniva verso di lui. Le corse incontro, pienamente consapevole di essere allo scoperto, un bersaglio facile. Il suono delle sue scarpe che schiaffeggiavano la strada bagnata gli riempì le orecchie. I fanali deviarono verso di lui. In quel momento sentì la pistola sparare per la terza volta. La forza dell'impatto lo fece crollare in ginocchio e in modo vago e confuso fu cosciente del proiettile che gli stava lacerando la spalla, del calore del suo sangue che gocciolava giù lungo il braccio, ma non sentì dolore. Era troppo concentrato sul restare vivo. Lottò per rimettersi in piedi, fece un passo malfermo...

    E fu assalito dalla luce accecante dei fanali. Non ci fu tempo per buttarsi di lato, non ci fu neanche tempo per provare paura. Le gomme stridettero sull'asfalto, sollevando uno spruzzo d'acqua.

    Non sentì l'impatto. Sapeva solo che improvvisamente si trovava sdraiato a terra e aveva tanto, tanto freddo, e la pioggia gli scivolava nella bocca.

    Sapeva anche che doveva fare qualcosa, qualcosa di importante.

    Debolmente, allungò la mano verso la tasca della giacca a vento, e strinse le dita attorno a un piccolo cilindro di plastica. Non riusciva a ricordarsi bene perché fosse così importante, ma fu sollevato di sapere che era ancora lì. Lo strinse forte nel palmo della mano.

    Qualcuno lo stava chiamando. Una donna. Non riusciva a vederne il viso attraverso la pioggia, ma poteva sentirne la voce, rauca per il terrore, galleggiare sopra il ronzio nella sua testa. Cercò di parlare, cercò di avvertirla che dovevano andarsene, che la morte stava acquattata nei boschi. Ma tutto quello che uscì dalla sua bocca fu un gemito.

    1

    A cinque chilometri da Redwood Valley un albero era caduto sulla strada e, tra la pioggia forte e il traffico bloccato, Catherine Weaver ci mise quasi tre ore per superare la città di Willits. A quel punto erano già le dieci, e capì che non avrebbe raggiunto Garberville prima di mezzanotte. Sperò che Sarah non stesse sveglia ad aspettarla. Ma, conoscendola, ci sarebbe stato un piatto di zuppa ancora calda in forno e un fuoco scoppiettante nel camino.

    Si chiese come le stesse il pancione. Magnificamente, di certo. Sarah aveva parlato del bambino per anni, aveva scelto il nome – Sam o Emma – molto prima che fosse concepito. Il fatto che non avesse più un marito era una questione secondaria. «Puoi aspettare solo fino a un certo punto l'uomo giusto, quello che potrà essere il padre dei tuoi figli» le aveva detto, «poi devi prendere in mano tu la situazione.»

    E lei l'aveva fatto. Con l'orologio biologico che ticchettava furioso consumando gli ultimi anni che aveva a disposizione, Sarah era andata a trovare Cathy a San Francisco e aveva serenamente scelto una clinica della fertilità dalle pagine gialle. Una di mentalità aperta, ovvio. Una che potesse capire il disperato desiderio di una donna single di trentanove anni.

    L'inseminazione in sé era stata una fredda faccenda medica, le aveva raccontato Sarah in seguito. Salta sul lettino, infila i piedi nelle staffe, e cinque minuti dopo sei incinta. Be', più o meno. In ogni caso, la procedura era semplice, i donatori certificati in buona salute e, cosa più importante di tutte, una donna poteva soddisfare il suo istinto materno senza quella grande sciocchezza che è il matrimonio.

    Sì, il vecchio gioco del matrimonio. Entrambe ne avevano sofferto. E, dopo aver divorziato, entrambe avevano continuato le loro vite, seppure con le cicatrici della battaglia.

    Sarah è davvero coraggiosa, pensò Cathy. Almeno lei ha la forza di andare fino in fondo da sola.

    Un'antica rabbia la travolse, ancora abbastanza potente da farle digrignare i denti. Poteva perdonare al suo ex marito molte cose. Il suo egoismo. Le sue pretese. La sua infedeltà. Ma non sarebbe mai riuscita a perdonargli di averle negato la possibilità di avere un figlio. Oh, certo, avrebbe potuto opporsi alla sua decisione e avere comunque un bambino, ma voleva che anche lui lo desiderasse. Così aveva aspettato l'occasione giusta. Ma durante i dieci anni del loro matrimonio lui non era mai stato pronto, non aveva mai sentito che fosse arrivato il momento.

    Le avrebbe solo dovuto dire la verità: che era troppo concentrato su se stesso per preoccuparsi di un bambino.

    Ho trentasette anni, pensò. Non ho più un marito. Non ho neanche un ragazzo fisso. Ma potrei essere soddisfatta se solo potessi tenere mio figlio tra le braccia.

    Almeno Sarah tra poco avrebbe ricevuto questo dono.

    Quattro mesi ancora e poi il bambino sarebbe arrivato. Il bambino di Sarah. Cathy sorrise al pensiero, nonostante la pioggia che martellava sul parabrezza e che stava cominciando a cadere più fitta; anche con i tergicristalli al massimo della velocità riusciva a malapena a vedere la strada. Diede un'occhiata all'orologio e vide che erano già le undici e mezzo; non c'era nessun'altra macchina in vista. Se avesse avuto un problema al motore là fuori, avrebbe probabilmente dovuto passare la notte rannicchiata sul sedile posteriore, aspettando che arrivasse qualcuno in suo aiuto.

    Scrutò davanti a sé provando a distinguere la linea divisoria delle corsie, ma non vide altro che un solido muro di pioggia. Che situazione ridicola. Si sarebbe dovuta fermare a quel motel a Willits, ma odiava l'idea di essere solo a ottanta chilometri dal suo obiettivo, specialmente dal momento che aveva già percorso così tanta strada.

    Individuò a fatica un cartello: Garberville – 16 km. Quindi era più vicina di quanto pensasse. Quaranta chilometri ancora, e poi ci sarebbe stato un bivio e avrebbe dovuto guidare altri otto chilometri attraverso il fitto bosco fino a casa di Sarah, un bel cottage in legno di cedro.

    Il pensiero di essere così vicina alimentò la sua impazienza. Diede gas alla vecchia Datsun e accelerò fino a settantacinque all'ora. Era un gesto sconsiderato, soprattutto in quelle condizioni, ma il pensiero di una casa accogliente e di una cioccolata calda era una tentazione semplicemente irresistibile.

    Non si aspettava quella curva improvvisa; spaventata, diede uno strattone al volante verso destra e l'auto sbandò di lato, slittando pericolosamente sull'asfalto bagnato. Ne capiva abbastanza di macchine da non pestare il freno. Strinse forte il volante, lottando per riacquistare il controllo. Le gomme planarono per qualche metro, una corsa da infarto che la portò a filo del ciglio della strada. Proprio quando pensava che si sarebbe schiantata contro un albero, gli pneumatici fecero presa sull'asfalto: l'auto continuava a muoversi a trenta all'ora, ma perlomeno ora andava dritta. Con le mani sudate, Cathy riuscì a gestire il resto della curva.

    Quello che successe dopo la prese del tutto alla sprovvista. Un momento prima si stava congratulando con se stessa per aver evitato il disastro e quello dopo teneva lo sguardo fisso davanti a sé, incredula.

    L'uomo era apparso dal nulla. Era accucciato sulla strada, come un animale selvatico abbagliato dal fascio di luce dei fanali. I riflessi presero il sopravvento. Spinse il piede sul freno, ma era troppo tardi. Lo stridio delle gomme fu interrotto dal rumore sordo del corpo dell'uomo contro il cofano dell'automobile.

    Rimase paralizzata per quella che le sembrò un'eternità, incapace di fare altro che non fosse stringere convulsamente il volante e fissare i tergicristalli che si muovevano su e giù. Poi, quando la consapevolezza di quello che aveva appena fatto la colpì, spalancò la portiera e balzò fuori sotto la pioggia.

    All'inizio non riuscì a distinguere niente attraverso quella cortina d'acqua, solo la striscia luccicante di asfalto illuminato dalla luce fioca dei fanali posteriori. Dov'è?, pensò angosciata. Con l'acqua che le grondava sugli occhi ripercorse la strada al contrario, sforzandosi di vedere nel buio più totale. Poi, attraverso la pioggia battente, sentì un debole gemito. Veniva da qualche parte oltre il ciglio della strada, vicino agli alberi.

    Cambiando direzione, Cathy si tuffò nelle ombre e affondò fino alle caviglie nel fango e negli aghi di pino. Sentì di nuovo il lamento, più vicino ora, quasi a portata di mano.

    «Dove sei?» urlò. «Aiutami a trovarti!»

    «Qui...»

    La risposta fu così debole che a malapena la udì, ma era tutto ciò di cui aveva bisogno. Si voltò, fece qualche passo e praticamente inciampò nel corpo accartocciato nel buio. A prima vista le sembrò solo un mucchio confuso di vestiti fradici, poi riuscì a individuare una mano e sentire il polso. Il battito era accelerato ma stabile, probabilmente più stabile del suo stesso cuore, che stava galoppando furiosamente. L'uomo chiuse improvvisamente la mano sulla sua in una morsa disperata, tentando di sollevarsi.

    «Ti prego, non muoverti!» disse lei.

    «Non posso... non posso stare qui...»

    «Dove sei ferito?»

    «Non c'è tempo. Aiutami. Presto...»

    «Non se prima non mi dici dove sei ferito!»

    Lui si sporse e le afferrò una spalla in un maldestro tentativo di mettersi in piedi. Con grande sorpresa di Cathy, arrivò quasi a metà strada. Per un attimo barcollarono l'uno contro l'altra, poi le forze dell'uomo sembrarono venir meno e caddero entrambi in ginocchio nel fango. Il suo respiro era diventato pesante e irregolare e lei si domandò che ferite avesse... le emorragie interne potevano causare la morte nel giro di pochi minuti. Doveva portarlo subito in un ospedale, anche a costo di trascinarlo fino alla macchina.

    «Okay. Riproviamoci» disse, afferrando il suo braccio sinistro e passandoselo attorno al collo. Il rantolo di dolore la spaventò a tal punto che lo lasciò andare di colpo. Il braccio ricadde lasciandole una scia appiccicosa e calda sulle spalle. Sangue.

    «L'altro lato è sano» grugnì lui. «Riprova.»

    Lei si spostò alla sua destra e si portò il braccio attorno alle spalle. Se non fosse stata così sconvolta, l'avrebbe trovata una scena comica, loro che lottavano come due ubriaconi per tenersi in piedi. Quando finalmente lui si alzò e si trovarono a vacillare nel fango, si chiese se avesse anche la forza di mettere un piede davanti all'altro. Lei di certo non sarebbe riuscita a spostare entrambi. Nonostante fosse magro, era anche molto più alto di quanto si aspettasse, e di certo più di quanto il suo metro e sessantacinque potesse sostenere.

    Ma sembrava che qualcosa lo spingesse a proseguire, la fiammella di una qualche riserva nascosta. Anche attraverso i loro vestiti zuppi, Cathy riusciva a sentire il calore del suo corpo e percepiva l'urgenza che lo spingeva avanti. Una dozzina di domande le si formarono nella mente, ma stava respirando troppo forte per riuscire a formularle. Doveva concentrare ogni sforzo nel far arrivare quell'uomo alla macchina, e poi all'ospedale.

    Afferrandolo alla vita, intrecciò le dita attorno alla sua cintura e con molta sofferenza raggiunsero la strada, lottando passo dopo passo. Sentiva il suo braccio come un cavo teso contro il collo. Sembrava che ogni centimetro del suo corpo fosse in tensione. C'era qualcosa di disperato nel modo in cui i muscoli dell'uomo si tendevano per andare avanti. Quell'angoscia le penetrò attraverso la pelle. Era un senso di panico palpabile come il calore del suo corpo, e lei si sentì improvvisamente contagiata da quel bisogno di scappare, un bisogno reso ancora più disperato dal fatto che non potevano muoversi più velocemente di quanto già facessero. Ogni due passi doveva fermarsi e spostarsi dagli occhi i capelli gocciolanti per poter vedere dove stava andando. E tutto attorno la pioggia e il buio impedivano loro di scorgere qualsiasi pericolo li seguisse.

    I fanali posteriori dell'auto brillavano nella notte come due rubini. A ogni passo l'uomo diventava più pesante e lei sentiva le gambe tanto rigide che pensava sarebbero entrambi crollati sulla strada. Se fosse successo non avrebbe avuto la forza di tirarlo su di nuovo. Già ora la testa dell'uomo si stava afflosciando contro la sua guancia e l'acqua colava dai capelli arruffati dalla pioggia lungo il suo collo. Il semplice gesto di mettere un piede davanti all'altro era così automatico che non le era neanche passato per la mente di lasciarlo lì sulla strada e andare a prendere la macchina. E poi i fanali erano così vicini, a un passo dietro un'altra cortina di pioggia.

    Quando finalmente raggiunse il sedile del passeggero, il suo braccio era ormai pronto a staccarsi. Con l'uomo che rischiava di scivolare dalla sua presa da un momento all'altro, si limitò a cacciarlo dentro, senza forze per essere delicata. E quando vide le gambe che gli penzolavano fuori dalla portiera, le afferrò gettandole dentro a una a una, notando con distacco che nessun uomo con i piedi così grandi sarebbe mai potuto essere aggraziato.

    Mentre scivolava al posto di guida, lui fece un debole tentativo di sollevare la testa, poi la lasciò cadere di nuovo all'indietro. «Presto» bisbigliò.

    Al primo tentativo di accenderlo, il motore tossì e si spense. Dio santo, supplicò Cathy. Parti. Parti! Lasciò andare la chiave, contò lentamente fino a tre, e poi provò di nuovo. Questa volta il motore si accese. Quasi urlando per il sollievo, ingranò la marcia e partì sgommando verso Garberville. Anche una città così piccola doveva avere un ospedale o, alla peggio, un pronto soccorso. La vera domanda era: l'avrebbe trovato in quella cascata di pioggia? E se invece si stesse sbagliando? Se il soccorso medico più vicino fosse stato a Willits, nella direzione opposta? Magari stava sprecando minuti preziosi per strada mentre quell'uomo moriva dissanguato.

    Colta dal panico, lo guardò. Alla luce del cruscotto vide che la sua testa era ancora abbandonata contro il sedile. Non si muoveva.

    «Ehi! Stai bene?» gli gridò.

    La risposta fu un bisbiglio: «Sono ancora qui».

    «Grazie a Dio. Per un attimo ho pensato...»

    Tornò a guardare la strada, con il cuore che batteva all'impazzata. «Ci dev'essere un pronto soccorso da qualche parte...»

    «Vicino a Garberville... c'è un ospedale...»

    «Sai come arrivarci?»

    «Ci sono passato davanti in macchina... venticinque chilometri...»

    Se era arrivato guidando, dov'era la sua macchina?, pensò. «Cos'è successo?» gli chiese. «Hai avuto un incidente?»

    Lui fece per parlare ma la sua risposta fu interrotta dal guizzo improvviso di una luce. Lottando per raddrizzarsi, si girò e vide i fari di un'altra automobile molto distante da loro. Una sua imprecazione a mezza voce fece voltare Cathy preoccupata.

    «Cosa c'è?»

    «Quella macchina.»

    Lei guardò nello specchietto retrovisore. «Cos'ha quella macchina?»

    «Da quanto tempo ci sta seguendo?»

    «Non lo so. Qualche chilometro. Perché?»

    Lo sforzo di tener su la testa a un tratto sembrò eccessivo per lui che la lasciò ricadere all'indietro con un gemito. «Non riesco a pensare» mormorò. «Cristo, non riesco a pensare...»

    Ha perso troppo sangue. Presa dal panico, Cathy premette con forza sull'acceleratore. L'auto sembrò balzare avanti nella pioggia, il volante vibrava all'impazzata mentre pareti di spruzzi si sollevavano dalle ruote. Il buio volò a velocità sconcertante contro il parabrezza. Rallenta, rallenta! O finirò per ammazzare entrambi.

    Allentando la pressione sul pedale, lasciò che la lancetta tornasse a segnare un più fattibile settanta chilometri all'ora. L'uomo stava di nuovo lottando per mettersi dritto.

    «Per favore, tieni la testa appoggiata» lo implorò.

    «Quella macchina...»

    «Non c'è più.»

    «Sei sicura?»

    Cathy guardò nello specchietto. Attraverso la pioggia vide solo il debole sfavillio di una luce, ma niente di così definito come dei fanali. «Sono sicura» mentì, e fu sollevata nel vedere che lui lentamente si risistemava sul sedile. Quanto manca?, si chiese. Dieci chilometri? Quindici? E allora un altro pensiero si fece largo nella sua mente: Potrebbe morire prima che arriviamo.

    Il suo silenzio la inquietò. Aveva bisogno di sentire la sua voce, di essere sicura che lui non fosse scivolato nell'incoscienza. «Parlami» lo spronò. «Ti prego.»

    «Sono stanco...»

    «Non fermarti. Continua a parlare. Come... come ti chiami?»

    La risposta fu poco più di un bisbiglio: «Victor».

    «Victor. È un bellissimo nome. Mi piace. Che lavoro fai, Victor?»

    Il suo silenzio le comunicò che era troppo debole per portare avanti una qualsiasi conversazione. Non poteva lasciare che perdesse i sensi! Per qualche motivo, le sembrò cruciale in quel momento tenerlo sveglio, tenerlo legato alla sua voce. Temeva che lui sarebbe svanito del tutto non appena quella fragile connessione si fosse spezzata.

    «Va bene» disse, forzando la sua voce a rimanere bassa e sicura. «Allora parlerò io. Non devi dire niente. Ascolta e basta. Continua ad ascoltare. Mi chiamo Catherine. Cathy Weaver. Vivo a San Francisco, nel Richmond District. Conosci la città?» Non ci fu risposta, ma si accorse con la coda dell'occhio di un movimento sul suo viso, un tacito assenso. «Okay» continuò, riempiendo meccanicamente il silenzio. «Magari non conosci la città. Non importa poi molto. Lavoro per una casa cinematografica indipendente. In realtà è la società di Jack. Il mio ex marito. Facciamo film horror, di serie B, a dire il vero, ma si guadagna bene. L'ultimo è stato Reptilian. Io mi sono occupata del trucco per gli effetti speciali. Una roba veramente raccapricciante. Un sacco di squame verdi e bava...» Rise, un suono stridulo, terrorizzato. C'era un'inconfondibile traccia di isteria.

    Si sforzò di riprendere il controllo.

    Uno scintillio le fece spostare di scatto lo sguardo sullo specchietto. I fanali si distinguevano a stento in mezzo alla pioggia. Per un paio di secondi li fissò, indecisa se dire qualcosa a Victor. Poi, come fantasmi, le luci si spensero con un guizzo.

    «Victor?» lo chiamò dolcemente. Lui rispose con un verso incomprensibile, ma che bastò a confermarle che era ancora vivo. Che stava ascoltando. Devo tenerlo sveglio, pensò, spremendo le meningi alla ricerca di nuovi argomenti di conversazione. Non era mai stata brava in quel tipo di chiacchiere frivole così apprezzate ai cocktail party dei registi. Quello che le serviva era una battuta, andava bene pure stupida, a patto che fosse anche solo un po' divertente. Le risate sono curative. Non aveva letto da qualche parte che una solida diga di comicità avrebbe potuto sbarrare la strada ai tumori? Oh, certo, si rimproverò da

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