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Ombre sul lago (eLit): eLit
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Ombre sul lago (eLit): eLit
E-book344 pagine5 ore

Ombre sul lago (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Per Sophie, niente potrebbe essere peggio dell'arrivo di un vicino tanto inopportuno quanto antipatico, e purtroppo affascinante. Lei ha già i suoi guai: un bed and breakfast da aprire, una vecchia madre un po' fuori di testa, una sorella minore pigra e musona... e un conto in banca in rosso perenne. Il tizio del villino accanto, con il suo nome palesemente falso, la sua maschia bellezza e il suo fare sardonico, la innervosisce al punto da tramutarla nella sciocca adolescente che non ha mai avuto il tempo di essere. Che ci fa a Colby il signor Smith? Qual è il suo collegamento con i misteriosi delitti di vent'anni prima? E soprattutto, accidenti a lui, perché le piace tanto?

LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2014
ISBN9788858927731
Ombre sul lago (eLit): eLit
Autore

Anne Stuart

Anne Stuart è nata a Filadelfia, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Attualmente scrive romanzi ricchi di suspense per MIRA, romanzi rosa per Harlequin American Romance e anche romanzi storici.

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    Anteprima del libro

    Ombre sul lago (eLit) - Anne Stuart

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Still Lake

    Mira Books

    © 2002 Anne Kristine Stuart Ohlrogge

    Traduzione di Maria Claudia Rey

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2003 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5892-773-1

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Estate del 1982

    Colby, Vermont

    Quando si svegliò aveva le mani insanguinate. Le lenzuola erano aggrovigliate attorno al suo corpo sudato, in bocca aveva un sapore metallico.

    Si rizzò a sedere con un’imprecazione, respinse dalla fronte i lunghi capelli neri e guardò fuori. Doveva essere molto presto, e lui odiava svegliarsi prima di mezzogiorno. Odiava ancor più svegliarsi coperto di sangue.

    Si alzò barcollando con l’intenzione di uscire per svuotare la vescica, e abbassando lo sguardo vide le tracce di sangue sul suo corpo nudo. Diavolo, pensò con un grugnito.

    Dormiva in una delle cabine sulla riva del lago, ma non aveva la doccia e non aveva nessuna intenzione di andare su alla locanda in quelle condizioni. Doveva aver messo sotto un cervo la notte prima, rientrando. Ma non riusciva a ricordarsi niente.

    Infilò un paio di jeans tagliati al ginocchio e sporchi di vernice e si diresse verso il lago, cercando di ignorare il feroce mal di testa. La sera prima aveva fumato e bevuto troppo. L’acqua fredda del lago gli avrebbe schiarito le idee, e appena si fosse ripulito sarebbe tornato alla cabina e avrebbe fatto i bagagli. Via di lì, il più in fretta possibile. Ne aveva le tasche piene del Vermont rurale.

    Benché fosse agosto il lago era gelido, e lui si lasciò sfuggire uno strillo mentre toccava l’acqua. Ma si immerse sotto la superficie e cominciò a nuotare, lasciando che l’acqua gli lavasse via il sangue dai capelli, dalla barba, dalle mani.

    Riemerse a una ventina di metri dalla riva, gettando indietro i capelli bagnati e strizzando gli occhi nel sole. Alla locanda c’erano molti più ospiti del solito, e Peggy Niles doveva essere al settimo cielo. Gli avrebbe sicuramente chiesto di darle una mano, anche se lui le aveva già annunciato che voleva andarsene.

    Forse era meglio non farsi vedere per niente, prendere la sua roba e darsela a gambe. Lorelei lo aveva mandato al diavolo, e comunque lui non era tipo da restare in un posto troppo a lungo. L’inverno sarebbe arrivato tra poco, ci sarebbero stati parecchi lavori in Colorado. Poteva darsi allo sci.

    Si rituffò e si diresse verso la riva a lunghe bracciate regolari, aggirando il molo di legno che aveva costruito qualche mese prima.

    Quando riemerse, notò un mucchietto di abiti che fluttuava accanto alla riva, impigliato nelle canne che lui aveva cercato di eliminare per tutta l’estate. Riconobbe subito la camicia a righe che era una delle sue preferite, e si domandò chi diavolo aveva avuto la brillante idea di buttare la sua roba nel lago. Forse Lorelei, che benché lo avesse mandato all’inferno, si era molto arrabbiata quando lui le aveva annunciato che stava per andarsene.

    Si avvicinò, strizzando gli occhi miopi. Non portava mai gli occhiali tranne che per leggere, e chissà dov’erano finiti. La camicia a righe galleggiava avanti e indietro, mezza fuori dell’acqua. Ma c’era anche una camicia bianca... e lui non possedeva camicie bianche, specialmente con le maniche lunghe.

    Si fermò per un attimo, interdetto. Poi si mise a correre nell’acqua, fino ad arrivare al corpo galleggiante. Lo girò e vide la faccia pallida e immota di lei, e poi la gola tagliata, in uno squarcio ad arco come il ghigno di un jolly.

    Come apparendo dal nulla, un gruppo di uomini lo circondò. E lui non poté più muoversi, rimase immerso a mezzo nell’acqua gelida, con il corpo di Lorelei tra le braccia.

    «Thomas Ingram Griffin, alias Gram Thomas, alias Billy Gram, ti dichiaro in arresto per l’omicidio di Alice Calderwood, Valette King e Lorelei Johnson. Hai il diritto di tacere. Tutto quel che dirai potrà...»

    Lui non sentì una parola. Guardò il corpo della ragazza, la stessa che aveva stretto tra le braccia la notte prima, e cominciò a piangere.

    1

    Il grosso problema se volevi salvare il mondo, pensò Sophie Davis cacciandosi in bocca mezzo muffin ai mirtilli, era che nessuno voleva il tuo aiuto.

    In quel momento la cucina di Stonegate Farm era deserta. Sophie raccolse attorno alle gambe la lunga gonna di cotone a fiori e divorò il resto del muffin, uno di quelli enormi, con una quantità di grassi più che sufficiente a bloccare le arterie di una famiglia intera. Ne erano rimasti tre dalla colazione, e mentre allungava la mano verso il secondo Sophie, convinta seguace della teoria per cui le calorie consumate in privato non contavano, si ripeté che nessun altro lo avrebbe voluto. Sua madre Grace mangiava il minimo necessario alla sopravvivenza mentre la sua sorellastra, Marty, quando finalmente si trascinava fuori del letto, rifiutava qualsiasi cosa a parte caffè e sigarette.

    Le sigarette, Sophie le capiva. Lei aveva smesso di fumare quattro mesi prima, e come risultato aveva aggiunto sette chili alla propria figura già abbondante. E non passava un giorno senza pensare nostalgicamente al fumo.

    Spezzò in due il secondo muffin, deponendone una metà sul piatto di ceramica nella vana speranza di resistere alla tentazione. I dolci erano sostituti assai soddisfacenti della nicotina, ma quel che facevano ai suoi fianchi era anche troppo visibile. Certo, il fumo le aveva annerito i polmoni, ma quelli non glieli vedeva nessuno... Se fosse andata avanti così, sarebbe passata dalla taglia quarantaquattro alla quarantotto senza nemmeno accorgersene. Sospirò e si cacciò in bocca l’altra metà del muffin.

    Doveva rimettere la propria vita in carreggiata, in un modo o nell’altro. Il primo anno di una nuova impresa era destinato a essere difficile, ma Stonegate Farm era il posto ideale per un bed and breakfast e lei aveva energia ed entusiasmo da vendere. Per anni si era limitata a cucinare o arredare solo in teoria, facendo ricerche per la rubrica che scriveva su un giornale mentre viveva in un piccolo appartamento di New York. Marty l’aveva definita la Donna Letizia dei poveri, il che per Sophie sarebbe stato un complimento se la ragazza non l’avesse detto in tono così sprezzante.

    Ma adesso lei possedeva una fattoria che risaliva ai primi del Novecento, in una zona del Vermont chiamata Northeast Kingdom. Il posto perfetto per un lavoro perfetto. Era una grande casa un po’ male in arnese, con sei camere nel corpo principale e un’ala sul retro che forse poteva essere ristrutturata e dotata di altre camere. Quando aveva ipotecato i suoi averi e la sua vita per portare lì Grace e Marty, tutto era parso così semplice!

    Non che Grace avesse manifestato un grande entusiasmo. Non era mai stata un tipo bucolico, ma l’ultimo ciclo di chemio per curare il cancro alla mammella l’aveva indebolita al punto che per la prima volta in vita sua aveva ammesso di aver bisogno di aiuto. Così aveva seguito Sophie e Marty, puntualizzando però che non appena avesse ripreso le forze sarebbe partita per un altro dei suoi viaggi. Quattro mesi dopo, tuttavia, era chiaro che non sarebbe più andata da nessuna parte.

    Ma questa volta non era il cancro. Grace sembrava essersi brillantemente ripresa dalla malattia, ma era diventata sempre più svagata. Non era mai stata una profonda pensatrice, era sempre stata vaga e distratta, tanto che il padre di Sophie e Marty la chiamava affettuosamente Spacey Gracey, ma la situazione attuale era piuttosto preoccupante.

    Purtroppo non c’era rimedio. Il vecchio dottor Henley, che in breve era diventato amico e confidente di Grace, aveva detto a Sophie di non aspettarsi alcun miglioramento. «Non so se ha delle lievi ischemie cerebrali, o se si tratta di un inizio di Alzheimer.» Grace si era rifiutata nel modo più assoluto di andare in ospedale a fare gli esami necessari, e Doc aveva deciso che ci avrebbero pensato quando fossero stati davvero inevitabili.

    Marty, da tipica adolescente, sopportava a fatica pressoché tutto della sua nuova vita, per non parlare della sorella maggiore, il che non era una novità. La mente di Grace era sempre più annebbiata, e questo era un ennesimo motivo di lamentele da parte di Marty. Non bastava che Sophie l’avesse trascinata in mezzo al nulla, doveva portarsi dietro anche la vecchia svanita? Stare a Colby non era una tortura sufficiente?, aveva esclamato.

    Sophie sospirò e occhieggiò l’ultimo muffin. Sapeva bene che se avesse mangiato anche quello si sarebbe sentita male, magari non subito ma di sicuro in seguito. Che importava?, pensò poi. Lei voleva quel muffin, e lì intorno non c’era nessuno...

    Stava per afferrarlo quando sentì un passo fuori della cucina e ritirò la mano con aria colpevole.

    Grace entrò strascicando i piedi, con indosso un grosso cardigan abbottonato storto che sembrava appeso alla sua figura smagrita. Proprio lei, che era sempre stata così esigente in fatto di abiti. Aveva solo sessant’anni e sembrava più vecchia di almeno venti. Dietro di lei veniva Marty, con il solito broncio dipinto sul viso.

    «Ho fatto dei muffin» annunciò Sophie gaiamente, anche se ne rimaneva soltanto uno.

    «Che brava, tesoro...» mormorò a quel punto Grace con la sua voce fievole. Cercò di ravviare i lunghi capelli grigi raccolti in un nodo, ma alcune ciocche continuavano a sfuggire ed era chiaro che tra poco sarebbero crollati del tutto. «Ma credo che berrò solo un caffè.»

    «Devi mangiare, mamma» protestò Sophie. «Sai che cos’ha detto il dottore.»

    La madre si fermò a fissarla con una strana luce nei pallidi occhi azzurri. «Non devi credere a tutto quel che ti dice la gente, cara. Non sempre le persone sono quel che sembrano.»

    «Ma io non...» cominciò lei, abituata alle stranezze di sua madre. Ma Grace si era versata una tazza di caffè ed era uscita dalla cucina, lasciandola sola con Marty.

    La ragazza si diresse verso la caffettiera senza degnarla di un saluto.

    «Buongiorno anche a te» disse Sophie. Subito dopo si sarebbe presa a schiaffi. Il sarcasmo non migliorava di certo le cose!

    Marty si versò una tazza di caffè e ne bevve un sorso senza nemmeno guardare la sorella.

    «Hai messo a posto nell’armadio gli asciugamani nuovi?» domandò Sophie cercando di mantenere un tono gaio. La sua sorellastra era capace di offendersi per qualsiasi cosa, perciò lei faceva del suo meglio per evitare i conflitti.

    La testa di Marty rimase sepolta nel cruciverba che fingeva di compilare. Quella settimana i suoi capelli, tagliati cortissimi e irti come un porcospino, erano di un nero corvino con le punte fucsia. Avrebbe dovuto schiarirli di nuovo quando fosse passata alla fase successiva, pensò Sophie, e ben presto non avrebbe più avuto niente da tingere. La prospettiva poteva essere orribile, ma non così tanto. Se non altro, non ci sarebbero stati troppi mascalzoni pronti a mettere incinta una diciassettenne calva.

    «Mi avevi detto di farlo, no?» ribatté finalmente Marty in tono ostile.

    A quel punto lei si lasciò sfuggire un sospiro, cercando di controllare la propria frustrazione. «Ho bisogno del tuo aiuto, Marty. Devi darmi una mano anche tu se vogliamo che questo posto funzioni. Si sta avvicinando la fine dell’estate, e sai bene che dobbiamo aprire in autunno per sperare di poter recuperare un po’ delle spese di ristrutturazione. Ho già delle prenotazioni per settembre, ma...»

    «E chi se ne frega? Se non sbaglio hai avuto tu la brillante idea di trascinarmi in mezzo al nulla, lontana dai miei amici. Non mi va di gestire un bed and breakfast, non mi va di starmene confinata in campagna con te e con quel vecchio pipistrello, e non mi va di aiutarti!»

    Meno male che non aveva mangiato il terzo muffin, pensò Sophie, visto che gli altri due stavano già ballando il fandango nel suo stomaco. «Quel vecchio pipistrello è mia madre» tenne a precisare. «So bene che non è la tua, d’altra parte io ho delle responsabilità verso di lei. Dobbiamo proprio ripetere le stesse cose tutti i santi giorni, Marty? Perché non ti trovi qualcun altro da tormentare, una volta tanto?»

    «Non ce l’ho con nessun altro, solo con te. E continuerò a tormentarti, come dici tu, finché non mi starai a sentire!»

    «Io ti sto a sentire» osservò lei fare paziente. «So che i tuoi amici ti mancano. Ma vedi, Marty, quelli non erano veri amici.»

    «E tu che ne capisci? Non ho visto sciami di gente che ti stiano attorno. Ammettilo, Sophie, tu non sai farti degli amici e sei gelosa del fatto che io ne abbia così tanti.»

    «I tuoi cosiddetti amici non portano altro che guai!» Fu un altro errore, e Sophie se ne rese conto non appena ebbe finito di parlare. La frase dava a Marty un’altra occasione di litigio. Chissà come, la sua sorellina riusciva sempre a metterla con le spalle al muro.

    Infatti la ragazza abbozzò un sorrisetto agro e ribatté: «Allora sto benissimo con loro, no?».

    «Marty, per favore...»

    «I maledetti asciugamani sono nel maledetto armadio della biancheria. Grigio ardesia e beige e avorio e lavanda e tutti gli altri schifosissimi colori che ti sembrano tanto necessari» ringhiò la ragazza. «Tutti pronti per i tuoi maledetti ospiti. E adesso lasciami in pace.»

    E marciò fuori della cucina portandosi dietro la tazza di caffè e il giornale. Sophie la seguì con lo sguardo, cercando di ignorare la dolorosa stretta allo stomaco. Poi afferrò il terzo muffin.

    Non pareva proprio che le cose fossero destinate a migliorare. Marty era cupa e imbronciata da mesi, fin da quando erano arrivate a Colby. Sophie aveva sperato che allontanandola dalla città le avrebbe dato modo di ricominciare daccapo, che il sole e l’aria buona e un po’ di sano lavoro manuale l’avrebbero cambiata: ma finora non era successo.

    Lei faceva ogni sforzo possibile e immaginabile per essere cortese e ignorare l’ostilità di Marty, ma non era una santa. E a volte tanta bontà le pesava come un macigno.

    Certo che loro tre erano una famiglia bizzarra. Grace aveva divorziato dal marito quando Sophie aveva nove anni, l’aveva messa in collegio ed era partita per chissà quali lidi sconosciuti. Il padre di Sophie, Morris, si era risposato e aveva messo al mondo un’altra figlia, Marty. Per qualche anno Sophie aveva visto la sorellastra solo durante le vacanze, ma tutto era cambiato quando Morris e la moglie erano morti in un incidente d’auto. Per quanto scombinata, la famiglia era pur sempre la famiglia: e così, appena uscita dall’università, Sophie aveva preso la sorellastra sotto la sua ala protettrice e le aveva dato un tetto nell’appartamento di Grace sulla Sessantaseiesima. Perdere entrambi i genitori a soli dieci anni era stato un trauma per la piccola Marty, ma Grace la vagabonda e Sophie, assai più stanziale, avevano fatto del loro meglio per colmare il vuoto affettivo nel suo cuore. E ci erano più o meno riuscite fino a un anno e mezzo prima, quando Marty era entrata in piena crisi adolescenziale e a Grace era stato diagnosticato un tumore alla mammella. Dopo di allora, le cose erano andate sempre peggio.

    Sophie divorò il muffin e poi si alzò da tavola per evitare altre tentazioni.

    Lavorava come un mulo da mesi. Stonegate Farm era stata una pensione fin dall’inizio degli anni Ottanta, ma negli ultimi cinque anni era stata abbandonata; e anche solo rimuovere le macerie e la sporcizia accumulata era stato un compito immane. La ripulitura e l’imbiancatura delle pareti, per non parlare delle riparazioni che avevano prosciugato gli ultimi risparmi di Sophie, erano state un’impresa degna delle fatiche di Ercole. E l’ala sul retro era ancora tutta da rivedere, ma era talmente pericolante che per il momento lei l’aveva chiusa, in attesa di decidere se valeva la pena di ripararla o se non era meglio demolirla del tutto.

    Per ora aveva il suo bel daffare con il corpo principale della casa. Non poteva permettersi che uno scarsissimo personale, Grace era troppo svagata e Marty troppo ribelle e ostile per essere davvero utili. Il bed and breakfast doveva essere inaugurato di lì a poco, e i nervi di Sophie erano tesi quasi al punto di rottura. Però aveva tutte le stanze prenotate, si ripeteva per incoraggiarsi. Se riusciva a farcela i suoi guai sarebbero finiti... O no?

    Si avvicinò alla finestra sopra il lavello e guardò fuori. La fresca distesa del lago sembrava chiamarla, ed era quasi impossibile resistere.

    Doveva mettersi al lavoro, pensò per l’ennesima volta. Ma per qualche strana ragione non ne trovava l’energia. Era una magnifica giornata di fine estate, una leggera brezza entrava dalle finestre aperte, i rami degli aceri ondeggiavano sussurrando sopra la sua testa. E lei lavorava senza sosta da sei mesi. Non si meritava un giorno di pausa? Un giorno da passare sulla sdraio del portico a fare parole incrociate e a fumare, come peraltro faceva Marty quando lei glielo permetteva?

    Correzione, niente sigarette. E niente sdraio, meglio raggomitolarsi sull’amaca con una pila di libri di cucina e un po’ di muffin appena sfornati...

    Già, aveva mangiato l’ultimo senza nemmeno rendersene conto. Per fortuna amava gli abiti sciolti, fluttuanti, che potevano coprire i suoi peccati di gola. Al contrario della sua magrissima sorella, che amava mostrare tutto il possibile.

    Purtroppo, poltrire su un’amaca non faceva per lei, almeno non quell’estate. Forse l’anno venturo, quando il suo tanto sospirato bed and breakfast fosse stato ben avviato e lei avesse potuto permettersi del personale in più. Allora sì che avrebbe potuto prendersi un giorno libero di tanto in tanto, e godersi la pace bucolica che aveva sognato tutta la vita.

    Ma nel frattempo doveva darsi da fare, se voleva che Stonegate Farm fosse pronta ad accogliere l’invasione di ospiti tra due settimane. E non solo, aveva anche un articolo da preparare per quel venerdì e non l’aveva nemmeno cominciato!

    Forse lei avrebbe dovuto una buona volta rinunciare a scrivere, ma non riusciva a decidersi. Lettere da Stonegate Farm, la rubrica che teneva su una piccola rivista pubblicata a Long Island, le dava un minimo di stabilità e le faceva ricordare che in fondo stava vivendo il suo sogno. Dopo anni spesi a consigliare annoiate signore sul modo migliore di fare la pasta in casa, di trasformare lattine vuote in vasi per i fiori, o di tramutare vecchi fienili in case rurali da sogno, poteva finalmente mettere in pratica tutte quelle benedette nozioni. E in breve avrebbe avuto un pubblico in grado di apprezzarla, invece di una sorella adolescente perennemente di cattivo umore e di una madre troppo fuori di testa per notare quel che succedeva intorno a lei.

    La giornata prometteva di essere insolitamente calda per la fine di agosto. Sophie rimboccò le maniche dell’abito e pensò che poteva permettersi una passeggiata fino al lago, tanto per godersi un attimo di pace prima di cominciare. La riva settentrionale di Still Lake era molto tranquilla anche in piena estate. L’unica casa vicina era il vecchio cottage dei Whitten, chiuso e abbandonato da anni. Il resto degli edifici sulla riva apparteneva a Sophie, compresa una fila di cabine malandate e ormai irrecuperabili. Appena ne avesse avuto i mezzi avrebbe fatto demolire anche quelle, e alla fine Stonegate Farm sarebbe stata pressoché perfetta, affollata di clienti affezionati e, cosa ancora più importante, paganti. Per ora, era un’oasi di silenzio e calma.

    Sophie non osava domandarsi se davvero voleva che la sua privacy fosse invasa da una folla di clienti. Era l’unico modo in cui avrebbe potuto permettersi di vivere lì, e lei cercava sempre di essere realista. Se per vivere in campagna doveva prendersi cura di un’orda di sconosciuti, lo avrebbe fatto ben volentieri. E sarebbe stato simpatico avere qualcuno che l’apprezzava, tanto per cambiare.

    Aprì la porta e si incamminò lungo il prato in discesa. L’acqua del lago era placida, immobile, non disturbata dalle attività vacanziere della riva meridionale. Still Lake aveva una forma allungata e irregolare, e se ci si avvicinava da nord si poteva pensare che esistesse soltanto Whitten Cove. Solo arrivati al margine della baia si notava il braccio di lago che si estendeva verso sud, lontano dalla quiete di Stonegate Farm.

    La zona era la meno popolosa di Colby. In origine Stonegate Farm era stata una prospera azienda agricola che produceva latte e latticini, ma nei prati all’intorno non si vedevano mucche al pascolo da più di quarant’anni. Sophie aveva acquistato la proprietà dall’ultimo figlio di Peggy Niles, un ubriacone che le era sembrato ben felice di disfarsene. Non le ci era voluto molto tempo per scoprire perché. La gente non era particolarmente attratta dalla scena di un famoso omicidio.

    D’altronde la famiglia Niles era sempre stata un’accozzaglia di incapaci, almeno stando a quanto diceva Marge Averill, buona amica di Sophie. Il marito di Peggy era scappato chissà dove. Quegli ubriaconi dei figli avevano dissanguato la madre, vendendo la proprietà un pezzo dietro l’altro mentre Peggy cercava di tirare avanti affittando camere ai villeggianti. E c’era più o meno riuscita fino agli omicidi.

    Sembrava incredibile che quel delizioso villaggio del New England fosse stato teatro di tanto orrore, ma Sophie non era così ingenua da non sapere che qualsiasi vecchia cittadina ricca di storia contava un certo numero di episodi violenti. E gli omicidi di Northeast Kingdom non erano nemmeno tra i più efferati...

    Certo, la morte di tre ragazze giovanissime era stata una vera tragedia, d’altra parte il caso era stato risolto, un giovane vagabondo drogato era stato condannato e messo in prigione, e se vent’anni dopo le famiglie piangevano ancora le loro figlie questo era più che comprensibile. La sola idea di perdere Marty, per quanto sua sorella cercasse di essere il più odiosa possibile, gettava Sophie nel panico assoluto. Figurarsi come doveva essere terribile perdere davvero una persona cara.

    Comunque, la gente di Colby era sopravvissuta e aveva dimenticato. Non si parlava più da anni della strana circostanza per cui tutt’e tre le ragazze erano state impiegate come cameriere nella pensione di Peggy Niles. Né si ricordavano i particolari macabri sul ritrovamento di una delle ragazze in riva al lago, mentre le altre due erano state ritrovate nei pressi. Doc aveva addirittura suggerito a Sophie, con una sorta di humour peraltro piuttosto cupo, di sfruttare la storia e di pubblicizzare Stonegate Farm come casa stregata.

    Ovviamente lei non avrebbe mai potuto fare una cosa simile, non in una cittadina tanto piccola. Ed era certa che Doc Henley non parlasse sul serio. L’anziano signore era il ritratto del vecchio medico generico dal cuore d’oro. Aveva aiutato a venire al mondo metà degli abitanti di Colby, comprese le tre povere ragazze, e ne aveva accompagnato un buon numero all’ultima dimora quando era venuto il loro momento.

    Sophie si sedette su una poltroncina di vimini e appoggiò i piedi su una roccia, guardando distrattamente il lago immoto e aspettando che la pace del luogo la avvolgesse nel suo abbraccio.

    Ma nel panorama c’era qualcosa di strano. Qualcosa che non andava...

    Stava cercando di dare un nome alla strana sensazione quando sentì una macchina avvicinarsi sulla ghiaia del viale, ed era ormai così abituata ai diversi suoni che riconobbe lo scoppiettare della vecchia Saab di Marge Averill.

    Agitò pigramente una mano, senza alzarsi.

    Marge era un’allegra donna di mezz’età, il cui fare malizioso era in curioso contrasto con la corporatura robusta da tranquilla casalinga. Fin dall’inizio era stata prodiga di suggerimenti e consigli amichevoli con Sophie, forse perché lei era riuscita a venderle la proprietà a un prezzo superiore al giusto.

    «Giornata splendida, eh?» disse avvicinandosi con il consueto passo deciso. «Come sta tua madre?» le domandò subito dopo.

    «Bene, direi» rispose Sophie. Sapeva che questo era il periodo dell’anno in cui l’agente immobiliare era più occupata, e sapeva inoltre che Marge non era tipo da farle visita senza una ragione precisa. «Qual buon vento ti porta?»

    «Be’, non proprio buono» replicò l’altra sedendosi su una seconda poltroncina e ravviandosi i capelli grigi. «Quel che sto per dirti non ti piacerà.»

    Sophie gemette. «Che ha combinato Marty stavolta?»

    «Assolutamente niente, a quanto ne so. Si tratta di qualcosa che ho fatto io... Ho appena dato a un inquilino le chiavi del cottage dei Whitten.»

    Sophie si voltò di scatto, strizzando gli occhi nella luce del sole. Ecco che cosa c’era di strano. La villetta non era più abbandonata, le persiane e la porta d’ingresso erano aperte. Non si vedevano macchine né persone, ma il cottage era inequivocabilmente abitato.

    «Maledizione!» si lasciò sfuggire lei a quel punto.

    «Non è del tutto colpa mia. Per cinque o sei anni nessuno si è interessato al cottage, poi d’improvviso mi chiama l’avvocato che lo amministra per annunciarmi che lo ha affittato senza consultarmi, e che l’inquilino sta pensando di comprarlo. Non potevo fare un’offerta più alta da parte tua senza parlartene, ti pare? Così ho dovuto dargli le chiavi, e quello ci si è installato.»

    «Non sono in condizioni di comprare adesso, e tu lo sai» protestò Sophie. Il terzo muffin le pesava sullo stomaco come una tonnellata di piombo. «Tutto quel che ho è investito in Stonegate Farm.»

    «Senti, può darsi benissimo che non se ne faccia niente. In

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