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La casa delle foglie rosse
La casa delle foglie rosse
La casa delle foglie rosse
E-book511 pagine6 ore

La casa delle foglie rosse

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Info su questo ebook

Conni, Albert e Jim sono inseparabili fin dal primo anno di università: vivono, studiano e giocano a basket insieme, legati da un'amicizia totalizzante che ruota intorno all'anima del loro gruppo, la bellissima Kristina Kim, ma che negli ultimi tempi inizia a dare segni di cedimento. Quando il corpo di Kristina viene trovato nudo e semisepolto dalla neve nei boschi che circondano il college, tocca a Spencer O'Malley far luce sulle circostanze poco chiare di una morte che lo turba profondamente, forse per via dell'istintiva affinità che ha provato nei confronti della vittima nel momento stesso in cui l'ha conosciuta, pochi giorni prima. Com'è possibile che nessuno di quegli amici così stretti abbia denunciato la sua scomparsa? O'Malley è sicuro che la chiave di tutto sia lì, nei rapporti intricati e per certi versi inquietanti tra i quattro ragazzi, e le sue domande insistenti portano alla luce una rete di segreti, gelosie, reticenze e mezze verità che vanno ricomposti pezzo per pezzo, come un puzzle misterioso e complesso in cui ogni rivelazione è più scioccante della precedente.



Un romanzo claustrofobico e inquietante, in cui le menzogne vengono smascherate a poco a poco rivelando la fragilità della natura umana.
LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2017
ISBN9788858962091
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    Anteprima del libro

    La casa delle foglie rosse - Paullina Simons

    successivo.

    Per il mio Kevin,

    e per Bob Tavetian,

    sei nei nostri cuori.

    Prologo

    A Greenwich Point Park, dove l'aria salmastra del Long Island Sound si mescola con l'odore terroso delle foglie cadute, due bambini salivano le scale verso quello che un tempo era stato un castello. Erano soli.

    Prima erano passati davanti al custode, che sembrava conoscerli bene e che li aveva fatti entrare con un sorriso. Il parco era grande e la strada era lunga, ma il sole splendeva e faceva ancora caldo. La bambina aveva un sacchetto di carta bianco e rosso, il bambino un berretto con la visiera e un aquilone. Superarono l'estremità occidentale della baia e trovarono un tavolo da picnic vicino alla spiaggia. Lei avrebbe voluto restare scalza per sentire i sassi lisci sotto i piedi, ma lui non era d'accordo. Voleva prima mettere qualcosa sotto i denti. La bambina sospirò e si sedette. Mangiarono. Lei non tenne il broncio a lungo; era felice di essere lì.

    Dopo, calciò via le scarpe di tela bianca, si alzò e si diresse allegramente verso l'acqua. Le pietre erano coperte di muschio viscido, ma non vi badò. Raccolse alcune cozze sparpagliate sulla riva e le esaminò. Gettò via quelle schiuse, ricordando le parole di suo padre: «Se sono aperte, significa che sono morte, che non sono buone». Ripose nel sacchetto i gusci neri, a cui il bambino aggiunse qualche granchio.

    Per un quarto d'ora cercarono di capire se le increspature sulla baia, una cinquantina di metri più in là, fossero onde o lontre. Lontre, disse la bambina, ma il bambino rise. Onde, ribatté, semplici onde. Lei non era convinta. Da lontano pareva che avessero la schiena nera e che continuassero a immergersi e a riaffiorare. Si tuffavano sempre nello stesso punto, perciò forse aveva ragione lui, anche se la bambina sperava di no. Il bambino credeva di sapere sempre tutto, inoltre sarebbe stato divertente pensare di aver visto le lontre al parco.

    Lei risalì il sentiero. Lui la superò, tentando di tirarle i capelli. La bambina ritrasse la testa, ma allungò il passo, cercando di saltare sui sassi.

    Era graziosa. I capelli corti erano tagliati con cura, la camicetta bianca, fatta su misura, era inamidata, e i jeans erano stirati con la piega. La giacca candida non aveva macchie sulle maniche, come accade spesso a quell'età; le scarpe erano immacolate, con i lacci nuovi di zecca. Toglierle e camminare sul muschio fangoso era l'unico lusso infantile che la bambina si concedeva.

    Adorava fare il picnic e poi lanciare in aria l'aquilone sull'altro lato del parco. A farle venire una vaga voglia di piangere era solo l'attesa: avrebbe voluto essere già sul campo verde a srotolare la cordicella dell'aquilone. Quando il rombo di carta si fosse alzato in aria, avrebbe mollato la fune e sarebbe corsa dietro al bambino, urlando: «Più in alto, più in alto, più in alto...».

    L'autunno era la sua stagione preferita, soprattutto lì, dove il vento impregnato di salsedine soffiava sulle foglie rosse delle querce.

    «Ti va di andare subito al campo?» chiese, trafelata e speranzosa. Fece una sosta per rinfilarsi le scarpe, e il bambino si fermò a sua volta, si girò e tornò indietro.

    «Invece di cosa?»

    «Di visitare il castello.»

    Lui la fissò.

    «Okay.» Fece spallucce. «Pensavo ti piacesse il castello.»

    Lei tacque. Poi, in tono di scusa: «Mi piace, ma sono stanca».

    Il bambino le fece cenno di seguirlo. «Dai, non essere fifona.»

    La bambina si appellò a tutto il proprio coraggio.

    Percorsero il sentiero tra le querce alte e diritte, andando verso la piccola rimessa per le barche.

    Lui saltò sopra il muretto, che era alto meno di un metro, ma separava il vialetto dall'acqua. Ogni volta che la bambina si arrampicava lassù, temeva di cadere tra le onde. Se fosse successo, l'avrebbero salvata? Certo non il bambino, che non sapeva nuotare. Tenersi per mano era impossibile, perché il muro era largo solo cinquanta centimetri. No, doveva salire in cima per dimostrargli che non aveva paura.

    Però ne aveva, anche se allo stesso tempo era euforica. Cominciò a sudare. «Non voglio farlo» sussurrò, ma lui non la udì perché si era già avviato verso il castello. Lei ordinò a se stessa di smettere subito di tremare e, sospirando, lo seguì.

    Dell'edificio in rovina non restava granché a parte il paesaggio collinare del Long Island Sound; il panorama e i muri coperti di forsizia erano le ultime tracce dell'antico splendore.

    Un castello con cavalieri, principesse, armature. Con servitori e tovaglie immacolate. Con stanze segrete e passaggi segreti e vite segrete. Anch'io ho dei segreti, pensò la bambina muovendo dei passi incerti sul muretto. La principessa con il vestito bianco e le scarpe lustre ha dei segreti.

    «Aspettami!» urlò mettendosi a correre. «Aspettami!»

    PARTE PRIMA

    LA RAGAZZA CON GLI STIVALI NERI

    Al nostro istinto più forte,

    al tiranno che è in noi,

    si sottomette non solo la nostra ragione,

    ma anche la nostra coscienza.

    Friedrich Nietzsche

    1

    DOMENICA

    I quattro amici stavano giocando un due contro due a pallacanestro solo da qualche minuto, ma Kristina Kim sudava già. Chiamò un timeout e prese un asciugamano. Aristotle, il suo labrador retriever, e Frankie Absalom, l'arbitro, la guardarono con espressione interrogativa. Lei fece una smorfia.

    «Ho caldo, okay?»

    Frankie, infagottato in un cappotto, con tanto di berretto da sci e coperta, sorrise divertito. «Qual è il problema?» la punzecchiò. «Siamo fuori forma?» Aristotle ansimò, con il respiro che si condensava nell'aria gelida. Aveva il divieto di muoversi durante le partite della domenica mattina, e lo rispettava anche se, in una forma canina di ribellione, agitava la coda.

    Si avvicinarono Jim Shaw, Conni Tobias e Albert Maplethorpe. Kristina prese una bottiglia di acqua minerale dallo zaino, la aprì, se la versò sulla faccia e si asciugò. Era una fredda giornata di fine novembre, ma aveva le guance in fiamme.

    Jim le posò la mano sul collo. «Che cosa c'è, Krissy, tutto bene?»

    «Datti una mossa!» intervenne Albert. «Che cosa stai facendo? Cerchi di guadagnare tempo?»

    Kristina avrebbe voluto che i minuti accelerassero, che volassero fino all'una, quando avrebbe incontrato Howard Kim alla Peter Christian's Tavern. Voleva levarsi il pensiero, ed era così in ansia da non riuscire a concentrarsi su altro.

    «Sono fuori forma.» Si rivolse a Frankie, ignorando l'osservazione di Albert e permettendo a Jim di massaggiarle il collo. «La stagione inizia il prossimo sabato e sono in condizioni pietose.»

    «No» la contraddisse Conni. «Sei bravissima. Ieri sei stata grande.»

    Kristina minimizzò, sperando non si accorgessero che era arrossita. «Era solo un'amichevole.»

    «Ma hai fatto quarantasette punti!»

    «Sì, sì, lo so, ma le Cornell non hanno giocato al massimo.»

    «Dovrebbero darsi all'ippica.» Jim passò a frizionarle le spalle.

    «Che ore sono, Frankie?» domandò Kristina.

    «Le 12.07.»

    «Dai, ragazzi, giochiamo» li esortò allora lei. «Le squadre?»

    La prima partita vide schierarsi una coppia contro l'altra: Albert e Conni, Kristina e Jim.

    «Stai bene, tesoro?» Jim le toccò la schiena.

    Lei lo guardò pensosa, accarezzandogli la guancia ghiacciata. «Non è niente. Ho solo un caldo terribile.»

    Conni rabbrividì. «Sì, anch'io sto sudando.»

    Kristina sorrise. Mi sta prendendo in giro. «Volete un handicap?»

    Gli altri due ridacchiarono beffardi. «Al diavolo tu e il tuo handicap. Copriti la faccia con i capelli, sarà questo il nostro handicap. Abbiamo già la vittoria in pugno» ribatté Albert.

    Persero venti a sedici.

    Kristina era alta, con le gambe lunghe e una massa di capelli neri e lucidi che le incorniciavano il viso e le arrivavano fino a metà schiena. Non le piaceva legarli. La sua chioma corvina era una distrazione per gli avversari, e durante i play-off dell'Ivy League le avevano ordinato di raccoglierla. Aveva obbedito, ma prima della fine dell'incontro diverse ciocche le erano scese ugualmente sulla faccia.

    Lì, a lato del vialetto che portava alla confraternita di Frankie – la Phi Beta Epsilon, che aveva sede in uno degli edifici meno illustri di Webster Avenue, o Frat Row, come la chiamavano gli studenti del Dartmouth –, Kristina non si legava mai i capelli. Giocavano in un vecchio campo con un canestro arrugginito e senza rete, ma non le importava. I due contro due erano un ottimo allenamento. Servivano a migliorare la velocità.

    Quel giorno, tuttavia, aveva le mani di pastafrolla; continuava a perdere la palla, che persino Conni, nonostante il suo metro e cinquantatré, riusciva a intercettare. Kristina provò a passarsela da una mano all'altra dietro la schiena, ma sbagliò, e gli avversari conquistarono il tiro. Risero, ma lei, che pensava solo a Howard, rimase seria. Di solito girava su se stessa nell'aria mentre saltava per andare a canestro, ma non quella mattina, anche se tra i quattro era chiaramente la giocatrice migliore.

    Come sempre, dopo ogni tiro riuscito dava il cinque a Jim e gli stringeva le dita. Lui ricambiava il gesto, ma allentava subito la presa.

    Kristina stava masticando una gomma. In un'occasione, quando cadde pesantemente a terra, si morsicò la lingua. Sputò il chewing-gum con un po' di sangue.

    Frankie assegnava le punizioni, fischiava i falli e annotava i punti su un Post-it. Anche lui con una gomma in bocca, sedeva su una coperta ripiegata, le gambe rannicchiate contro il petto e il berretto tirato sulle orecchie.

    Quando tornarono da lui, Kristina volle sapere che ore fossero.

    «Quindici minuti dopo l'ultima volta che me l'hai chiesto. Sai, ogni partita dura un quarto d'ora. Che io sappia, almeno. Hai fretta?»

    «No, no.» Lei si versò altra acqua sulla faccia. «Forza, giochiamo.»

    «Concedici una pausa!» esclamò Conni. «Cinque minuti?»

    «No, sono carica. Le squadre?»

    «Santo cielo, non lo so. Che cosa facciamo di solito dopo che io e Albert abbiamo perso?»

    «Noi due contro gli uomini?»

    «Questa sì che è una grande idea.»

    Kristina non si lasciò abbattere dal sarcasmo dell'amica. «Fantastico. Ragazzi, vi serve un handicap?» Il suo handicap era Conni, ma non si sarebbe mai sognata di dirlo ad alta voce.

    Con una spallata, Jim la spinse contro il palo del canestro. «Ho un buon presentimento su questa partita.» Le diede un bacio leggero sulla guancia. Kristina si girò e provò a baciarlo sulle labbra, ma lui si allontanò con lo sguardo pieno di freddezza.

    È arrabbiato per ieri sera, concluse lei. Ma ne parleremo dopo.

    Le ragazze vinsero diciotto a sedici. «Wow, non ci avete battuto per un pelo» commentò Kristina alla fine della partita. Jim aveva giocato male; aveva corso un po' troppo lentamente e lanciato la palla un po' troppo in basso, non aveva intercettato i suoi tiri e non l'aveva bloccata. Era quasi pronta a giurare che le avesse lanciato occhiate cariche d'odio, ma poi accantonò quel pensiero come il frutto della sua immaginazione colpevole. Ma allora perché contrae la mascella a ogni dribbling?

    «Non trattarci con condiscendenza, Miss All-Ivy» rispose Jim. «Dopo aver finito qui, corriamo per due chilometri e vediamo chi batte chi.»

    Kristina ebbe la tentazione di ribattere che sarebbe riuscita a percorrere quella distanza in quattro minuti esatti. Che ore sono? Che ore sono?

    «Che ore sono, Frankie?»

    Lui le mostrò l'orologio. Le 12.43. Kristina era fradicia di sudore. Ancora diciassette minuti.

    Nel quarto d'ora successivo, lei e Albert sconfissero Conni e Jim quaranta a otto. Kristina inseguì ogni palla, marcando e bloccando persino l'amica, che di rado finiva nel suo mirino. Come se correre più veloce potesse accelerare il tempo.

    «Bella partita» ansimò alla fine.

    «Preferisco guardare gli incontri che disputarli» disse Conni. «Come quando vado a vedere Krissy che prende le Crimson a calci nel culo.»

    «Sì, ma sei sportiva, ed è questa l'unica cosa che conta» osservò Kristina.

    «Davvero?»

    «Certo.»

    «No» si intromise Albert, cingendo Conni con il braccio e sfoderando un sorriso allusivo. «Ci sono molte altre cose che contano.»

    Kristina raccolse lo zaino dall'erba secca. «Vi raggiungo dopo.»

    «Aspetta!» la chiamò Conni. Avvicinatasi, bisbigliò: «Credevo che mi avresti aiutata, sai... con la... mmh... sai... la...». Lanciò un'occhiata eloquente nella direzione di Albert.

    «Oh sì, la torta» sussurrò Kristina.

    «Ssh...!»

    «Scusa.» Era al limite della pazienza. «Devo andare.» Sbrigati, sbrigati, sbrigati, urlò la vocina nella sua testa. «Ci vediamo dopo, okay?»

    «Ma bisogna tritare le nocciole! Ci metterò un'eternità. E poi la glassa... dai.»

    Chinandosi verso di lei, Kristina mormorò: «Avrei una cosa da dirti a questo proposito...».

    In quel momento i ragazzi le raggiunsero, e lei non ebbe la possibilità di confessare a Conni che Albert odiava la frutta secca, specialmente le nocciole.

    «Che cosa state complottando?»

    «Niente, niente» si affrettò a rispondere.

    Conni alzò le mani. Jim rise e Kristina fece per allontanarsi. «Ci vediamo dopo» ripeté, incrociando gli occhi di Albert e asciugandosi la fronte.

    «Aspetta!» Jim la rincorse. Camminarono in silenzio tra gli alberi spogli lungo Webster Avenue, verso North Main Street. Sul prato davanti alla sede dell'Alpha Beta Gamma, alcuni studenti stavano costruendo un enorme tacchino finto.

    Kristina si augurò che Jim non notasse la sua andatura frettolosa e che non le domandasse della sera prima, ma lui fece di molto peggio. «Ti va di pranzare insieme?»

    «Pranzare?» Era spiazzata. Non si era illusa di sparire dopo la sessione settimanale di pallacanestro senza che Jim se ne accorgesse ma, da quando si erano messi insieme quasi tre anni prima, non gli aveva mai parlato di Howard e non aveva intenzione di cominciare in quel momento, quando stava per iniziare un nuovo capitolo della sua vita. Svoltarono a destra sull'angolo di North Main Street.

    «Devo scrivere il pezzo sulla pena di morte per la Review. Sono in ritardo.»

    Lui le massaggiò il collo. «Hai ancora un po' di tempo.»

    «Ah sì? Non è quello che hai detto ieri.»

    «Ieri?» Tolse la mano. «Ieri non ti ho nemmeno visto.»

    Kristina avvampò. «Sì, invece. Ieri mattina.»

    «No. Né la mattina né la sera.»

    Lei cercò di reprimere un sospiro, che però le sfuggì ugualmente dalle labbra secche e tirate. «Ieri sera sono andata alla Red Leaves.»

    «Ah sì? Ti fanno lavorare spesso il sabato sera?»

    La Red Leaves House, o Casa delle foglie rosse, era un rifugio per adolescenti incinte, dove Kristina seguiva un programma di studio-lavoro fin dal primo anno di college.

    «Di solito, no. Ma Evelyn... sai...»

    «Sì, me ne hai parlato. Che cosa le è successo?»

    «È vicina al parto...»

    «Non è un fatto strano per la Red Leaves, o sbaglio?»

    «Ed è depressa» continuò Kristina, quasi senza pause. «Aveva bisogno di me, così... mi sono fermata.»

    «Tutta la notte?»

    «Sì, era già capitato.»

    «Non me lo ricordo.»

    Il tono di Jim era scettico, ma sollevato. Kristina rise. «Che faccia! Neanche ti avessi detto che hai vinto alla lotteria.» Gli arruffò i capelli quasi con foga.

    Lui ritrovò la consueta imperturbabilità. «No, questo è molto meglio.»

    Kristina iniziò a fremere d'impazienza. Per fortuna stavano camminando e Jim non poteva vedere che le tremavano le gambe. Lo prese per mano. Avevano superato la Baker Library ed erano a un tiro di schioppo da Tuck Mall, dove vivevano tutti e quattro. Avrebbe preferito che Jim la salutasse lì anziché accompagnarla in Main Street.

    «Stai congelando» osservò lui.

    «No, al contrario.» Si asciugò il viso. «Sto morendo di caldo.»

    «Ma ti tremano le gambe.»

    Kristina indossava calzoncini di stretch nero e una T-shirt verde del Dartmouth. «Hai ragione, ho freddo.»

    Jim la studiò. «Che cosa ti prende?»

    «Niente» lo rassicurò con un gran sorriso.

    Dalla sua espressione sospettosa era evidente che non le credeva. «Dai, mangiamo insieme.»

    «Non posso, Jimbo, mi dispiace. Devo finire l'articolo prima del Ringraziamento. Ho troppe cose da fare.»

    «Ti accompagno in ufficio, allora. Anch'io ho del lavoro da sbrigare.» Era il direttore della Dartmouth Review.

    «Per la miseria!» sbottò Kristina, spazientita. «Ti prego, Jim! Mi serve qualche ora. Ho bisogno di riflettere e di raccogliere le idee in santa pace. Okay?»

    Lui smise di camminare e lei lo imitò, ma continuando a muovere le gambe sul posto.

    «Ci vediamo dopo?» le chiese.

    «Jimbo...» La tenerezza, unita alla frustrazione e all'ansia, fece suonare il soprannome affettuoso e sprezzante insieme. «Certo. Alle quattro dobbiamo incontrarci per studiare, non ti ricordi? Prima ho gli allenamenti alle due. Ci vediamo dopo, okay?»

    «Perché non ti trasferisci in palestra? Tanto sei sempre lì.»

    «Devo allenarmi, lo sai. Non sono diventata una All-Ivy solo per il mio talento.»

    «Qualche difficoltà con lo studio?» Il tono di Jim era ancora acido.

    «Be', non rientrerò nella lista degli studenti più meritevoli dell'ultimo semestre, se è questo che intendi.»

    «Ieri sera ti ho cercato ovunque, anche in biblioteca.»

    Kristina gli sfiorò il viso. «Scusa. Dovevo dirti che ero alla Red Leaves.»

    «Ero in pensiero. Non sono riuscito a addormentarmi fino all'una; ho continuato a chiamare la tua camera.»

    «All'una, eh?» Kristina si sforzò di sorridere. «Due ore più tardi del solito.»

    «Esatto.»

    «Adesso devo scappare, Jimbo. A dopo.»

    Si baciarono, e lei si avviò, allungando il passo fino a mettersi a correre. Le stringhe delle Adidas logore si sciolsero, e si fermò ad allacciarle. Perse lo zaino, ma se ne accorse solo dopo un altro tratto di strada. Tornò indietro, lo recuperò e sfrecciò sotto le tende da sole verdi in Main Street, diretta verso la Peter Christian's Tavern, il locale ricavato da una cantina.

    Ci siamo, pensò facendo tre respiri profondi ed entrando nel ristorante semibuio.

    «Scusa il ritardo.» Si lasciò cadere su una sedia di fronte a Howard, che sorrise educatamente.

    «Non c'è problema.» Scandì le parole in modo lento e preciso, consultando l'orologio. «Sono soltanto quindici minuti.» Le mise due zollette di zucchero nel caffè e aggiunse un po' di latte. Come sempre, Kristina trovò strano e assurdo sentirlo parlare un inglese così impeccabile. Lo baciò.

    Howard si asciugò la guancia. «Perché sei così bagnata?»

    «Abbiamo giocato a pallacanestro, sono tutta sudata.» Si passò un tovagliolo sulla faccia.

    Bevve un sorso di caffè e arricciò il naso. «È gelido. Cos'è, ci hanno messo il ghiaccio?» Posò la tazza. Non voleva che Howard notasse il tremito delle sue dita.

    «Qui gli unici ghiaccioli sono le tue mani.»

    Kristina era divertita. «Volevi fare una battuta?»

    «Perché ti sorprendi? Sono famoso per il mio senso dell'umorismo.»

    «Lo so.» Gli diede un colpetto sul braccio.

    «Hai freddo, eh?»

    «Sì.» In realtà non era vero, ma Kristina sapeva che per Howard era importante mostrarsi interessato.

    «Sei uscita in calzoncini? E che fine ha fatto il tuo cappotto?»

    «L'ho dimenticato.»

    «Hai ancora questo brutto vizio.»

    «Quale vizio?»

    «Ti ostini a non vestirti in modo adeguato per l'inverno.»

    «Lo trovo corroborante.»

    «I virus, quelli sì che sono corroboranti. Mal di gola. Polmonite.»

    «Mai avuti di questi problemi» dichiarò Kristina. Howard la assillava, giocando a fare la mamma, ma non le dava fastidio. «Sono sempre stata sana come un pesce.»

    Parlarono seriamente solo dopo aver ordinato. Kristina avrebbe voluto prendere un'insalata con la deliziosa salsa piccante alla senape, ma era il suo primo pasto della giornata – cracker a parte – e non voleva mangiare senape e aceto dopo il caffè. Così scelse la torta alle carote.

    Cercò di rilassarsi, ma era tesa come una corda di violino. La notte precedente non aveva dormito molto, e quel giorno si era alzata alle sette. Si era goduta la splendida mattinata, con le colline del Vermont che, coperte di alberi nudi, scintillavano sotto il sole. In quel momento però fu assalita dall'ansia mentre pensava alla rabbia di Jim e alla pazienza di Howard, che, affidabile e garbato, la sbirciava con i suoi occhi dolci e tristi da dietro gli occhiali con la montatura nera.

    «Come va?» gli domandò per distrarsi.

    «Benissimo. Sono pieno di lavoro.»

    «Ottimo.» Poi, vedendo che lui non rispondeva: «È una fortuna, no? Sarai... contento... di essere, insomma, pieno di lavoro». Si rese conto che stava farneticando. «Molti casi interessanti?»

    Lui la studiò. «Fino a che punto può essere interessante il diritto societario? Dai, vediamo questi documenti.»

    Kristina estrasse nervosamente la busta gialla dallo zaino. «Sembra tutto in regola.»

    Howard esitò prima di aprirla. «Tutto in regola? Non direi.»

    Fece la finta tonta. «No, davvero. È tutto ineccepibile.»

    Lui diede una scorsa ai documenti e li accantonò. «Non abbiamo mai avuto occasione di affrontare l'argomento. È successo qualcosa?»

    In effetti, sì. La nonna di Kristina era morta, ma Howard non lo sapeva e non doveva saperlo.

    «Ritengo solo che sia meglio così.» Lei giocherellò con la forchetta. Assaggiò la glassa al formaggio della torta. Era squisita, ma le era passato l'appetito.

    «Sicura?»

    «Sicurissima.»

    «Perché all'improvviso hai voluto il divorzio?»

    Howard indossava un completo e aveva un'aria così gentile e rassicurante che Kristina fu sopraffatta dalla tristezza. Significa che non lo rivedrò mai più? Mi ero abituata a contare sulla sua presenza.

    Posò la forchetta. Il caffè era freddo, il dolce troppo asciutto e il suo stomaco ancora vuoto. «Non è stata una decisione improvvisa, ho solo pensato che fosse arrivato il momento.»

    «Perché?»

    «Perché sto per compiere ventun anni, perché voglio andare avanti con la mia vita. Insomma, e se volessi sposarmi?» Fece una pausa. «E se tu volessi sposarti?»

    «Stai per convolare a nozze?»

    «Non ancora. Ma chissà? L'uomo giusto potrebbe essere dietro l'angolo.»

    «Mmh... Credevo fosse Jim.»

    «Infatti, è a lui che mi riferivo.» Era contenta che stessero parlando. Cominciò a rilassarsi.

    «È stata una tua idea?» chiese Howard a voce bassa.

    Kristina si appoggiò allo schienale. Erano seduti nell'angolo dietro le scale; la cantina era cupa e male illuminata.

    «Non ti seguo.»

    «Ti ho chiesto se è stata una tua idea.»

    «Questo è chiaro, ma non ho capito a cosa alludi.»

    «È una domanda a cui si risponde con un sì o con un no.»

    «Per te tutto si riduce a un sì o a un no» ribatté Kristina, tesa.

    «Quasi tutto» replicò Howard senza scomporsi. «Riproviamo. È stata una tua idea?»

    Lei si sentì in dovere di dargli una risposta. «In che senso, mia?»

    «Nel senso che è farina del tuo sacco. Oppure è stato qualcun altro a consigliarti di divorziare?»

    «Chi altri potrebbe...» Tacque e, capendo che sarebbe stato inutile continuare a fare la gnorri, mentì. «Sì, è stata una mia idea.»

    Lui la fissò impassibile, ma i suoi occhi marroni erano velati di malinconia.

    «Mangia» la esortò dolcemente.

    «Chi se ne importa di mangiare?» lo rimbeccò, acida.

    «A me importa di cosa succederà dopo il divorzio.»

    Kristina trasse un profondo sospiro. «Lo so, ma vedrai: andrà tutto bene.»

    «Faccio fatica a crederci.»

    «Perché?»

    «Tuo padre mi ha chiesto di prendermi cura di te.»

    «Non te l'ha chiesto, te l'ha ordinato.»

    «Ti sbagli, abbiamo fatto un accordo.»

    «Sì, e penso che tu abbia mantenuto la tua parte. Ma primo, compio ventun anni domani. E secondo, papà è morto. È arrivato il momento.»

    «Un accordo è un accordo. Non avevamo stabilito nulla riguardo all'età né previsto la sua morte.»

    «Arrenditi.»

    «Non posso.»

    «Per favore, non preoccuparti per me. Farò la brava, te lo prometto.»

    «È stato un fulmine a ciel sereno.»

    «Macché! È una situazione che si trascina da cinque anni. È meglio così. Per te sono stata solo un mezzo per raggiungere un fine.»

    Kristina lesse il dolore sul suo viso. Lo aveva ferito. «Mi dispiace, ma sai cosa intendo. Sei una brava persona, meriti una donna migliore di me.» Sperava di dire le cose giuste, ma era irrequieta. Giocherellò con il tovagliolo, quindi tamburellò con la forchetta sporca sul tavolo. «Hai fatto più di quanto ci si aspettasse da te. E poi, se avevi tutti questi dubbi, perché non li hai esposti a settembre, quando ti ho avvisato che volevo chiedere il divorzio?»

    «Sei venuta a chiedermi altri mille dollari, mi sono sentito in diritto di conoscere il motivo. Se avessi avuto i soldi, mi avresti informato ugualmente, oppure sarei stato contattato dal tuo avvocato?»

    «Non ho nessuno avvocato. Ho assunto un azzeccagarbugli per mille dollari tutto compreso. Non sapeva neppure a quanto ammontassero le spese del tribunale. Prima ha detto cento, poi trecento... un totale incompetente, insomma... È per questo che ti ho pregato di controllare ogni cosa.»

    «Ormai non posso più farci niente.» Howard spinse via la busta. «Per me l'essenziale è che tu stia bene, che sia al sicuro.»

    «Sto bene e sono al sicuro. Gli unici momenti rischiosi sono quelli in cui l'altra squadra cerca di farmi fallo sul campo» scherzò Kristina.

    «Succede spesso?»

    «Continuamente.»

    «Ti piace ancora giocare?»

    «Mi prendi in giro? Il basket è il grande amore della mia vita. Ho totalizzato un punteggio record nell'amichevole contro quelle della Cornell la settimana scorsa.» Sorrise orgogliosa.

    «Mi domando ancora come sia potuto succedere: tu che giochi a pallacanestro.»

    Kristina alzò le spalle. «Come capitano le cose? Divina provvidenza. Era l'unica squadra sportiva decente che c'era nella scuola in cui mi hai mandato.»

    «Oh, no.» Howard si grattò la testa. «Non ricominciare con la filosofia.»

    Kristina, con la bocca piena, ripeté ciò che il filosofo britannico Bertrand Russell aveva detto una volta sulla passione della propria vita. «Crescendo, mi sentii sempre più attratto dalla filosofia, cosa che la mia famiglia disapprovava apertamente. Ogni qualvolta si affrontava l'argomento, ripetevano tutti con infallibile regolarità: Che cos'è la mente? Nessuna materia. Che cos'è la materia? Mai mente. Dopo cinquanta o sessanta volte questa battuta cessò di divertirmi.»

    «Ho cessato di divertirti?» chiese Howard.

    «Non ancora.»

    Tacquero.

    «Hai tempo per la specializzazione?»

    «Due specializzazioni. Sì, ho tempo da vendere.» A differenza di Jim, che si stava specializzando in due discipline perché era sulla buona strada per costruirsi una carriera e un futuro, Kristina aveva fatto quella scelta perché si annoiava a morte, perché voleva riempirsi la testa dei pensieri interessanti di altre persone, in modo che la mente la abbandonasse a poco a poco, che volasse via e svanisse, anziché prestarsi, anche un solo minuto al giorno, al padre di tutti i vizi.

    «Come sta Jim?»

    «Bene. Quest'anno è lui il direttore della Dartmouth Review

    «Ti dà dei bei voti?»

    «No» disse Kristina con finta irritazione. «È più severo con me che con gli altri. La Review è troppo impegnativa, dice. Non vede l'ora di laurearsi.»

    «Che cosa vuole fare dopo?»

    «Specializzarsi in giurisprudenza.» Kristina si sforzò inutilmente di non sembrare orgogliosa. «Vuole diventare giudice della Corte suprema.»

    «Magnifico. E tu?»

    «Io? La specialistica anch'io.» Era il suo chiodo fisso, negli ultimi tempi. «Che alternative ci sono?»

    «Non saprei... trovarsi un lavoro?»

    «Fammi il favore. Qui si studiano solo materie umanistiche. Ti illudi che siamo qualificati per fare qualcosa? Siamo solo bravi lettori. Ce la caviamo anche con il Mac, ma niente di più.»

    «Prima o poi dovrai cercarti un lavoro.»

    Kristina sbuffò. «Per piacere. A che scopo? E in quale campo? Con i miei studi, che cosa sarei in grado di fare?»

    «Non ne ho idea. Che cosa fanno gli altri laureati in filosofia e religione?»

    «Insegnano» rispose Kristina, allegra. «Insegnano filosofia e religione.»

    Vedendolo sorridere, si rese conto che avrebbe sentito la sua mancanza.

    Voleva chiederle qualcosa, intuì notando che arricciava le labbra e faceva l'espressione concentrata di quando era ossessionato da una domanda difficile. Ce n'erano molte, di quelle. Howard le evitava quasi sempre, ma quel giorno resistette a stento. Alla fine, però, prevalse il tatto. Per una volta, Kristina avrebbe voluto coglierlo di sorpresa e rispondere ai suoi interrogativi inespressi, ma in quell'occasione sarebbe stato inutile. La nonna era morta. Ormai erano ufficialmente divorziati, e l'indomani sarebbe stato il suo ventunesimo compleanno.

    «Come sta, come si chiama... Albert?»

    «Bene» disse Kristina. «Stanno tutti bene.»

    «Che cosa vuole fare dopo il college?»

    «Boh.» Lei ostentò indifferenza. «Dice di voler diventare giornalista sportivo.»

    «Giornalista sportivo?»

    «Sì, peccato che non sappia scrivere.»

    «Capisco.»

    «Oppure pescatore.»

    «Sa pescare?»

    «Penso di sì.»

    «Sta frequentando un college dell'Ivy League per fare il pescatore?»

    «Un pescatore in tocco e toga.» Kristina avrebbe preferito cambiare argomento.

    Howard tacque per un istante. «Vuoi sposare Jim?»

    Un sorriso mesto. «Non so se lui voglia sposare me

    «Certo che vuole.»

    «No, non credo.»

    Howard la osservò.

    «Ti preoccupi troppo» lo rimproverò lei.

    «Mi preoccupo per te.»

    «Guardami» replicò vivacemente. «Sto benissimo.»

    «Sì» concesse, ma era poco convinto. Si alzò. «Andiamo.»

    «Non posso passare tutta la giornata con te» si scusò Kristina.

    «Lo so. Parto stasera, non ho nemmeno prenotato una stanza all'Inn. C'è un'allerta tormenta per domani.»

    «Ci sono altre novità?»

    Howard si mise il cappotto. «Hai qualche progetto?»

    «Per la tormenta? No.»

    «Per le vacanze, intendevo.»

    «Stavo scherzando. Comunque, credo che andrò nel Delaware con Jim.» Non era vero, ma non aveva ancora informato il suo ragazzo. Doveva restare a Hanover – sabato le Big Green avrebbero sfidato in casa le UPenn –, ma chi diavolo aveva voglia di fermarsi al Dartmouth per il Ringraziamento? Tuttavia con Howard non voleva ammettere di non avere niente in programma.

    «Avevi detto che non saresti più andata a casa sua.»

    Santo cielo, ha una memoria da elefante!

    «Be', è che...» temporeggiò, «ho la sensazione di non piacere ai suoi.»

    «No?»

    «No.»

    «Perché?»

    «Odiano i miei capelli.» L'ultima volta sono stati... Non riuscivano a smettere di compatirmi, me ne sono accorta, volevano chiedermi, anzi morivano dalla voglia di chiedermi perché mai una brava ragazza come me non trascorresse il Ringraziamento con i suoi genitori.

    Kristina aveva pregato Jim di raccontare loro in anticipo le vicissitudini della sua illustre famiglia distrutta. Era certa che la garbata Mrs. Shaw stava ancora morendo dalla voglia di sapere, e di dire qualcosa. Le sue domande tacite aleggiavano nell'aria fino a diventare marce e stantie, e Kristina non era più tornata a casa del suo ragazzo dopo il secondo anno.

    «Dovresti andare con Jim. Sicuramente sarebbe contento.»

    «Non ne dubito.» Kristina avrebbe voluto spiegare quanto fosse sgradevole per lei trascorrere il Ringraziamento con Jim e i suoi genitori colti e raffinati, che la riempivano di affetto e apprensione fino a soffocarla.

    Prese in considerazione l'idea di partire per Cold Spring Harbor con Connie e Albert, ma dall'inizio dell'anno lei e l'amica non andavano più tanto d'accordo. La tensione tra loro si sarebbe potuta tagliare con il coltello.

    Da matricole, quando dividevano un bilocale con bagno e salotto a Mass Row, avevano giocato a poker o a blackjack ogni sera, e avevano passato intere nottate a chiacchierare. Avevano frequentato gli stessi corsi propedeutici, mangiato al Thayer e al Collis Café e guardato i film all'Hop. Avevano sempre studiato insieme in biblioteca e, per il suo primo Natale al Dartmouth, Kristina era andata con Conni a Cold Spring Harbor, dove per tre settimane si era quasi divertita. Constance Sarah Tobias aveva una bella famiglia. Douglas, il fratello maggiore, era molto divertente e i genitori non rompevano le scatole.

    Frequentarsi era diventato difficile dopo il problema tra Jim e Albert, eppure abbastanza in fretta le cose erano tornate alla normalità. O almeno così aveva creduto Kristina. La quotidianità era fatta di esami e tesine, di lezioni e ore di studio in aula o nelle tre biblioteche del college: la Sanborn, la Baker e la Feldberg. Era fatta di ziti al forno al Thayer e di tramezzini al Collis, di film all'Hopkins Center e di feste il sabato sera, di doposbornia la domenica mattina e di due contro due a pallacanestro. Kristina si era illusa che andasse tutto bene, ma non aveva interpretato correttamente l'atteggiamento di Conni.

    Ce l'aveva messa tutta per dimenticare l'episodio dell'inverno scorso sul ponte, e aveva perdonato l'amica per il suo momento di follia.

    Sospettava che le cose fossero cambiate nel semestre autunnale del secondo anno, quando lei e Albert erano andati a Edimburgo, in Scozia, per un programma di scambio. Ma come si può rinunciare alle vecchie amicizie? Come si possono tagliare i ponti con gli amici del college? Anche dopo Edimburgo avevano continuato a studiare, mangiare e folleggiare insieme. Siamo come una famiglia. Kristina rabbrividì di colpo. Per quanto le cose si complichino, non riusciamo a rompere uno con l'altro.

    Howard pagò il conto e uscirono. Invece di infilarsi il cappotto di lana grigia lo usò per coprire Kristina; lei se lo strinse intorno al corpo, addolorata all'idea di doverglielo restituire. Era caldo e intriso del suo profumo, la solita colonia costosa. Yves Saint Laurent?

    «Devo dirti una cosa» esordì Howard.

    «Sì?»

    Si fermarono in cima alla scala. La mente di Kristina era un turbine di pensieri.

    «Non ci sono più soldi.»

    Lei si rilassò. «Lo sapevo già.»

    «Ah sì? E cosa intendi fare?»

    Kristina aveva molti progetti... a partire dal giorno dopo. Quel pomeriggio era al verde, così per un momento pensò di prendere a prestito qualche dollaro da Howard per comprare un regalo ad Albert, ma poi la coscienza non glielo permise.

    «Me la caverò. Non preoccuparti.»

    Howard esitò. «Se ti serve qualcosa, ho...»

    «Sta' tranquillo, non ho bisogno di niente.»

    «Lavori ancora alla Red Leaves?»

    «Sì. Guadagno abbastanza bene.»

    Entrarono nel minimarket e lui si comprò una felpa con la scritta: DIECI RAGIONI PER CUI ESSERE FIERO CHE MIA FIGLIA VADA AL DARTMOUTH. La ragione numero dieci era: PERCHÉ I SUOI VOTI AL TEST DI AMMISSIONE ERANO TROPPO ALTI PER ENTRARE A HARVARD.«Questa è la mia preferita» osservò Howard.

    «Ma non sono tua figlia.»

    «Non importa. Non va preso alla lettera, vuole solo essere un messaggio spiritoso. Inoltre, ogni tanto vorrei che tu lo fossi.»

    Lei si stupì. «Perché?»

    «Perché così potrei prendermi cura di te in ogni momento. Non dovrei mai avvertirti che non ci sono più soldi.» La sua voce era carica di rabbia e amarezza.

    «Ti prego» mormorò Kristina. «Ti prego.»

    «Vuoi che ti accompagni in camera?»

    «No, grazie.»

    Raggiunsero l'auto di Howard, una Pontiac Bonneville a noleggio.

    «Come sta la tua macchina?» domandò lui.

    «Oh, lo sai. Malconcia. Vecchia. La odio. C'è una perdita di antigelo dalla bocchetta di riscaldamento sul lato del passeggero, e il tanfo è disgustoso. L'interno puzza come una stalla. E poi il rumore... Mi sa che la marmitta sta andando a farsi benedire.»

    «Che te ne frega del lato del passeggero? Tu sei al volante.»

    Kristina fu sul punto di confessargli che a volte si sedeva dall'altra parte, solo ogni tanto, quando c'erano sole, alberi e montagne. Lo faceva lungo la strada per il Fahrenbrae, un complesso di chalet arroccato in cima alle colline del Vermont.

    «Ti servono soldi per farla riparare?»

    Era incredibile come, con tutto il denaro che Howard le passava, fosse sempre senza il becco di un quattrino. Era difficile immaginare che una ragazza con un'entrata fissa di ventimila dollari l'anno fosse povera – che insulto per i veri poveri! –, ma dopo aver pagato la retta, il vitto e l'alloggio, i libri e la benzina, le restavano meno di cinquecento dollari. Era così che aveva voluto suo padre: niente soldi per gli extra. Ma cinquecento dollari per dieci mesi di college non erano granché, circa un dollaro e sessantasei al giorno. Sufficienti per una barretta al cioccolato e un giornale. Se Kristina tirava la cinghia e rinunciava al cioccolato, poteva andare al cinema una volta

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