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La preda (eLit): eLit
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E-book354 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Una voce che lascia insinuanti messaggi sulla segreteria telefonica, lettere cariche di lascivi propositi, occhi che la spiano, ombre che la seguono... e la tranquilla e regolata esistenza di Anna Dunning diventa un incubo. C'è qualcuno che potrebbe aiutarla, la sua guardia del corpo, ma la presenza dell'enigmatico e affascinante ex detective risveglia soltanto impulsi e bisogni mai sopiti. Le indagini non danno frutto. Il maniaco resta senza nome e senza volto. E alla resa dei conti toccherà proprio ad Anna compiere il gesto che riuscirà a liberarla da un'angosciante schiavitù che minaccia di costarle la vita...
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2016
ISBN9788858957592
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    Anteprima del libro

    La preda (eLit) - Lynn Erickson

    successivo.

    1

    Il Cacciatore attendeva con infinita pazienza. La sua figura si fondeva con le ombre dell'oscuro e cavernoso parcheggio sotterraneo, immobile dietro un pilastro di calcestruzzo. Avrebbe potuto aspettare per ore se necessario; si era preparato nel corso degli anni, aveva affinato le sue capacità fisiche e mentali fino a diventare un perfetto predatore.

    Era freddo nel garage, quel freddo tetro e permeato dall'odore di olio d'auto che faceva accelerare il passo alle persone normali. Ma non al Cacciatore. Lui dava il meglio di sé col freddo, ed era ancora soltanto settembre.

    Gli occhi del Cacciatore, di un azzurro così chiaro da sembrare quasi trasparente, sorvegliavano l'auto. La donna sarebbe dovuta arrivare presto, poiché erano quasi le otto e il Tabor Center, il centro commerciale che sorgeva sopra la rimessa, stava per chiudere. Lui era lì da oltre due ore, animato dall'assoluta certezza che presto la preda sarebbe apparsa, così doveva essere.

    L'auto della donna... Lui la conosceva bene, una Toyota Camry grigio perla metallizzato. L'aveva vista così tante volte, seguita così tante volte prima di quella sera. Gli era familiare quanto il volto di lei: la scalfittura sulla portiera del passeggero, il portasci e il portabicicletta, l'adesivo dello zoo di Denver sul finestrino posteriore.

    Gli piaceva il suo modo di guidare: sicura e decisa, impaziente, sempre di fretta. Una donna indaffarata. Il Cacciatore permise a se stesso di ripensare al suo viso e sentì i muscoli tendersi come sempre gli capitava quando la immaginava. Il cuore gli batteva più forte, e l'eccitazione gli accendeva i sensi.

    Lei si chiamava Anna Dunning. Anna. Dunning. Un nome melodioso. Un nome sgradevole. L'ambivalenza dei suoi sentimenti nei confronti di quella creatura lo turbava. Le donne erano sgualdrine immorali, crudeli e capricciose. Lui odiava le donne. Gli piaceva fare loro del male, farle urlare e piangere e implorare perdono prima di infliggere loro la suprema, e giusta, punizione. Tuttavia Anna Dunning per qualche ragione era diversa.

    La prima volta che l'aveva vista, lei lo aveva a malapena notato. Erano trascorsi quasi sei mesi da allora. Anna si era comportata in maniera cortese. Aveva sorriso distrattamente e poi si era allontanata, le gambe abbronzate che si muovevano svelte nel sole estivo, lasciate scoperte dai calzoncini.

    E il Cacciatore si era innamorato. Come il bagliore di un fiammifero acceso nella più nera oscurità.

    Era un'emozione insolita per lui. Lo sconcertava, intorbidiva la sua mente, in genere ordinata, con fantasie, con un bisogno compulsivo di vederla, di sentire la sua voce e, osava sperare dopo tanti mesi, di toccarla.

    Non che lei fosse particolarmente bella, anche se altri uomini l'avrebbero forse considerata tale. Era il suo modo di muoversi, la sua gioiosa sicurezza di sé, un'indefinibile sfida nel suo sguardo. C'era coraggio in lei. Una preda degna. Sì, Anna Dunning era la preda perfetta per il perfetto predatore.

    Naturalmente, lui la odiava con eguale intensità. Anna era una donna, in fin dei conti. Falsa, malvagia, traditrice, al mondo solo per ferire gli uomini, per spogliarli della loro virilità.

    Bisognava essere forti, pensò il Cacciatore, sempre in attesa nell'ombra. Gli uomini non potevano permettere a simili creature di dominarli, di manovrarli con le loro arti seduttive. E Anna in una occasione aveva pronunciato una frase che lo aveva profondamente irritato. Oh, sì, quella donna aveva davvero un atteggiamento arrogante. Gli si era rivolta con quel tono brusco e distaccato. Se fossi in lei, sposterei quel cumulo di rottami prima che qualcuno inciampi e cada.

    Era stato come una pugnalata nel suo cuore, quell'ordine sbrigativo. E poi Anna gli aveva riservato un sorriso superficiale. Lui si era sentito fremere di rabbia.

    Quella donna meritava il castigo, e lo avrebbe ricevuto. Lui voleva che gli appartenesse; voleva essere in grado di punirla a suo piacimento. Anna Dunning doveva essere sua, proprio come lui doveva possedere i suoi fucili e i suoi coltelli da caccia, la motoslitta e la capanna di tronchi sulle montagne. Erano suoi, e basta. Lui li amava.

    Il Cacciatore sentì il rumore metallico dell'ascensore che si muoveva nel pozzo. Che si avvicinava. Anna. La porta gialla coperta di graffi, scritte e simboli incisi sulla vernice, si aprì scivolando sul binario e Anna uscì dalla cabina. Lui batté le palpebre. No. Era un uomo, che si affrettava verso la propria automobile, le spalle curve sotto la giacca, i passi che echeggiavano sonoramente sul cemento macchiato. Così forti che il Cacciatore quasi non notò l'altro ascensore.

    Il cuore gli balzò in gola, lo stomaco gli si contrasse. Era lei... Anna. Portava due grossi sacchetti di due negozi. Casual Corner. Brooks Brothers.

    Il Cacciatore si ritrasse dietro il pilastro. Così disinvolta e a proprio agio nella sua pelle levigata, così potente nella sua femminilità. Anna stava avanzando verso di lui, verso la sua auto. Lui poteva udire il lontano e smorzato rombo della macchina dell'uomo che lasciava il parcheggio sotterraneo, lo stridere di pneumatici. Poi tornò il silenzio, spezzato soltanto dai passi rapidi e leggeri di Anna, sempre più vicini.

    Gocce di sudore imperlarono il labbro superiore del Cacciatore. Lui si sporse in avanti di pochi centimetri per riuscire a vederla.

    Senza smettere di camminare, Anna stava frugando nella tasca della sua giacca marrone di pelle scamosciata in cerca delle chiavi; lui conosceva bene quella giacca, conosceva ogni capo di vestiario che la donna possedeva.

    Un rumore metallico. Le chiavi le erano cadute di mano. Un sommesso Accidenti. Il timbro della sua voce suscitò un fremito nel corpo del Cacciatore, una fitta che confondeva dolore e piacere. Lui chiuse gli occhi per un attimo.

    Quando li riaprì, Anna si stava chinando, i capelli che le ricadevano in avanti sul viso simili a un velo scuro, il muscolo della coscia che si fletteva mentre lei allungava il braccio per recuperare le chiavi. Le natiche erano arrotondate, e tendevano la stoffa dei jeans attorno ai fianchi. Il Cacciatore prese un respiro rapido e bruciante quando lei si raddrizzò, con le chiavi nella mano, scostando i capelli.

    Anna era ormai arrivata alla sua auto. Lui sentì il breve e leggero sibilo del comando a distanza quando lei sbloccò le portiere. Le aveva visto usare spesso quel congegno.

    Ancora qualche istante e la donna se ne sarebbe andata. Udì il fruscio dei sacchetti che venivano gettati sul sedile, lo sfregare della scarpa contro il pavimento del parcheggio. E un'inesprimibile pena lo assalì.

    Non poteva lasciarla andare.

    Incapace di controllarsi, il Cacciatore uscì da dietro il pilastro e si mosse verso di lei. Una ventina di metri li separava, non di più. Avanzò silenzioso come un fantasma sulle suole di gomma. E non c'era nessun altro, nemmeno un'anima nella buia e primitiva caverna che era diventata il rifugio del Cacciatore.

    Anna girò la testa di scatto. Vigile, consapevole, pronta alla fuga. Evocava l'immagine di una gazzella, e a lui sembrava quasi di vedere fremere i suoi fianchi sotto gli abiti. Una sensazione di potere lo colmò di fronte a quell'inconsueto lampo negli occhi della donna, lo stesso che lui ritrovava nello sguardo di un cervo quando lo centrava nella croce di collimazione del mirino del suo fucile.

    Gli occhi di Anna lo sfiorarono per una frazione di secondo, poi tornarono a spostarsi sull'auto. Nessun contatto di sguardi. La donna gli voltava le spalle ora, pronta a infilarsi nell'abitacolo, ma lui era dietro di lei, non più di un qualunque individuo che le passasse accanto mentre si dirigeva verso il proprio veicolo. Lui si era compromesso. Poteva respirare il suo odore, tanto era vicino. Il suo odore, dove si mescolavano quello della costosa pelle scamosciata, dello shampoo, e un tenue profumo, leggero e inebriante a un tempo. E i suoi capelli simili a oro scuro, tutti quei rigogliosi riccioli che ondeggiavano attorno al suo collo e la frangia che le sfiorava la fronte. La rotondità della sua guancia. Un orecchio, un pallido e delicato orecchio. Il cuore del Cacciatore era sul punto di scoppiare.

    Anna si girò d'improvviso, e lui ebbe modo di vedere i muscoli che si contraevano, immaginò l'adrenalina che le fluiva nelle vene. Fece un passo avanti.

    Il suono gli uscì dalla bocca, un sussurro strappato dalla sua gola. Ne rimase sorpreso.

    «Anna» disse.

    Gli occhi di lei erano sbarrati, colmi di terrore, la schiena appoggiata contro l'auto, la portiera spalancata.

    Il Cacciatore inspirò il suo profumo.

    «Si allontani da me!» urlò lei.

    Davvero coraggiosa. La cagna.

    Lui stava per farlo in quel momento, subito, ma i suoi sensi di predatore colsero l'impercettibile fruscio dell'ascensore. Gli restava ancora autocontrollo sufficiente per agire con prudenza.

    «Aiuto» stava gridando la donna, spostando la portiera dell'auto tra loro. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»

    E poi le porte dell'ascensore si aprirono con un leggero sibilo, e lui indietreggiò, calandosi il berretto da baseball sugli occhi. Si mosse rapidamente, scomparendo nell'oscurità, fuggendo nei recessi della sua grotta.

    Alle sue spalle si levò un concitato vociare, seguito dall'aspro rombo di un'auto, quella di Anna, e dallo stridore delle sue gomme mentre faceva marcia indietro. Lui rimase immobile, nascosto in un angolo buio, a guardare la scintillante Camry grigia che gli sfrecciava davanti per raggiungere la rampa di uscita.

    Il Cacciatore emerse dal suo nascondiglio, si spostò al centro della corsia e sollevò il viso per catturare l'ultimo sbuffo del gas di scarico dell'auto di Anna mentre usciva sbandando dal parcheggio. Lo trattenne avidamente nei polmoni e lo fece suo.

    Ci sarebbe stata un'altra volta.

    2

    Mark Righter era senza lavoro e ne stava cercando uno. A Denver lo sapevano tutti. Perfino Barry, il ragazzo che gli vendeva cornetti ed espresso in un bar della East Colfax ogni mattina. Mark era una celebrità locale. Per così dire.

    «Come vanno le prospettive di lavoro?» gli domandò Barry.

    Lui prese il sacchetto di carta bianca con i cornetti e si strinse nelle spalle. «Niente di nuovo sotto il sole. A meno che, naturalmente, io non sia disposto a fare il guardiano notturno in qualche magazzino.» «C'è di peggio.» «Sì, già» convenne Mark, «ma non per me.»

    Uscito dal locale, comprò il giornale. Avrebbe passato in rassegna le offerte di lavoro, come faceva ogni mattina del resto. Forse sarebbe stato davvero costretto ad accontentarsi per qualche tempo di un impiego come addetto alla sorveglianza, per lo meno fino a quando non avesse dato un po' di ossigeno alle sue finanze. E c'era sempre il sussidio di disoccupazione, benché il solo pensiero lo facesse rabbrividire. Non era soltanto l'idea che in quel modo si sarebbe trovato a dipendere quasi totalmente dall'assistenza sociale. Più che altro era la consapevolezza che tutti alla Centrale l'avrebbero saputo. Non poteva subire quell'umiliazione.

    Oh, accidenti, si disse, qualcosa sarebbe saltato fuori. Doveva per forza andare così. Il suo senso dell'umorismo, però, quel senso dell'umorismo da poliziotto perfettamente addestrato che gli consentiva di mantenere un certo distacco dalle avversità della vita, stava cominciando a esaurirsi.

    Mark continuò a camminare a passo spedito verso il piccolo salone specializzato in tatuaggi e scorse Lil Martinelli, la proprietaria, nonché sua padrona di casa, impegnata a spazzare il marciapiede davanti all'ingresso. In perfetto orario.

    «Pronta?» Lui mostrò il sacchetto.

    «Certo» rispose la donna. «Vai pure. Arrivo tra un secondo.»

    Era diventato il loro rituale mattutino. Da quando Mark aveva lasciato il corpo di polizia quattro mesi prima, lui e Lil avevano preso l'abitudine di sedersi fuori al sole sul retro del negozio, a mangiare cornetti e a bere caffè forte all'europea. Presto, le mattine sarebbero diventate troppo fredde per stare all'aperto, e a quel punto avrebbero probabilmente trasferito il loro quotidiano appuntamento all'interno del negozio. O forse, pensò Mark con sarcasmo, lui avrebbe avuto un lavoro per quel giorno.

    Lil finì le pulizie e lo raggiunse sul patio. «Hai raccomandato a quel Barry di diluire questo fango per me?» gli chiese, mentre si sedeva su una sedia di plastica e prendeva delle pagine del giornale.

    «Gliel'ho detto. Ma non so se mi ha dato retta...» Mark alzò una spalla con noncuranza e osservò la tenuta di Lil, cuoio nero dalla testa ai piedi.

    Nei mesi più caldi, lei aveva indossato piccoli abitini aderenti in cotone nero, ma con l'inizio di settembre aveva adottato di nuovo il suo caratteristico abbigliamento in pelle: gilet, minigonna, alti stivali. Tutto era guarnito di borchie. Mark non poté fare a meno di notare che il seno, generosamente messo in evidenza, aveva perduto tono ed elasticità, era coperto di lentiggini e rugoso a causa degli anni di sole californiano a cui la donna si era esposta prima di trasferirsi a Denver. Lil tuttavia conservava ancora una discreta figura. D'altra parte, ora che si stava avvicinando alla cinquantina, il suo viso si era fatto più rotondo, il trucco appariva pesante e troppe permanenti e tinture le avevano ormai rovinato i capelli neri che le arrivavano alle spalle.

    Lil, comunque, era diventata una sua cara amica, e gli aveva perfino offerto una casa quando lui e sua moglie si erano separati quasi un anno prima. Mark abitava al piano di sopra e probabilmente avrebbe continuato a farlo per qualche tempo. L'affitto era perfetto. Economico.

    «Il tuo telefono ha squillato appena sei uscito per andare a prendere la colazione» annunciò Lil prima di addentare il suo cornetto.

    Mark sollevò lo sguardo dalla pagina degli annunci. «Sarà stata la mia ex» osservò con amara ironia. «Mancano poche settimane al suo matrimonio. Forse vorrà chiedere il mio contributo per il ricevimento.»

    «Hmm» disse l' amica, scuotendo la testa. «Può darsi che si tratti di un'offerta di lavoro. Tu sei un ragazzo davvero famoso, Righter.»

    «Senz'altro.».

    Il primo cliente di Lil arrivò alle dieci in punto. Lei si alzò, si spolverò le mani e gli strizzò l'occhio. «Il ragazzo vuole un drago sulla guancia destra» spiegò.

    «Un drago sulla faccia?» chiese Mark.

    «No, stupido, parlo della guancia dove non splende il sole.» Lil si girò e si batté significativamente una mano sulla natica.

    «Tu mi freghi sempre» la rimproverò lui con espressione divertita. «Sei un bersaglio facile.»

    Quando la sua amica scomparve all'interno del locale, Mark gettò i recipienti vuoti del caffè e il sacchetto di carta nel bidone per i rifiuti posto al di là della recinzione rotta. Poi, portandosi il giornale, salì lentamente al piano di sopra, usando la scala antincendio sul retro dell'edificio di mattoni. Giunto a metà, si voltò e guardò a occidente verso le Montagne Rocciose, le cui cime più alte già scintillavano candide nel sole mattutino. La stagione dei cervi e degli alci era ormai vicina, e lui si chiese se quell'anno si sarebbe potuto permettere la consueta vacanza per la caccia. La sua situazione economica era già precaria ora... Scrollò le spalle, batté il giornale arrotolato sul corrimano e riprese a salire, dicendosi che doveva smettere di angustiarsi.

    Quando entrò nel suo piccolo appartamento di due locali, vide subito la spia rossa della segreteria telefonica che lampeggiava, e ancora una volta pensò che la sua ex moglie oppure Hoagie, il detective che aveva fatto coppia con lui, lo avessero cercato per sentire come andavano le cose. Lo facevano entrambi da quando lui aveva lasciato il corpo di polizia in un impeto di collera. Probabilmente pensavano che si sarebbe cacciato una pistola in bocca, ponendo così fine alla faccenda. I poliziotti avevano quell'abitudine.

    Mark rimase immobile accanto all'apparecchio per un minuto, pregando che si trattasse invece di una novità piacevole.

    La voce d'uomo non era quella di Hoagie. Sono Scott Dunning. Le sarei davvero grato se mi richiamasse. Si tratta di una questione alquanto urgente, signor Righter. E lasciava un numero di telefono.

    Dunning, pensò Mark. Scott Dunning. Conosceva quel nome. L'uomo era una specie di costruttore. Grattacieli. E non era anche il marito di quell'avvocato? Quello che era abilmente rimasto nell'ombra al processo?

    Mark frugò nella memoria. La donna era sulla quarantina. Piccola di statura e piuttosto in carne. Lineamenti minuti e una massa di capelli biondi e ricci. Grandi occhiali rotondi. Lydia Dunning. Sì, ne era sicuro. Allora, che cosa diavolo poteva volere da lui suo marito?

    Non lo abbandonava il pensiero che quella richiesta potesse avere qualcosa a che vedere con il processo allo Stupratore dell'orchidea. Ma che cosa? Quella storia era finita, l'uomo era dietro le sbarre a Canyon City. Fortunatamente, la giuria non si era lasciata incantare dalla tattica del collegio di difesa e aveva ignorato l'insinuazione che accusava lui di avere nascosto la biancheria intima della donna nell'appartamento dell'imputato per incriminarlo.

    Certo, si disse Mark, la giuria aveva considerato tutte le prove e, nonostante il dettaglio delle mutandine, aveva riconosciuto colpevole quel turpe individuo. Ma tutto ciò non aveva minimamente aiutato lui. La stampa si era scatenata e, a distanza di mesi, non aveva ancora smesso di perseguitarlo. E quando il suo stesso capitano non lo aveva difeso... be', a quel punto lui aveva compiuto il solo gesto possibile, aveva presentato le dimissioni. Quattordici anni al Dipartimento di polizia di Denver e ora non gli restava nulla. Aveva trentasei anni ed era a un punto morto.

    Tuttavia, malgrado l'amarezza che provava nei confronti della donna che aveva contribuito a distruggere la sua carriera, era incuriosito.

    Chiamò il numero di Scott Dunning. Un'ora più tardi, dopo avere fatto una doccia ed essersi cambiato, era al volante della sua Jaguar verde del '76, il suo unico vero giocattolo, il suo unico capriccio, diretto verso l'esclusivo indirizzo di Cherry Creek.

    La casa dei Dunning era sontuosa al pari del magnifico parco che si apriva oltre i due imponenti cancelli in ferro posti all'ingresso della proprietà, almeno un acro di terreno con grandi querce le cui foglie stavano già assumendo le calde e dorate tonalità autunnali. In stile Tudor, probabilmente costruita sul finire degli anni Cinquanta in quello che poteva essere considerato il primo vero sobborgo di Denver. Un tempo, Cherry Creek era parso molto lontano dal centro cittadino. Allora, solo un campo di golf e alcune eleganti dimore sorgevano nella zona. Ora i sobborghi si estendevano quasi fino a Colorado Springs, e Cherry Creek si trovava praticamente nel cuore della città.

    Mark osservò l'edificio per alcuni istanti. Sì, Dunning era sistemato davvero bene.

    Una domestica lo guidò attraverso la costruzione principale per condurlo in una serra. Gli parlava in spagnolo, e lui rispondeva nella sua versione della lingua appresa sulla strada.

    Scott Dunning lo stava aspettando nella serra. Dopo essersi presentato, gli offrì qualcosa da bere. Mark chiese un caffè.

    «Lei si dedica al giardinaggio, signor Righter?» domandò l'uomo mentre gli porgeva una tazza presa da un vassoio posto su un tavolino.

    Lui scrollò le spalle sotto la sua migliore giacca sportiva. «In passato, quando abitavo ad Aurora, qualcosa facevo. Ora sono divorziato.»

    «Capisco» disse Dunning. «Temo di trascorrere troppe ore qui dentro. Dovrei riservare questo rilassante passatempo per quando sarò in pensione.»

    Scott Dunning era alto circa un metro e ottantatré, forse un paio di centimetri meno di lui. Ma al contrario di lui, che poteva essere definito un uomo solido e massiccio, il costruttore era magro e molto curato nell'aspetto. I capelli spruzzati d'argento erano scolpiti col rasoio, la sua abbronzatura perfetta. Un individuo dall'aria distinta e affabile, che si muoveva e vestiva con eleganza.

    «È suo quel grattacielo che stanno costruendo in centro?» domandò Mark. «Quello all'angolo fra la Larimer e la Ventitreesima?»

    «Esatto.» Dunning indicò con un cenno del capo due poltroncine in ferro battuto e tutti e due si sedettero. «Non sarà completato prima del '99.»

    Mark bevve un sorso di caffè. «Una struttura davvero impressionante» osservò.

    «Vero?» ribatté Dunning, poi sorrise. «Be', immagino che si starà chiedendo perché le ho chiesto di venire qui, signor Righter.»

    «Infatti. E può chiamarmi Mark.»

    «D'accordo. Io sono Scott, a proposito. E credo che lei si sarà ormai reso conto che mia moglie, Lydia, faceva parte del collegio di difesa di quello stupratore.»

    Mark annuì e sorrise incerto mentre la curiosità tornava a pungolarlo. Che cosa voleva da lui quell'importante costruttore?

    «Mi permetta di andare subito al nocciolo della questione» disse l'uomo. «Non amo i preamboli.»

    «Sono perfettamente d'accordo.»

    «Bene.» Dunning si schiarì la voce. «Si tratta di questo. Mia sorella Anna, la mia sorella minore, è bersaglio delle moleste attenzioni di un misterioso individuo. Quando ha ricevuto le prime telefonate sconce, ha provato un certo fastidio, ma non ha dato troppo peso all'episodio, attribuendolo a qualche perdigiorno dalla mente bacata. Poi le sono arrivate un paio di lettere... roba disgustosa, descrizioni sessualmente esplicite di ciò che quell'individuo intendeva farle. Anna le ha portate alla polizia, ma gli agenti non hanno ricavato niente di utile. I messaggi erano battuti a macchina su carta comune, utilizzando una tastiera standard. Non c'erano impronte digitali, niente.»

    Mark annuì. Aveva già sentito storie simili in precedenza. Troppe volte.

    «Mia sorella ha cambiato numero telefonico, ne ha ottenuto uno che non appare sull'elenco, e ha cominciato a prendere delle precauzioni.»

    «Per esempio?»

    «Be', lei cerca di non restare mai fuori da sola di sera, blocca sempre le portiere dell'auto, anche quando è al volante... insomma questo genere di cose. E per il lavoro...»

    «Dove lavora?»

    «È una libera professionista, decoratrice d'interni. Per essere più precisi, è specializzata nella ristrutturazione di vecchi edifici vittoriani. Si sta costruendo una buona fama.»

    «Interessante» osservò Mark. «Perciò sua sorella si trova a contatto con parecchi operai.»

    «Sempre.»

    «Sospetta di qualcuno? Un vecchio fidanzato, un collaboratore licenziato?»

    Dunning scosse la testa. «Questo è il problema. Anna non riesce a immaginare chi potrebbe essere. Il fatto è che lei non ha nessun legame serio. Non è mai stata sposata... stava per farlo una volta, ma il fidanzato morì. Mia sorella adesso ha molta paura dei rapporti sentimentali. Non se ne rende conto, ma è così.»

    «Capisco» mormorò Mark.

    «Comunque» continuò Dunning, «l'altra sera sul tardi lei stava facendo degli acquisti al centro commerciale Tabor Center e uno sconosciuto le si è avvicinato nel parcheggio sotterraneo. Non è riuscita a vederlo bene. Era buio, l'uomo portava un berretto e aveva il bavero alzato. Secondo lei poteva avere sui trent'anni. Un individuo come tanti. Anna ha riferito alla polizia tutto quello che poteva, ma senza una descrizione...»

    «E sua sorella davvero non ha nemmeno un piccolo sospetto?»

    «Come le ho spiegato, non ha la più pallida idea di chi possa essere quell'uomo. Il solo consiglio che le hanno dato alla polizia è stato quello di prendersi una guardia del corpo.»

    Mark stava cominciando a capire.

    «Ne ho discusso con mia moglie» proseguì Dunning, «e Lydia ha suggerito lei.»

    Mark drizzò di scatto la testa.

    «Che ci creda o no, mia moglie è convinta che lei sia il migliore. Potrebbe proteggerla e forse al tempo stesso perfino scoprire l'identità di quel verme. Se mai si dovesse arrivare a una resa dei conti, entrambi crediamo che lei saprebbe affrontare la situazione.»

    «Be'» si schermì Mark, «quello succedeva ai tempi del mio massimo splendore. Io mi sono ammorbidito ultimamente.»

    «Sì, certo» ribatté Dunning con un sorriso ironico.

    Lui valutò la proposta per un minuto, poi chiese: «Come mai sto parlando con lei e non con sua sorella?».

    «Per essere sincero» rispose l'uomo, «Anna attraversa quella che mia moglie definisce la fase della negazione.»

    «Capita» osservò Mark. Fantastico, aggiunse tra sé.

    «Ha perfino dichiarato di avere forse frainteso la situazione al parcheggio. Oltre a ciò» spiegò il costruttore, «Anna ha qualche piccolo vincolo di natura finanziaria in questo momento. Lei e la sua socia in affari stanno giusto cominciando a riprendere fiato coi loro debiti. Mia sorella teme che non potrà mai permettersi una guardia del corpo. Abbiamo risolto la faccenda, però. Se lei assumerà l'incarico, e se Anna accetterà questo accordo, sarò io a pagarla fino a che mia sorella non sarà in grado di rimborsarmi.»

    «Tutto questo è molto bello» disse Mark, «ma sembra che sua sorella non sia convinta.»

    «Infatti è così. Anna è il genere di ragazza che... be', le piace considerarsi un tipo forte e indipendente. Sa, una donna moderna.» Dunning fece una breve pausa, poi aggiunse: «Il problema è che mia sorella non vuole ammettere di essere spaventata. Ecco perché io speravo che lei potesse incontrarla, parlarle, magari spiegarle alcune cose. Temo che Lydia abbia ragione. Anna sta cercando di sottrarsi a questa storia minimizzandola. La chiami negazione, o come preferisce. Tuttavia mia sorella ha certamente bisogno di parlare con qualcuno che abbia una preparazione e un'esperienza come la sua».

    Mark rimase in silenzio, riflettendo, per alcuni istanti. Quel lavoro si prospettava come una vera e propria seccatura.

    «Anna può incontrarla anche questa sera» annunciò Dunning. «A casa sua a Lower Downtown. Abita lì in una mansarda.»

    «Senta...» cominciò lui, pronto a tirarsi indietro, ricordando che in parte era stata Lydia Dunning a provocare le sue attuali difficoltà.

    «Accetti» lo incalzò Dunning. «Parli con mia sorella, tasti il polso della situazione. E io la pagherò per il tempo che le dedicherà, qualunque sia l'esito dell'incontro.»

    Mark stava quasi per dirgli che non era il caso, che lui avrebbe parlato con Anna senza aspettarsi in cambio un compenso, ma l'uomo si era già alzato dalla poltroncina ed era entrato in una stanza attigua per compilare un assegno. In quel momento lui capì che avrebbe preso il denaro. Non poteva permettersi il lusso di mostrarsi orgoglioso in un simile frangente. Raggiunse il costruttore.

    «Spero che sia abbastanza» disse Dunning, staccando l'assegno dal libretto.

    Mark lesse la cifra. Cinquecento dollari. Era più che sufficiente. Prese l'assegno. «Va benissimo.»

    «Potremo discutere il suo compenso se Anna... quando Anna... deciderà che è pronta a guardare in

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