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La passione di Fatima
La passione di Fatima
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E-book414 pagine5 ore

La passione di Fatima

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Info su questo ebook

Fatima è la piccola protagonista, di religione islamica, di questa storia. Fatima ha 8 anni e due fratelli più grandi. La vita è difficile nel piccolo paese del sud Italia in cui vive. Solo i racconti della nonna su Maometto, e la figura di Gesù studiata a scuola, le danno sollievo e conforto. Il padre è un intransigente fedele ad Allah che non riesce, però, a far rispettare le sue regole di vita. Nei nove mesi in cui seguiamo le avventure di Fatima, scopriamo che la piccola è attratta dalla figura di Cristo e ne sente il richiamo, nonostante la sua fede. Fatima ha il cuore sensibile e l'animo gentile e sente il dolore degli altri come fosse il suo. I desideri di una vita migliore spingono il fratello a entrare in un circolo mafioso e la sorella a fuggire per amore. Fatima si trova così a dover reggere il peso di una famiglia in disfacimento e viene ricoverata in ospedale alla vigilia della settimana santa. Come Gesù, porta le ferite, inequivocabili, della crocifissione sul suo corpo. Può una bambina islamica mostrare i segni della Passione di Cristo?
LinguaItaliano
Data di uscita12 ago 2020
ISBN9788835877561
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    Anteprima del libro

    La passione di Fatima - Ramsis D. Bentivoglio

    6410)

    AL-AWWAL - IL PRIMO

    «Nonna, ma Abdallah sapeva di aver concepito il Profeta?»

    «Non credo, bambina mia, ma sapeva che era speciale. Suo padre, Abd, gli aveva raccontato della sua nascita e di quella luce misteriosa che mandava fuori sia da neonato che da ragazzo. Tutte le donne che lo vedevano volevano averlo per loro, ma dopo il matrimonio contratto con Amina quella luce fu solo per lei.»

    «È vero che Abdallah non riuscì a vedere suo figlio? Che morì prima?»

    «Sì, Fatima, ma questa storia la raccontiamo un’altra volta.»

    «D’accordo, nonna.»

    «Brava la mia bambina.»

    «Nonna, cosa succede domani? Ho visto papà che si sta preparando con riti e preghiere.»

    «Domani è l’11 agosto e inizia il Ramadan, il mese di digiuno che tutti i fratelli islamici, che siano in buona salute, maggiorenni e che non abbiano ostacoli con il lavoro, devono affrontare una volta all’anno.»

    «Tu nonna, devi farlo?»

    «Non sono obbligata, le donne anziane possono scegliere e sono esentate. Tua madre, invece, sì.»

    «E i bambini come me?»

    «No, tesoro, tu no. Sono gli adulti che si devono purificare, gli angeli come te sono nati puri, non preoccuparti. È solo diventando grandi che si rischia, ogni giorno, di sporcare la propria purezza, quella che Allah dà a tutti al momento della nascita. Ma la sua misericordia è infinita.»

    Nonna e nipote si alzarono dalla base del tronco di quercia dove erano solite aspettare i fratelli più grandi di Fatima tornare dal centro ricreativo del paese lucano dove, da una decina di anni, risiedevano dopo una sorta di fuga dalla loro patria per scontri religiosi.

    Il padre, Ahmed, era arrivato tredici anni prima installandosi dopo aver trovato lavoro da carpentiere, nel meridione della penisola, in una zona remota di campagna, ancora sterile di cemento che, ai suoi occhi, ricordava tanto il territorio brullo da cui era fuggito. Anche il clima era confortante e così, poco alla volta, la moglie e la nonna con il piccolo Alì e la neonata Rula lo avevano raggiunto. Fatima era l’unica nata in Italia.

    Quando vide il fratello Alì e la sorella corse loro incontro cercando di non inciampare nella lunga veste che la ricopriva dalla testa ai piedi, saltellando come una gazzella per evitare buche o dossi del terreno. La nonna Atiat rimase sotto le fronde fresche dell’albero, sorridente, a guardare la scena compiacendosi della spensieratezza dei tre nipotini, cresciuti lontano dalla sua patria che amava, ma che, per amore dei suoi, aveva abbandonato tanto in fretta da non riuscire a salutare tutti.

    Sulla via del ritorno, mentre il sole lasciava quella valle collinare addolcita da campi di grano quasi maturo per la trebbiatura, lo hijab – il velo sulla testa – e la veste inferiore le svolazzavano al vento.

    «Puoi parlare con papà? A me non dà ascolto. Vorrei uscire qualche volta la sera, ormai sono grande.»

    «Non lo so. Sai che tuo padre è buono e lo fa per il tuo bene. Non si fida, ecco tutto.»

    «Sì, ma tutti i miei coetanei escono già da qualche anno e rientrano tutti entro una certa ora.»

    «Va bene, figliolo, glielo dirò stasera.»

    «Grazie, nonna.»

    «Siete le perle dei miei occhi, lo sapete.»

    «Mamma, siamo tornati», gridò gioiosa Fatima, entrando in casa e agitando la veste. Anche la nonna e i fratelli la seguirono in cucina dove Atika preparava la cena. Ma l’allegria di Fatima fu subito smorzata dall’urlo del padre che dalla stanza accanto le ordinava di star zitta.

    Appena Alì lo sentì, sbuffò, gettò a terra lo zaino e corse in camera sua, nella stanza che condivideva con le sorelle. La nonna comprese l’atmosfera e cercò di rincuorare la nipotina con un largo sorriso, ma non ottenne l’effetto voluto.

    Anche Rula se andò, lasciando sole Fatima con la nonna e la mamma.

    «Atika, che hai fatto?» le chiese sua suocera. «Hai gli occhi rossi. Non avrai mica pianto?»

    Lei volse lo sguardo dall’altra parte e continuò a tagliare le verdure.

    «È stata la cipolla», disse sottovoce.

    La nonna annuì accarezzando la bambina che guardava la scena seduta sulle sue ginocchia.

    Prima di cena, Alì domandò alla nonna se era il caso di chiedere al babbo se poteva uscire.

    «Fammi spazio sul letto. Devi capire che per tuo padre è un periodo difficile. Il lavoro non è sicuro e lui deve mantenerci tutti. Devi essere comprensivo, vi vuole bene, lo devi capire.»

    Alì sbuffò ancora.

    «Perché lo difendi sempre? Non ha mai parole di affetto per noi e con mamma è sempre duro. Non lo sopporto, a volte.»

    La nonna lo prese tra le braccia e lo accarezzò, ma lui si divincolò scattando verso la finestra con volto torvo.

    «Dai, non ci pensare! Per oggi non credo sia il caso. Andiamo, sento l’odore della cena, è pronto.»

    Alì annuì.

    «Non farci aspettare Alì...»

    La porta rimase aperta e la nonna lo poté vedere dalle scale che appannava il vetro con alitate nervose.

    Davanti alla tavola apparecchiata da Atika, con l’aiuto di Fatima, tutta la famiglia si preparò a cenare, dopo aver invocato la benedizione di Allah.

    Il padre, Ahmed, aveva il volto scuro. Negli occhi gli scorrevano nuvole grigie che mettevano di malumore i figli e in soggezione la moglie che non aveva il coraggio di contraddirlo.

    Per qualche minuto il desinare si svolse nel più religioso silenzio, mentre Fatima e la nonna si scambiavano occhiate interrogative sull’atteggiamento indisponente di Alì, che mangiava con i gomiti sul tavolo e batteva il piede per terra, inforcando il cibo come se gli facesse schifo.

    Fu Fatima a scattare per prima dalla paura quando suo padre sbatté i pugni sul tavolo facendo oscillare i bicchieri e sollevare le posate. Quindi puntò suo figlio con occhi da falco e gli urlò contro.

    «Che succede? Non sei capace di mangiare come tutti? Stai disturbando questa sacra cena, spero avrai un motivo valido. Se devi parlare, parla, altrimenti piantala.»

    Alì parve rintronato da quell’attacco feroce, ma si riprese subito guardandolo con occhi di sfida e quasi d’odio.

    «Sei tu il problema. Tutte le volte che torniamo a casa è un incubo. Sei sempre arrabbiato», gli disse con tono sprezzante. «E il motivo non si sa. Il lavoro? Noi? Non parli mai e pretendi che noi siamo sereni e ubbidienti. Non possiamo. E qui lo pensano tutti, ma solo io ho il coraggio di dirtelo. La mamma è succube, la nonna non ti riprenderebbe mai e le mie sorelle hanno paura. Che razza di padre sei? E se noi volessimo vivere come gli altri? Te lo sei mai chiesto questo? Se io volessi uscire qualche volta con i miei amici?»

    «Ah, è questo il discorso. Vuoi la tua libertà? E vorresti anche dei soldi per divertirti. Sai cosa ti dico? Quando avrai un lavoro potrai fare quello che vuoi. Io sudo tutto il giorno per dare da mangiare a questa famiglia e tu mi ringrazi così?» e si alzò in piedi minaccioso. «Quando avrai l’età non ti fermerò se andrai via da casa, ma mi rispetterai fin quando dormirai sotto il mio tetto. E ora voglio mangiare. Dove diavolo è il resto della cena?»

    Atika, sconvolta e con le lacrime agli occhi, gli versò nel piatto le verdure e l’agnello.

    «Guarda che famiglia che ho!» commentò acidamente Ahmed.

    Alì decise di non rimanere nonostante gli ordini di suo padre.

    «Ti odio» disse sottovoce, ma tutti lo sentirono.

    Una vena sulla fronte di Ahmed pulsava mentre il volto gli si accendeva di rabbia.

    Nessuno disse più una parola.

    Fatima stava sui gradini davanti a casa quando sua nonna la raggiunse e in silenzio le si sedette accanto.

    «Cosa pensi, bambina mia?»

    «Niente, sono triste. Il cielo è bellissimo, pensi che anche ai tempi di Maometto fosse così bello?»

    «Era più bello. E Allah esprimeva tutto il suo potere con lo spettacolo della Natura.»

    «Nonna, ma papà è cattivo?» chiese ingenuamente la bambina.

    La donna la guardò negli occhi con convinzione.

    «Non lo devi pensare mai. Vi ama tutti, te l’ho già detto. È solo scoraggiato. Niente di più. È avvilito da una situazione che, per lui, non si risolverà facilmente.»

    «Il lavoro, intendi?»

    «Sì, amore mio.»

    «Aaah...» disse sottovoce e sconsolata Fatima. Poi, in un battito di ciglia, si animò di stupore e gioia.

    «Guarda nonna, una stella che cade. Mi hanno detto che quando succede devo esprimere un desiderio», e per farlo, mentre sua nonna la guardava, strinse gli occhi forte e sorrise.

    «Fatto.»

    «E cosa hai pensato?»

    «Non si può dire, altrimenti non si avvera.»

    «E chi te l’ha detto?»

    «A scuola, le mie amiche.»

    «Strano, sai invece cosa dice il Corano sulle stelle cadenti alla sura 67?»

    «No, cosa?»

    «Secondo la parola di Gabriele riferita al Profeta, esistono esseri malvagi – o quanto meno dispettosi verso l’uomo – che sono molto curiosi. Ovviamente non hanno diritto a stare con gli angeli di Allah che vivono sopra le stelle, molto vicino al Signore. Questi diavoletti si chiamano jinn e tutte le volte che cercano di origliare i discorsi delle sfere superiori, gli angeli, dotati di immense ali che vanno da Occidente a Oriente, gli scagliano contro le stelle che sembra cadano sulla terra. Ovviamente l’uomo viene preservato da questa pioggia infuocata. Ecco la storia del Corano. Svela sempre storie straordinarie, non trovi?»

    La bambina guardava ammirata il cielo che nel frattempo le aveva regalato altre due stelle. Nonostante quello che le aveva detto la nonna, espresse qualche desiderio per essere sicura di non sbagliare.

    «Wow...»

    «Lo so», disse lei, «ora andiamo a letto che è tardi.»

    «No, ancora un po’.»

    «Su, su, se non vuoi dormire, continuiamo la storia del Profeta, siamo appena all’inizio.»

    Fatima si entusiasmò subito e corse dentro, verso camera sua. Agli altri fratelli era permesso stare alzati per più tempo, perciò la nonna aveva la possibilità di raccontarle un’altra storia prima dell’arrivo di Rula e Alì.

    Atiat accarezzò i capelli della nipotina, si schiarì la voce e si sedette.

    AL-HADI - COLUI CHE GUIDA

    Fatima aveva ascoltato con enorme curiosità le parole di sua nonna sulle origini di Maometto, ma il sonno, il caldo e la tensione che aveva respirato a cena l’avevano provata e così era caduta nel sonno in pochi minuti. Sua nonna era uscita dalla stanza in punta di piedi dopo averle asciugato la fronte brillante di sudore e averla baciata sulla guancia. Ai fratelli che arrivavano per andare a dormire aveva detto di fare piano, che il loro angelo era stato preso dalle possenti ali dell’arcangelo e portato in cielo a visitare i mondi della fantasia.

    Fatima si era svegliata qualche ora dopo ancora sudata. Aveva cercato le ciabatte ai piedi del letto, ma non le aveva trovate. Si era sporta dal materasso, ma niente. Non c’erano. Non si ricordava di averle lasciate di sotto, ma questo pensiero durò giusto il tempo di mettere giù i piedi e sentire il fresco delle mattonelle darle un piacevole sollievo. Aveva guardato i suoi fratelli ansimare nei loro letti e rigirarsi per trovare la posizione giusta e un po’ di refrigerio. Dopo aver controllato il loro sonno, aveva preso a camminare in punta di piedi verso il bagno in corridoio, attenta a scostare la porta della camera senza farla cigolare.

    Il corridoio che doveva percorrere era più luminoso del solito, così Fatima non aveva avuto difficoltà a raggiungere il bagno. Le sembrava di essere un’esploratrice alla ricerca del mistero nascosto nell’ombra. Alla mente si rievocavano le immagini desertiche de La Mecca di Maometto, degli antichi tempi andati in cui gli uomini vivevano in carovane o in case di argilla e paglia. Quando guardava casa sua vedeva i muri scrostati e i mattoni rotti come fosse stata ai tempi del Profeta. Per i suoi fratelli era segno di vergogna. Per lei, invece, era segno di importanza, voleva significare che era una casa vissuta e antica, appunto.

    Fatima giunse in bagno. Si lavò il viso e respirò con piacere la freschezza dell’acqua sul collo e sui polsi. Si tamponò gli occhi, ma quando li riaprì vide una luce ancor più forte venire dall’esterno. Prima non c’era, ne era sicura. Lasciò l’asciugamano sul lavandino e si avvicinò, furtiva e un po’ spaventata, alla finestra semichiusa con la persiana traforata dai picchi e dal maltempo. Cercò di vedere bene la causa di tanta luce, ma questa era così forte che dovette arretrare e farsi scudo sugli occhi con la mano.

    Tornò in corridoio, controllò, meravigliandosi che i suoi non si fossero svegliati, e poi decise di scendere le scale per uscire. A ogni gradino, sentiva il cuore palpitare più forte per la paura e per l’emozione di scoprire il mistero notturno.

    In cucina la luce era più penetrante così come la sua curiosità. Dalle fessure della porta di ingresso un fascio luminoso irradiava un ventaglio dorato che le toccava i piedi. Fatima si ritrovò ad aprire la porta e a essere inondata da un bagno di calore e luce come mai nella sua breve vita. Con gli occhi chiusi avanzò titubante e incredula.

    In un attimo il sudore svanì e una morbida sensazione l’avvolse. Si ritrovò in uno spiazzo desertico e sconosciuto. La vista si abituò in fretta e senza fastidio all’immensa luce che la permeava e che sembrava sollevarla nello spirito e nel corpo. Si sentiva leggera. Si guardava a destra e a sinistra con incanto scorgendo un paesaggio diverso da quello abituale. Alcune palme ricche di datteri circondavano una costruzione in pietra con un portale imperioso e decorazioni a trifoglio nell’arco sovrastante. Allargò il sorriso e avanzò sprofondando nella sabbia morbida e calda. Era la prima volta che la calcava e fu una sensazione piacevolissima.

    La struttura era grande e le sembrava di essere un nano dentro una reggia di giganti. Oltrepassato il portale, si ritrovò in un cortile coperto, con al centro un piccolo spiazzo. Fatima si accentrò e rimase lì a fissare quel mondo, chiedendosi se fosse vero. Si toccò un braccio e i capelli per capire se stesse sognando, ma non riuscì a definire l’impressione.

    All’improvviso, da dietro le sue spalle, apparve un’ombra che si sovrappose alla sua e la inglobò. Fatima si voltò, ma dovette alzare il collo per cogliere la figura nella sua interezza. Più cercava di vedere il suo volto, più la luce che emanava le impediva di vederne i dettagli. Abbassò lo sguardo e vide che aveva una tonaca bianca con cintura rossa e dei calzari di pelle slacciati ai piedi. Tornò a guardarlo in viso, ma dovette chiudere gli occhi per non rimanere accecata. L’uomo, senza alcun preavviso, la prese per le spalle e la scosse senza parlare.

    Fatima rimase rigida sotto le sue mani. Non sentì dolore, però, ma solo una grande confusione. Il dolore, scoprì poco dopo, lo provava un soldato romano che entrava urlando da un lato del cortile con le mani alla testa, fermandosi al centro, poco distante da loro, con alcune frecce conficcate nell’addome da cui sgorgavano sangue e acqua, irrorando come una fontana la sabbia sottostante.

    La scena fu seguita con stupore da Fatima e con distacco dall’uomo che la teneva per le spalle. Quando il soldato, sofferente, tornò a correre fuori dall’edificio, Fatima cercò ancora una volta di guardare l’uomo davanti a sé per parlargli e per vederlo, ma due forti mani la scossero fino a svegliarla...

    Erano quelle di Alì che la riportavano alla realtà, prima di tranquillizzarla e uscire dalla stanza.

    Fatima ansimò sul suo letto bagnato di sudore, quindi scese inforcando le ciabatte che erano al loro posto come sempre e corse dalla nonna facendo cigolare la porta della camera.

    AL-MATIN - L’IRREMOVIBILE

    La litigata della sera precedente aveva lasciato strascichi nei pensieri di Ahmed che, da quando era andato a coricarsi, aveva dormito mezz’oretta solo per sfinimento. Attorno alle quattro e mezza l’inquietudine si era trasformata in forte nervosismo e il continuo arrotolarsi nelle lenzuola non pacificava i suoi sensi.

    Atika, sentendolo, aveva cercato di tranquillizzarlo, ma senza effetto.

    Cosa vuoi che capisca una donna di un uomo, aveva pensato Ahmed dirigendosi al bagno, agitato dall’insonnia di quella notte agostana dall'umidità quasi insostenibile.

    Davanti allo specchio Ahmed guardò i tratti del suo viso che lo solcavano come la siccità su un campo incolto. Nel suo paese aveva visto molti anziani, compreso suo padre e suo nonno, con quelle rughe da fatica, da lavoro, da famiglia, che falcidiavano i loro cuori più della povertà o della guerra. Fortunatamente era scampato alle ultime due, ma la durezza della vita lo aveva segnato sin da piccolo, come la morte di tre fratelli in tenera età, per un attacco terroristico che aveva divelto la sua casa mentre lui era a scuola. Molti amici si erano immolati per la causa musulmana, li aveva persi nel passaggio all’età adulta, quando la volontà di cambiare il mondo prendeva il possesso delle facoltà mentali.

    Pur non condividendo la loro ideologia, li ammirava, se non altro per il coraggio, ma li biasimava perché abbandonavano le loro famiglie e i loro figli a un futuro incerto e doloroso.

    Suo padre gli aveva sempre detto di seguire il Corano, il suo cuore e il bene della sua famiglia. Tutto il resto veniva dopo. Doveva essere il suo scopo principale il bene del «frutto dei suoi lombi», come si divertiva a dire suo padre.

    Il senso di responsabilità lo aveva imparato dai suoi genitori che, nonostante le aspre difficoltà di Souk, un piccolo villaggio adagiato tra l'Atlante e il deserto del Sahara, poco più ad est di Marrakesh, gli avevano insegnato i principi di una vita onesta e degna di essere vissuta, a discapito anche di momenti felici.

    Nel nuovo paesino nel golfo di Taranto dove si era trasferito, la gente aveva una visione della vita molto superficiale. Il lavoro sembrava un accessorio noioso che offuscava il divertimento, l’unico vero motivo del vivere.

    Ahmed, invece, amava lavorare; gli dava soddisfazione costruire case ed edifici. In cuor suo era come erigere una moschea ad Allah. Per ogni mattone, per ogni colpo di cazzuola, una preghiera, un singolo versetto del Corano, una semplice invocazione a Lui.

    Questa pratica, che svolgeva in silenzio, celata nel suo cuore, lo aiutava a superare lo stress e la fatica, a differenza degli altri che, quando non ne potevano più o si stancavano dopo una lunga sudata, imprecavano contro quello stesso Dio che aveva loro dato la vita. In un qualche modo la loro offesa al Signore toccava anche il suo cuore che sussultava. Era come una freccia. Lo attraversava da parte a parte. Per contrastare questa ferita recitava la basmala, ossia l’incipit di ogni sura.

    Spenta la luce del bagno, guardò fuori, ma la luce del sole che sorgeva alle sei, non dorava ancora i campi di grano accarezzati da una leggera brezza notturna.

    Dopo essersi vestito da lavoro, ignorò i richiami di sua moglie e scese le scale. Adorava la casa così silenziosa, tutta per lui.

    Si recò in cucina, estrasse dal frigo latte, datteri e un po’ di frutta e iniziò a mangiare. Anche se vigeva il Ramadan doveva lavorare e nutrirsi e fino a quando non sorgeva il sole e riusciva a distinguere «un filo bianco da un filo nero» poteva – e doveva – mangiare.

    Bevve e mangiò con gusto. Decise di uscire prima dell’alba e di recitare la preghiera del mattino sul prato davanti casa. Indirizzò il suo sguardo a sud-est, si inginocchiò, pose le mani davanti al capo e le stese a terra invocando la misericordia di Allah e la sua protezione per il giorno che stava per nascere, intrecciando a ogni preghiera, scelta da una sura del Corano, Allah akbar (Allah è il più grande).

    Dopo molte genuflessioni, inchini, invocazioni, Ahmed intravvide alcuni raggi solari invadere la valle di grano che occupava la vista da orizzonte a orizzonte.

    Era il primo giorno di Ramadan.

    Si avviò a prendere l’autobus che sarebbe passato da lì entro pochi minuti. Sull’autobus il suo posto era sempre quello in fondo, lontano da tutti, ma più vicino ad Allah. Allora chiudeva gli occhi e recitava a memoria o leggendo dal piccolo Corano tascabile alcuni brani a scelta. Il conforto era sempre tra quelle righe che gli davano speranza per un domani migliore. Attraverso quella lettura ripercorreva la vita del Profeta, le sue imprese e i suoi consigli per una vita retta e sana che onorasse la santità dell’esistenza.

    Il viaggio durava almeno trenta minuti e, tra una fermata e l’altra e un’occhiata a chi saliva, una sura veniva recitata o letta.

    Il mondo sarebbe stato un posto migliore se le persone avessero seguito le leggi del Libro. Non ci sarebbero state guerre, ingiustizie e povertà. Allah avrebbe provveduto a tutti, indifferentemente dal ceto o dal lavoro svolto, perché grande è la sua misericordia.

    Ahmed, anche se islamico, aveva molto rispetto per la figura di Gesù, forse più degli stessi cristiani con cui aveva a che fare ogni giorno al lavoro. Era il grande Profeta che aveva annunciato Maometto, l’ultimo Messaggero della parola del Signore.

    Lungo la via per il lavoro aveva modo di vedere molte chiese erette per l’adorazione di Maria o di Gesù, ma non concepiva il fatto che credessero che fosse stato ucciso da uomini – Allah non avrebbe permesso mai che un suo messaggero fosse ucciso tanto crudelmente – e dal fatto che la sua immagine fosse così fortemente rivelata da dipinti, quadri o santini.

    La sacralità della sua figura veniva violata ogni volta che qualcuno ne immaginava il volto o l’espressione. Aveva visto immagini della passione che lo avevano sconvolto, tanta era la sofferenza e l’agonia che esprimevano. Un messo di Allah era protetto da pratiche crudeli, mentre per i cristiani proprio la sua sofferenza e la sua morte erano segni evidenti del suo amore per l’intera umanità.

    Ahmed venne distolto dai suoi pensieri dal segnale luminoso e sonoro della fermata a prenotazione dell’autobus. Alcuni suoi colleghi erano già lì che aspettavano il camion che li avrebbe portati al cantiere. Quando lo videro lo salutarono e lui rispose con un cenno della testa.

    Giovanni era il più anziano e il capomastro dei muratori, c’era Alberto il capo-idraulico, poi Gen, trasferito da Napoli per sfuggire alla Camorra e Carlo, un manovale del nord, fuggito dalla famiglia troppo capitalista per i suoi ideali socialisti.

    Ahmed non si intrometteva mai nei discorsi dei suoi colleghi, ma non poteva non ascoltarne i dialoghi.

    «Ancora mercoledì, appena a metà settimana», disse Alberto.

    «Che palle e non c’è neppure una partita di calcio», rispose Gen.

    «Ah, il tuo Napoli, quest’anno ha una bella squadra», riprese Giovanni.

    «Discreta, speriamo migliori dall’anno scorso.»

    Poi Alberto si rivolse ad Ahmed che ascoltava appoggiato alla ringhiera di un campo di patate.

    «Ahmed, oggi non inizia il vostro digiuno mensile, com’è che si chiama ram... rama...»

    «Ramadan, idiota. Abbi un po’ di rispetto per la cultura altrui», replicò Giovanni.

    Ahmed annuì con un accenno di sorriso.

    «Ma come fate voi a non mangiare per tutto il giorno e a lavorare anche? E poi non potete scopare, vero?» disse schiettamente Carlo.

    Giovanni lo guardò storto.

    «Che ho detto? È la verità, no?»

    Ahmed parlò piano.

    «Mi nutro di quello che mi dà Allah, ma anche di un po’ di frutta e latte prima dell’alba. E comunque possiamo bere acqua. L’amore possiamo farlo dopo il tramonto e prima dell’alba, ma se ci asteniamo rendiamo grazie ad Allah.»

    Il discorso fu interrotto dall’arrivo del loro datore di lavoro che li raccolse su un furgoncino, indirizzandosi al cantiere che, da quasi un anno, impiegava i loro sforzi per erigere una caserma dei Carabinieri.

    Ahmed, ormai da quindici anni, era diventato un manovale specializzato per le colate cementizie, la parte più delicata per la struttura portante di un edificio.

    Il datore di lavoro, Vittorio, era un tipo di poche parole, gran lavoratore e schietto nei giudizi. Se qualcuno gli stava sulle palle glielo diceva in faccia senza troppi fronzoli o scrupoli. Ad Ahmed piaceva. Sprecare parole inutili era solo una perdita di tempo.

    «Non si erigono case con parole», amava ripetere a tutti.

    L’unica cosa di cui Ahmed si potesse lamentare era la paga. Forse per gli altri bastava a mantenere la famiglia, anche perché alcuni di essi erano single. Ma per lui, unico reddito a casa sua, bastava a malapena a sopravvivere. Con tre figli in età scolare e due donne senza lavoro, a lui non rimaneva nulla. Aveva chiesto più volte un aumento, ma senza ottenere alcun risultato. Le tasse e il calo commissioni non lo permettevano, anche se se lo sarebbe meritato, aveva puntualizzato il suo capo.

    Ahmed non aveva ribattuto e se ne era andato sconsolato.

    Aveva imparato col tempo a fare a meno di tutto. Il mese del Ramadan gli dava la possibilità di risparmiare sul cibo, evitandogli futili desideri di gola. Una boccata di ossigeno l’aveva soltanto a dicembre con la tredicesima, ma copriva a malapena i debiti contratti durante l’anno. Ogni giorno di più si affidava sempre ad Allah e alla sua clemenza. C’era un motivo perché dovesse affrontare quelle prove frustranti, ma a lui non era dato saperlo. Lo consolava solo la frase tratta dalla sura II al versetto 286: «Allah non imporrà a nessuna anima pesi più gravi di quanto essa sia capace di sopportare. A suo vantaggio andranno i meriti che si sarà conquistato.»

    In breve giunse l’ora di pranzo, aspettata come non mai per il gran calore emanato dal cemento bollente su cui dovevano lavorare e faticare.

    Seduti tutti sullo stesso architrave all’ombra, i muratori estrassero i loro pranzi dagli zaini. Solo Ahmed estrasse una bottiglia di acqua e un tappetino. Prima si deterse il viso, riposò le membra affaticate, bevve una vigorosa sorsata dalla bottiglia, e si inginocchiò.

    Carlo, Alberto e Gen addentarono i loro panini con soppressata e formaggio, accompagnati da una lattina di cola o da un cartoncino di vino. Giovanni sembrava perplesso e guardava Ahmed come un alieno.

    «Ragazzi, che ne dite se digiuniamo anche noi? Per rispetto, almeno per oggi!»

    Carlo tossì come se quelle parole fossero una bestemmia. Tra un boccone e l’altro, biascicando pane e formaggio ammorbidito da un sorso di vino, cercò di rispondergli.

    «Scei matto, che diavolo stai... discendo? Dobbiamo lavorare noi e lui lo fa sciolo per fede», e tornò al più interessante panino.

    «Allah akbar» ripeteva nel frattempo Ahmed molto concentrato, ma con un orecchio ai loro discorsi.

    Giovanni si trovò isolato nella proposta. Il suo stomaco, inoltre, non era affatto d’accordo. Guardò il suo panino e non riuscì a trattenersi dal morderlo.

    «Scusa, Ahmed, ma non possiamo farti compagnia. La fame è troppa.»

    Ahmed rimase ancora qualche secondo in meditazione, poi si sedette accanto a loro mentre ripiegava con gesti controllati il tappetino.

    «Apprezzo la vostra intenzione, ma qualcuno deve pur mangiare. La forza deve esserci. Vi ringrazio, comunque.»

    Gli altri gli sorrisero, impossibilitati a rispondergli per via della bocca occupata.

    La mezz’ora di pausa volò in fretta e il lavoro riprese sotto un sole implacabile.

    Il pomeriggio passò relativamente in fretta e alle cinque e mezzo tutti ripresero la via di casa. Il sole era ancora alto, ma le ombre disegnavano sagome allungate e stilizzate regalando giochi di chiaroscuro sulle strade e tra i magazzini.

    Ahmed venne riaccompagnato alla fermata dell’autobus dove attese meditando alcune frasi del Corano scelte a caso dal piccolo Corano tascabile che teneva sempre con sé. La fatica si fece sentire quando si appoggiò al finestrino dell’autobus guardando le colline che dominavano la valle.

    Gli occhi gli si chiusero più volte, rischiando di fargli perdere la cognizione del tempo e anche la fermata per casa. A passo lento si avviò lungo la strada sterrata che conduceva in campagna, dove vide Fatima con la sorella giocare attorno a un albero, unico cono d’ombra naturale della zona.

    Quando lo videro, lui alzò la mano per salutare e subito gli corsero incontro sventolando le vesti lunghe sino ai piedi come un mantello.

    Mezz’ora dopo mangiavano, mentre il sole era già sceso e non si distinguevano più i colori alla luce naturale.

    Anche Atika aveva rispettato il digiuno

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