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La madre
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E-book528 pagine7 ore

La madre

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Scritto durante la rivoluzione del 1905-1907, e con riferimento alle dimostrazioni operaie del 1902 è stato a lungo il “libro” degli operai e delle loro lotte ma anche il libro dell’emancipazione di una donna semianalfabeta. La madre è un libro di memorie e come tutti i buoni libri di memorie, anch’esso incide nel vivo, dà al lettore la possibilità di familiarizzare con i personaggi, con le cose che vi sono raccontate. Condividere le pene, intrecciare un dialogo con gli uomini e con le donne che si muovono nelle sue pagine: a questo chiama il libro di Gor’kij e a questo risponde il lettore. Il quale vi trova una realtà poeticamente trasfigurata ma vera, che non ha niente a che vedere con quella mistificazione che poi fu chiamata realismo socialista. È una realtà che il lettore forse non sarebbe riuscito a scoprire e non avrebbe visto con altrettanta chiarezza se l’avesse affrontata da solo, senza la mediazione di un libro dove la poesia fa piú reali le cose. Per questo il libro è ancora vivo.
L’evoluzione della protagonista, da donna succube delle violenze di un marito ubriacone a donna emancipata, fiera del figlio, combattente di primo piano per la difesa dei diritti degli sfruttati, emerge con un crescendo lungo le 380 pagine. Così come emerge l’interessante intreccio con la figura di Cristo, non considerato come Dio, ma come predicatore della giustizia e dell’amore per il prossimo. «Ama il tuo prossimo come te stesso».
«Verranno i giorni felici – dice la madre diventata una attivista clandestina dei lavoratori in lotta contro le prepotenze dei padroni e dello Stato che li difende – Ci sono nemici cattivi, avidi, falsi che ci tengono prigionieri, ci legano, ci schiacciano. Contro tutto questo combattono i nostri figli, per amore di tutti, per amore della verità di Cristo».

Introduzione di Diego Novelli.
Prefazione di Gian Carlo Pajetta.
A cura di Luciana Montagnani.


INDICE

Introduzione di Diego Novelli
Prefazione di Gian Carlo Pajetta
Cronologia della vita e delle opere
Bibliografia essenziale
Nota al testo
La madre
Parte prima
Parte seconda

Maksim Gor’kij (pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov), nasce a Nižnij Novgorod nel 1868 e muore a Gorkij, presso Mosca nel 1936. Le sue opere hanno avuto al centro la lotta contro la miseria, l’ignoranza e la tirannia. È considerato il padre del realismo socialista. Ha soggiornato a lungo anche in Italia a Sorrento.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ago 2020
ISBN9788835981879
La madre
Autore

Maksim Gor'kij

Максим Горький (1868 - 1936) – русский писатель. Настоящее имя в биографии М. Горького – Алексей Максимович Пешков. Родители рано умерли, так Горький детство провел в жестких, тяжелых условиях, живя у своего деда. В жизни Горького всего два года были посвящены учебе в Нижегородском училище. Затем из-за бедности он пошел работать, но постоянно занимался самообучением. 1887 год был одним из труднейших в биографии Максима Горького. Из-за навалившихся бед он пытался покончить с собой, тем не менее, выжил. Путешествуя по стране, Горький пропагандировал революцию, за что был взят под надзор полиции, арестован. Первый напечатанный рассказ Горького вышел в 1892 году. Затем опубликованная в 1898 году библиотека Горького из двух томов «Очерки и рассказы», принесла писателю известность. Ему было присвоено звание члена Академии наук, однако по приказу Николая II вскоре признано недействительным. После этого писатель эмигрировал в США, затем в Италию. Даже там творчество Горького защищало революцию. Возвращение в Россию в биографии Горького произошло в 1913 году. Он работает в издательствах, проводит общественную деятельность. После 12 лет проживания в Италии, снова возвращается в Москву. К известным произведениям Горького относятся «На дне», «Мещане», «Детство», «Жизнь Клима Самгина», а также многие циклы рассказов.

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    La madre - Maksim Gor'kij

    LA MADRE

    Maksim Gor’kij

    LA MADRE

    Introduzione di

    Diego Novelli

    Prefazione di

    Gian Carlo Pajetta

    A cura di

    Luciana Montagnani

    Editori Riuniti

    Prima edizione in versione ebook luglio 2020

    Questa edizione in versione ebook corrisponde all'edizione cartacea 2017

    Titolo originale: Mat’, 1907

    Traduzione di Leonardo Laghezza

    © 1980 Editori Riuniti – Roma

    © 2020 Editori Riuniti - Roma

    di Gruppo Editoriale Italiano S.r.l. Roma

    ISBN 978-88-359-8187-9

    www.editoririuniti.it

    L’immagine di copertina è stata scaricata da internet.

    L’Editore è a disposizione di eventuali aventi diritti.

    Tutti i diritti sono riservati

    È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata.

    Introduzione

    Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è fortemente marcato dal tipo di letture che ho praticato. Ero un bambino piuttosto precoce. A cinque anni sapevo leggere e scrivere grazie ai miei tre fratelli più grandi di me, tant’è che iniziai a frequentare la prima elementare con un anno di anticipo. Nei tre anni del primo ciclo della scuola dell’obbligo mi fu assegnato il primo premio, un riconoscimento che veniva solennemente consegnato l’11 novembre dell’anno scolastico successivo, nella grande palestra della scuola, nella ricorrenza del genetliaco di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, Imperatore d’Etiopia e, per non fargli mancare niente, Mussolini gli aveva anche assicurato la corona di Re d’Albania.

    Ero un fanatico lettore. Tutti i libri della collana La Scala d’Oro, pubblicata dalla UTET, li avevo letteralmente bruciati. Tra un premio e l’altro mi divertivo con i libri che il regime fascista produceva a go-go per indottrinare, sin da fanciulli, i nuovi italiani. Ricordo la serie delle avventure di un giovane Balilla dal significativo nome, Pugno duro, che non si risparmiava nelle azioni di coraggio e di spavalderia, il tutto con il pensiero sempre rivolto al Duce.

    Finite le cinque classi elementari, fatto l’esame di ammissione alle medie, arrivò la guerra, con il conseguente sfollamento a seguito di terribili bombardamenti, e così fui iscritto all’avviamento commerciale che aveva come sbocco il diploma di computista e, con un esame ulteriore, a quello di ragioniere.

    La guerra, la Resistenza, con due dei miei fratelli maggiori partigiani combattenti nelle valli del Canavese e mio padre perseguitato come sovversivo, perché aveva rifiutato la tessera del fascio, concorsero a temprare la mia coscienza.

    Dopo il 25 aprile del 1945 mi iscrissi al Fronte della Gioventù, con sede in via Guastalla a Torino, dove prima c’era un circolo rionale fascista. Il Fronte (fondato da Eugenio Curiel) riuniva i giovani al di sotto dei 21 anni (allora era l’anno della maggiore età) dai diversi orientamenti politici con riferimento ai partiti che formavano i CLN (Comitato di Liberazione Nazionale): comunisti, socialisti, azionisti, liberali, repubblicani e cattolici delle varie correnti della Democrazia Cristiana.

    Al Fronte della Gioventù ci ritrovavamo nei tardi pomeriggio ed alla sera per parlare, discutere, leggere e studiare. Tra i nostri docenti c’era anche il Sindaco di Torino, Celeste Negarville, uno dei massimi dirigenti del Pci del gruppo storico che faceva capo a Palmiro Togliatti, arrestato e condannato dal Tribunale Speciale a 12 anni di galera, di cui ne scontò 7 in varie carceri italiane, con un anno di totale isolamento.

    Il Nega, come confidenzialmente lo chiamavano i compagni della generazione della clandestinità e della Resistenza, veniva puntualmente tutti i fine settimana e si intratteneva con noi un paio d’ore, impartendoci vere e proprie lezioni di storia, di scienze, di letteratura italiana (sapeva a memoria molti canti della Divina Commedia che aveva avuto tutto il tempo per studiare nelle Università con le sbarre, come lui le chiamava, nei penitenziari di Volterra, Civitavecchia, Fossano e Torino). Premetteva sempre che lui, contrariamente ad una vulgata molto frequente allora tra gli avversari del Pci (tra questi larga parte della Chiesa cattolica, retta da Pio XII, un tenace anticomunista) non indottrinava nessuno, ognuno doveva scegliere con la propria testa, facendo funzionare il cervello, scegliendo la ragione contrapposta alla emotività, al fanatismo ideologico, alla pancia.

    A dimostrazione del suo modo di pensare tra i primi libri che ci consigliò, lasciandocene una copia dopo averne letti alcuni capitoli, ci fu La Madre di Maksim Gor’kij.

    Questo classico della letteratura russa fu per me e per tanti altri miei compagni, una sorta di folgorazione, anche dal punto di vista letterario, cioè, il modo di scrivere, e soprattutto per il contenuto. Ma il Nega ci aveva messi sull’avviso, con molto garbo, su entrambi i fronti, classificando il libro non tra la migliore produzione dello scrittore russo. Comunque andava letto per capire come fosse diventato un testo sacro per la scuola del socialismo reale, del regime sovietico. Vale la pena leggere l’incipit, l’inizio dei primi due capoversi che per noi ragazzi allora suoneranno come la musica di una poesia.

    Ogni giorno, sul sobborgo operaio, nell’aria fumosa, greve, fremeva e urlava la sirena della fabbrica e, obbedienti all’appello, dalle piccole case grigie uscivano frettolosi sulla strada, come scarafaggi atterriti, uomini tetri e cupi che non erano riusciti a ristorare nel sonno i loro muscoli....

    A sera, quando il sole calava e sui vetri delle case splendeva stanco il sole dei suoi raggi, la fabbrica espelleva gli uomini dalle sue viscere di pietra come scorie, affumicati con le facce annerite, spandendo nell’aria l’odore viscoso dell’olio di macchine, facendo luccicare i denti affamati. Adesso, nelle loro voci risuonava l’animazione e persino la gioia, la galera del lavoro era finita per quel giorno, a casa li aspettavano la cena e il riposo.

    Il romanzo – leggiamo nelle note del testo – fu pubblicato in russo a Berlino nel 1907 e poi comparve in Russia con notevoli tagli l’anno successivo. La versione integrale, con modifiche di contenuti e di stile dell’Autore, apparve solo nel 1917. Le traduzioni furono immediate negli Stati Uniti e in Inghilterra. Anche in Italia, nel 1907, fu tradotto con il titolo I nichilisti, romanzo di grande attualità. Numerose furono le altre edizioni sino al 1958, quando venne ristampato dagli Editori Riuniti con una bella prefazione di Gian Carlo Pajetta.

    Gor’kij, a mio avviso, non può essere considerato uno scrittore di corte, anche se fu poi usato come tale. Le sue ferme convinzioni a difesa delle classi più diseredate, degli ultimi, per dirla in gergo evangelico, anche se estremizzate nel racconto de La Madre (non dobbiamo dimenticare che si riferisce al periodo zarista) non lo portarono mai ad offuscare la verità, dettata dalla ragione degli sfruttati. L’evoluzione della protagonista, da donna succube delle violenze di un marito ubriacone a donna emancipata, fiera del figlio, combattente di primo piano per la difesa dei diritti degli sfruttati, emerge con un crescendo lungo le 380 pagine. Così come emerge l’interessante intreccio con la figura di Cristo, non considerato come Dio, ma come predicatore della giustizia e dell’amore per il prossimo. «Ama il tuo prossimo come te stesso».

    Verranno i giorni felici – dice la madre diventata una attivista clandestina dei lavoratori in lotta contro le prepotenze dei padroni e dello Stato che li difende – Ci sono nemici cattivi, avidi, falsi che ci tengono prigionieri, ci legano, ci schiacciano. Contro tutto questo combattono i nostri figli, per amore di tutti, per amore della verità di Cristo.

    I bui sentieri del dubbio Gor’kij li ha praticati già nel 1917 quando manifestò più volte il suo scetticismo sul fatto che il suo Paese fosse pronto per una rivoluzione socialista. Nei primi mesi che seguono la Rivoluzione d’Ottobre scrive una serie di articoli ("Pensieri intempestivi") nei quali mostra un atteggiamento critico nei confronti del governo e del Partito comunista bolscevico guidato da Lenin, all’interno del quale egli ravvisò delle tendenze accentratrici pericolose per la democrazia. Più tardi, va detto, si riaccostò al Partito, ritrattando anche pubblicamente le sue critiche. Debolezza umana, o scelta del quieto vivere?

    La passione che scaturì dalla lettura de La Madre, ebbe una funzione chiaramente pedagogica, almeno per la mia generazione in età adolescenziale. «Leggere, studiare» – non si stancano mai di ripetere i dirigenti del movimento proletario – «Studiare e poi insegnare agli altri». «Noi operai bisogna che studiamo...». «Dobbiamo sapere, dobbiamo capire perché la nostra vita è così dura». «Dobbiamo accendere in noi stessi la luce della ragione, perché gli ignoranti ci possono scorgere, dobbiamo sapere rispondere a ogni loro domanda in modo giusto e onesto. Dobbiamo conoscere tutta la verità, tutta la menzogna...».

    Una vera azione di apostolato laico che il figlio della Madre svolge con un gruppo di compagni, coinvolgendo la genitrice, affrontando a viso aperto il nemico di classe, come nella ricorrenza del 1° maggio, Festa del lavoro, quando verrà arrestato per l’ennesima volta e condannato da un tribunale al servizio dei padroni.

    «La Russia sarà la più bella democrazia della terra» pronosticano gli attivisti del partito. Purtroppo non sarà così, come la storia ci ha insegnato, anche dopo la caduta del muro di Berlino e la breve stagione di Gorbaciov.

    Già nel 1935 l’autore de La Madre, quando la sua fama di grande, universale letterato, gli era riconosciuta nei cinque continenti, il regime stalinista di Mosca gli negò il passaporto per recarsi a Parigi dove era stato indetto un Congresso Internazionale contro la guerra e il fascismo.

    Nel 1936, dopo la sua morte, la propaganda di Stato, il 18 giugno, diffonde la notizia che lo scrittore era stato «assassinato» in seguito ad un complotto ordito da fascisti e «trockisti» di destra. Un’altra versione fatta circolare clandestinamente indicava invece proprio Stalin quale diretto responsabile della morte dello scrittore. In verità non è mai stato appurato nulla di certo e la verità è tuttora ignota e tale è destinata a restare.

    Per restare in Italia la «Ditta», per usare una espressione cara a Bersani, seppe fare prevalere alla componente settaria, o dei «trinariciuti», presente nella sinistra (questa è stata invece un’espressione lanciata in quegli anni dal settimanale qualunquista «Il Candido», con le vignette di Guareschi) la ragione, la cultura, lo studio. Ricordo sempre ai giovani amici e compagni che incontro in questa difficile e confusa stagione che stiamo vivendo, una delle battute che Celeste Negarville ci aveva trasmesso nei giorni in cui leggevamo assieme al Fronte della Gioventù La Madre di Gor’kij: «L’istruzione è obbligatoria; l’ignoranza è facoltativa».

    Torino, ottobre 2017

    Diego Novelli

    Prefazione

    Ci sono dei libri sulla cui importanza nessuno discute, e che non si possono dimenticare mai. Sono oggetto di esame e di studio perché fanno parte della storia. Ma di quale libro, anche dal successo effimero, si potrebbe dire che non fa parte della storia, che non è esso stesso storia? Penso anzitutto alla Divina Commedia, alle opere di Shakespeare, a Poesia e verità di Goethe, veri e propri capitoli della storia della civiltà. Poi ci sono libri che appartengono alla letteratura minore ma che esercitano una funzione diretta, importante nella vita politica e nella cultura di vaste zone popolari. Dico subito che non intendo fare qui un’esaltazione della letteratura popolare contrapponendola a una letteratura senza aggettivi, né, d’altra parte, un’apologia della letteratura che tutti possono capire, o che ha un successo e un’incidenza politica, contrapponendola a quella che può essere considerata classica. Se dovessi esprimere con parole immediate qual è il carattere di questo romanzo di Gor’kij, direi che esso è importante, al di là del suo valore letterario, al di là della presa che può avere sul lettore e anche al di là del posto che occupa nel filone della letteratura russa, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. È importante perché è veramente un pezzo di storia contemporanea, della nostra storia. Che cosa esso abbia rappresentato per il movimento operaio russo, lo ignoro. So bene invece che cosa è stato per il movimento operaio italiano, per la sua cultura e anche per la sua azione. Chi leggeva La madre ne traeva incitamento e stimolo. Direi senza esitazione che questo romanzo fu capace di favorire anche un fecondo moto di proselitismo. Ancor oggi, quando ripenso ad esso mi viene spontaneo collocarlo in questa prospettiva.

    Ero ragazzo allora, e i libri che potevano essere considerati, nello stesso tempo, popolari e rivoluzionari, non erano poi molti. Ce n’erano alcuni di anarchici; altri, pubblicati già prima del fascismo, erano stati popolari e avevano avuto una loro funzione nel primo movimento operaio e democratico, e anche per questo venivano ancora letti: ma appartenevano già ad un’altra epoca; erano, direi, antichi. Parlo dei libri di Zola, che fino a quel momento erano stati letti come opere popolari e, nel tempo stesso, rivoluzionarie; parlo di altri libri che ebbero una diffusione e un peso tra le classi popolari e nella piccola e media borghesia intellettuale. Mi riferisco ad alcuni romanzi francesi, in certo senso «obbligati», come I miserabili. Il libro di Gor’kij fu uno dei romanzi che, sul finire degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta (non so ancora per quale ventura potesse circolare liberamente in Italia), lasciò un segno nella nostra vita e nella cultura di quella minoranza che si guardava intorno e cercava nel passato qualche motivo di speranza per il futuro. Fu un libro che molti ragazzi di allora, molti giovani e non giovani, operai e operaie, considerarono come una fonte di consolazione, di fierezza, di stimolo. Fu un libro che, in qualche modo, li faceva diventare protagonisti di una vita che avrebbero voluto vivere e che cercavano di rendere possibile.

    La madre colpí, commosse, insegnò. Insegnò, per esempio, che cos’era una riunione, uno sciopero, che cos’era un manifestino. Non vorrei fare della retorica; ma a me insegnò anche che cosa poteva essere una madre. Mia madre era certo differente da questa popolana, e io a mia volta ero differente da questo giovane operaio, che combatteva la sua parte di lotta di classe sotto lo zarismo. La trasfigurazione di questa madre in mia madre – c’è un elemento di realtà, nella letteratura, al di là di ogni finzione, di ogni mistificazione o di pseudorealismo – la trasfigurazione di questo giovane in quello che io volevo essere e pensavo di diventare, furono una parte della mia vita, un momento della mia trasformazione in combattente della dasse operaia. Non mi sentivo solo. Questo libro veniva letto, passava di mano in mano, e ognuno di noi ne faceva uno strumento della sua partecipazione alla vita politica e della società. Così la nostra esistenza quotidiana, anche per merito della Madre, diventava un momento della storia del movimento operaio italiano. Anch’esso era un libro «obbligato», come I miserabili per la generazione precedente (anche se non era «proibito» alla mia generazione continuare a leggere il capolavoro di Victor Hugo, come mi pare sia, invece, per i nostri ragazzi), ma La madre non era, e non è, un libro antico. Il romanzo di Gor’kij non vive soltanto nei ricordi di una generazione, non è un libro che abbia avuto un peso in un passato piú o meno lontano e ora sia diventato puro e semplice reperto archeologico; non è una bandiera gloriosa sotto una lastra di vetro: è un libro attuale, vivo, che nessuno ha dimenticato. Ne ricordo un altro, dei libri di allora, che ebbe rinomanza e peso, che fu capace di imprimere un forte stimolo politico ai suoi lettori perché, cosí almeno ci pareva, diffondeva una certa volgarizzazione del marxismo: Il tallone di ferro. Ma penso che, oggi, molto difficilmente, a differenza di quello di Gor’kij, il libro di Jack London può essere considerato attuale. No, le prospettive, l’immaginazione, il modo come si sarebbe dovuta svolgere la lotta politica hanno potuto appartenere ai nostri sogni, alle nostre fantasie, hanno potuto magari farci muovere qualche passo in una ricerca culturale che poi continuò in altri libri, ma, oggi, Il tallone di ferro è un libro morto.

    Nel ripresentare La madre come un libro che non ricorda soltanto un’altra epoca, mi chiedo allora come si possa spiegare questa sua vitalità in situazioni politiche e in tempi storici tanto diversi. Credo intanto sia necessario chiedersi chi è stato e che cosa ha rappresentato Gor’kij, che cosa ha significato la sua opera e perché essa abbia avuto una straordinaria fortuna in Italia. L’epoca della quale ho parlato io, quella in cui si leggeva La madre e Il tallone di ferro, segna il secondo momento di Gor’kij in Italia. Già prima della Madre, tra un pubblico forse piú ristretto, piú scelto, piú colto, lo scrittore russo aveva conosciuto una sua fortuna. Parlo del Gor’kij della prima rivoluzione russa, del Gor’kij di prima del conflitto del ’14 e del dopoguerra, il Gor’kij di romanzi come I tre, di drammi come Piccoli borghesi e di due libri molto importanti, che mi meraviglio non vengano ripubblicati. Il primo è La mia infanzia, il racconto di un ragazzo che vive ai margini di una grande città e, in una Russia in cui era stata raccontata la vita dei contadini e quella dei nobili, racconta invece la vita dei proletari. Il secondo è Tra la gente, che racconta come quel ragazzo entrò nel mondo prima di diventare il romanziere, il cantore della rivoluzione, il compagno di Lenin, l’uomo che polemizzerà con i bolscevichi, l’emigrato che da Capri e da Sorrento dirà parole che giungeranno in tutto il mondo. Attorno a quell’uomo si raccoglieranno allora esuli di ogni luogo, i quali riconosceranno in lui non solo l’intelligencija russa, la borghesia intellettuale che si è legata alle sorti del popolo, ma la vera e propria intelligenza, la capacità di pensare, di riflettere e di continuare a percorrere la strada aperta da Leone Tolstoj, che aveva parlato al mondo del contadino Platone Karataev, da Anton Cechov, che aveva imparato il russo dalla sua balia, da Nicolaj Gogo’l, che nel Revisore aveva fustigato la burocrazia russa, da Ivan Turgenev, che aveva dato al mondo un capolavoro come Le memorie di un cacciatore. Ecco che cosa era stato Gor’kij in un momento importante per il suo paese, ed ecco che cosa tornava ad essere per merito, per cosí dire, della dittatura fascista, che aveva creato in Italia condizioni e modi di vita, non solo, ma anche modi di lotta, di resistenza e di speranza che un altro popolo aveva conosciuto sotto la dominazione zarista. Non si può sfuggire a due considerazioni. La grande letteratura russa, parlo di Guerra e pace, delle novelle di Cechov, delle Memorie di un cacciatore di Turgenev che ho appena ricordato, di Gogo’l e via di seguito, toccò dapprima ambienti essenzialmente intellettuali, ai quali giunse, ed è una nuova dimostrazione di un certo nostro provincialismo, attraverso le traduzioni dal francese. Non si diceva Anna Karenina, ma Anna Karenine, senza pronunziare la e finale, alla francese: perché molti, e anch’io del resto quand’ero ragazzo, avevano letto in francese questo romanzo di Tolstoj. Le opere che qualche critico definirebbe minori – Padri e figli a confronto delle Memorie di un cacciatore, Resurrezione a confronto di Guerra e pace, o piú popolari, come Delitto e castigo a confronto con i Fratelli Karamazov, oppure scrittori come Ivan Bunin o Leonid Nikolaevic Andreev nei confronti di un Tolstoj o di un Dostoevskij – furono esse soprattutto, nel primo Novecento e nei primi anni del fascismo, la letteratura popolare italiana. Cosí come, precedentemente, la letteratura popolare italiana era stata quella francese, i romanzi di Victor Hugo, di Emile Zola, addirittura Le due orfanelle o I misteri di Parigi. La storia della letteratura italiana, mi sia consentito, è fatta di tanti periodi di storie di letterature straniere; quella russa, quella francese e successivamente, già in epoca fascista, quella americana. Steinbeck, Caldwell, ancor prima Dreiser, Melville e molti altri furono tradotti nella nostra lingua dai maggiori scrittori italiani. Per avere una letteratura italiana che sfiorasse le grandi masse giovanili e popolari dovemmo aspettare l’immediato anteguerra e poi la liberazione, quando scoprimmo Vittorini, Pavese, Moravia, Pratolini, Bilenchi. I libri che avrebbero potuto essere popolari qui da noi, parlo dei libri di Verga, Pirandello, di De Roberto, non furono letti, quasi non furono conosciuti. Libri italiani che arrivarono fino a lambire le masse o che entrarono a far parte del bagaglio letterario della piccola borghesia, la storia letteraria e persino gli editori li hanno dimenticati per lungo tempo. Non mi dolgo che la dimenticanza sia scesa sui Luciano Zuccoli e sui Lucio D’Ambra, né mi dolgo che sia scesa su autori come Grazia Deledda, Virgilio Brocchi o su scrittori che ebbero la loro importanza in cerchie ristrette e per un breve periodo. Nemmeno D’Annunzio, nemmeno Oriani ebbero mai un pubblico di massa, né all’epoca in cui si leggevano i francesi e i russi né successivamente.

    Perché, invece, questo libro, un libro modesto, ebbe intorno a sé tanto consenso, perché suscitò tanto interesse, al punto che ancor oggi, parlandone, si finisce per collocarlo, come ho fatto io, nella letteratura italiana o, almeno, tra i libri piú letti in Italia? Direi intanto che ciò poté accadere perché La madre è un libro di memorie e come tutti i buoni libri di memorie, anch’esso incide nel vivo, dà al lettore la possibilità di familiarizzare con i personaggi, con le cose che vi sono raccontate. Condividere le pene, intrecciare un dialogo con gli uomini e con le donne che si muovono nelle sue pagine: a questo chiama il libro di Gor’kij e a questo risponde il lettore. Il quale vi trova una realtà poeticamente trasfigurata ma vera, che non ha niente a che vedere con quella mistificazione che poi fu chiamata realismo socialista. È una realtà che il lettore forse non sarebbe riuscito a scoprire e non avrebbe visto con altrettanta chiarezza se l’avesse affrontata da solo, senza la mediazione di un libro dove la poesia fa piú reali le cose. Per questo il libro è ancora vivo. Non è un grande libro, ma il suo valore non è trascurabile. Non è certo trascurabile un’opera che riesce a suscitare tanta attenzione, tanti sentimenti. È stata ripresentata piú volte e, sempre di nuovo, apprezzata, sia da chi l’ha esaminata sotto un profilo esclusivamente culturale sia da chi l’ha amata e continua ad amarla cosí com’è, al di là di ogni riflessione. La madre è un libro che non ha bisogno di «traduzioni», di note a piè di pagina; per leggerlo non c’è bisogno di saperne la storia, anche se, come sempre, sapere la storia di un libro, delle sue fortune, del momento in cui è stato scritto, è importante e utile.

    Rileggendo oggi un romanzo cosí semplice e riandando con la mente anche ad altri libri, magari meno semplici ma capaci tuttavia di far conoscere al mondo un paese arretrato, in cui gli uomini che non volevano essere arretrati dimostrarono di saper tradurre nella loro vita e nella loro lingua l’esperienza piú avanzata d’Europa, rileggendo questo libro, dicevo, non posso fare a meno di ricordare che esso fu concepito e scritto nell’epoca gloriosa in cui la cultura russa, la cultura di Tolstoj, arrivava alle grandi masse di tutto il mondo attraverso Gor’kij: è l’epoca in cui la cultura russa è la cultura di Lenin. È una cultura che ha prospettive mondiali, che capisce che cos’è l’India piú e meglio di quanto non riesca a fare Kipling, che pure è un grande autore, ma dell’imperialismo e, in quanto tale, incapace di vedere, come invece riesce a vedere Lenin, la crisi che travaglia il mondo.

    Oggi la Russia è diversa, non è piú un paese arretrato. Ci sono le macchine, ci sono i satelliti artificiali e i razzi che vanno nello spazio e fanno diventare realtà le fantasie di Jules Verne. Non si può tuttavia dimenticare il valore delle idee e della loro rappresentazione in ogni campo della cultura e, quindi, anche nel campo dell’arte. Si è detto che non c’è letteratura né arte fuori della storia. È vero, ma non sempre il progresso materiale è contemporaneo alla grande fioritura artistica; non sempre la speculazione filosofica e il pensiero scientifico si traducono in nuove strutture sociali o in nuovi strumenti della tecnica.

    Un problema dev’essere risolto: bisogna rendere possibile, anzi stimolare, la libera espressione, la ricerca. Mi viene in mente il nome di Pasternak. Il suo secondo me, non è un grande libro, difficilmente Il dottor Živago sarebbe diventato popolare..., ma è pur sempre un libro importante, che si colloca nel filone della grande letteratura russa. Esso avrebbe dovuto avere un posto non già nella cronaca mondiale delle lettere a causa di una grottesca persecuzione, ma in quella grande letteratura, tra gli altri libri che via via ho ricordato.

    Rileggendo Gor’kij e ripensando a quel paese arretrato dove la lotta di classe si svolgeva in forme difficili e, nel tempo stesso, elementari – mentre in Inghilterra o in Germania si svolgeva in maniera organizzata, in forme aperte e con prospettive ravvicinate di egemonia politica per la classe operaia, ma senza una fioritura di opere letterarie di ispirazione esplicita operaia – vien fatto di dire che non è idealismo o volontarismo affermare che le idee sono anche una forza. Ai tempi di Gor’kij, nella Russia che cercava una strada le idee ebbero una grande forza anche fuori della Russia. Mi auguro che nel paese di Gor’kij, di Tolstoj, di Dostoevskij, di Cechov e di Lenin, le idee abbiano piena possibilità di esprimersi. Se avranno un valore universale, il mondo dovrà pure tenerne conto.

    Roma, maggio 1980

    Gian Carlo Pajetta

    Cronologia della vita e delle opere

    1868

    28 marzo: Aleksej Maksimovic Peškov, noto come Maksim Gor’kij, nasce a Nižnij Novgorod, che in suo onore sarà poi ribattezzata Gor’kij. Il padre Maksim Savvatev, figlio di un ufficiale degradato per la crudeltà con cui trattava i soldati, a diciassette anni era scappato per sempre di casa e, giunto a Nažnij Novgorod, aveva iniziato a lavorare come ebanista e tappezziere. Aveva sposato Varvara Vasil’eva, di famiglia piccolo borghese, figlia del tintore Vasilij Kaširin, uomo molto religioso, dispotico fino alla crudeltà e incredibilmente avaro. Il matrimonio tra i due giovani era stato molto osteggiato dai Kaširin: per questo motivo i rapporti tra le due famiglie erano piuttosto tesi e difficili.

    1871

    A Maksim Peškov viene proposto di dirigere ad Astrakan la filiale di un’agenzia di navigazione. Egli accetta e lascia Nižnij Novgotod con la moglie e il figlio.

    Luglio: assistendo il piccolo Aleksej malato di colera, il padre viene a sua volta contagiato e muore all’età di 31 anni. In seguito a ciò Varvara con il figlio torna a vivere nella casa paterna a Nižnij Novgorod. In famiglia però, a causa delle pessime condizioni economiche, si crea un’atmosfera di triste e opprimente squallore. Per il piccolo Aleksej l’unica immagine dolce di quel periodo, come ricorderà poi nella sua autobiografia, è quella della nonna Akulina, donna buona e sensibile, che gli racconta le fiabe e lo educa all’amore per la natura e alla fede nella felicità.

    1876

    La madre si risposa e Aleksej rimane con i nonni.

    1877

    Gennaio: viene iscritto alla scuola elementare destinata ai poveri della città.

    «Ci arrivai – scriveva poi nell’autobiografia – con le scarpe di mia madre, con un paltoncino ricavato da una giacca della nonna, con una camicia gialla e con dei calzoni troppo corti».

    1879

    5 agosto: in seguito a tisi galoppante muore la madre Varvara. Pochi giorni dopo il funerale, il nonno lo costringe a lasciare la scuola, che aveva seguito con ottimi risultati, e lo manda a lavorare fuori casa. Nei quattro anni che seguono fa qualunque lavoro gli capiti: garzone di calzolaio, sguattero, commesso in un negozio di icone, muratore, comparsa in teatro. Su di un battello dove lavora come sguattero fa amicizia con il cuoco, un ex caporale ubriacone, che lo avvia alla lettura. Con grande passione legge tutto ciò che gli capita sotto mano: dai piú scadenti romanzi d’avventura alle opere letterarie importanti, come Le anime morte di Gogol’ e le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij.

    1884

    Spinto dal desiderio di continuare gli studi, si reca a Kazan’. Però, non avendo di che vivere, deve rinunciare all’idea e riprende a lavorare come giardiniere, spazzino e garzone in una panetteria sotterranea: quest’ultima esperienza rivivrà poi nel racconto Dvadcat’šest i odna [Ventisei e una]. Inizia a frequentare i circoli studenteschi clandestini e a leggere le opere di Cernyševskij e di Marx.

    Il pesante lavoro fisico, la miseria e la solitudine provocano in lui una profonda crisi esistenziale.

    1887

    12 dicembre: tenta il suicidio sparandosi alla spalla sinistra. Nonostante la gravità della ferita, riesce a superare la crisi grazie al suo fisico molto forte.

    1888

    Giugno: completamente ristabilito parte per una lunga peregrinazione che lo porterà sul Caspio, nella steppa e a Caricyn (l’attuale Volgograd). In ogni occasione s’impegna in un lavoro di sensibilizzazione politica che gli attira i sospetti della polizia.

    Riceve la notizia di essere stato scomunicato dalla Chiesa per sette anni a causa del suo tentativo di suicidio.

    1889

    Aprile: con mezzi di fortuna raggiunge Mosca dove spera di incontrare Lev Tolstoj, ma invano perché lo scrittore non è né a Mosca né a Jasnaja Poljana. Torna a Nižnij Novgorod dove frequenta un circolo di rivoluzionari e finisce per due settimane in prigione.

    1891

    Aprile: tormentato dall’amore per Ol’ga Kaminskaja, moglie di un prigioniero politico, e dall’incapacità di trovare la propria strada nella vita, parte per nuove peregrinazioni in Ucraina, Bessarabia, Crimea e nel Caucaso.

    1892

    Si ferma a Tiflis dove inizia a lavorare in un deposito ferroviario. Settembre: con lo pseudonimo di Maksim Gor’kij (gor’kij in russo significa amaro) pubblica sul giornale Kavkaz [Il Caucaso] il suo primo racconto Makar Cudra, una romantica storia d’amore.

    Ottobre: torna a Nižnij Novgorod dove lavora come scrivano da un celebre avvocato. Ol’ga Kaminskaja lo raggiunge e i due vivono insieme.

    Continua a scrivere di tanto in tanto per la stampa di provincia.

    1895

    Febbraio: la convivenza con Ol’ga diventa sempre piú difficile, ed egli si trasferisce a Samara dove collabora alla Samarskaja gazeta [Il giornale di Samara] per la quale scrive feuilletons e note sugli avvenimenti cittadini. Giugno: grazie all’aiuto dello scrittore Korolenko riesce a pubblicare il racconto Celkaš sull’importante rivista Russkoe bogatstvo [La ricchezza russa]. Da questo momento i suoi racconti compariranno sulle riviste piú influenti.

    1896

    Maggio: su invito di due giornali si reca a Nižnij Novgorod come osservatore all’Esposizione panrussa dell’industria e dell’arte.

    30 agosto: sposa Ekaterina Pavlovna Volžina, donna assai colta e vivace, che egli ha conosciuto nella redazione della Samarskaja gazeta.

    1897

    Gennaio: si ammala di tisi e per curarsi si reca in Crimea, e poi in Ucraina. 27 luglio: nasce il figlio Maksim.

    1898

    Gennaio: ritorna a Nižnij Novgorod.

    Marzo: a Pietroburgo Dorovatovskij e Carišnikov pubblicano in due volumi venti suoi racconti che riscuotono un enorme successo.

    Maggio: in seguito all’arresto di un rivoluzionario, anche Gor’kij viene fermato, portato a Tiflis e messo in carcere. Non esistendo valide prove contro di lui, viene presto rilasciato e torna a Nižnij Novgorod dove la polizia lo tiene sotto stretta sorveglianza.

    Dicembre: in ventiquattr’ore di lavoro quasi ininterrotto scrive il racconto

    Dvadcat’šest’ i odna.

    1899

    Collabora alla rivista marxista Zizn’ [Vita] su cui compare il suo romanzo

    Foma Gordeev.

    Si aggrava la tisi, ed egli si reca nuovamente in Crimea dove conosce Kuprin, Bunin e Cechov.

    Autunno: visita per la prima volta Pietroburgo, dove viene a contatto con

    l’intelligencija progressista e socialdemocratica.

    1900

    13 gennaio: a Mosca conosce Lev Tolstoj che annota sul suo diario: «Abbiamo parlato molto bene. Mi è piaciuto. È un autentico uomo del popolo». Aprile-giugno: presso la casa editrice dell’associazione Znanie [Il sapere] viene pubblicata una nuova raccolta di opere in quattro volumi; altri cinque volumi usciranno tra il 1901 e il 1909.

    Settembre: entra a far parte del gruppo dello Znanie e inizia un’intensa attività per promuovere una sempre maggior diffusione della letteratura nazionale, e in particolare degli scritti di giovani autori come Kuprin, Bunin e Andreev.

    1901

    Termina la commedia Mešcane [Piccoli borghesi] e su Žizn’ pubblica il romanzo Troe [I tre] e il poema Pesnja o burevestnike [La canzone della procellaria], allegorico richiamo ad un’imminente tempesta rivoluzionaria. Aprile: viene di nuovo incarcerato, ma poi, in seguito alle massicce proteste di tutti i progressisti, gli è concesso l’arresto domiciliare.

    26 maggio: nasce la figlia Ekaterina.

    1902

    Febbraio: le autorità annullano la sua elezione a membro onorario dell’Accademia delle scienze e per protesta anche Korolenko e Cechov rinunciano al titolo.

    Agosto: la polizia apparentemente interrompe la vigilanza: in realtà continuerà a sorvegliarlo fino al 1917.

    18 dicembre: a Mosca, al Teatro dell’arte, viene rappresentata con enorme successo la sua nuova opera teatrale Na dne [Bassifondi].

    1904

    Gor’kij e la moglie si separano di comune accordo, e lo scrittore si unisce a Marija Fedorovna Andreeva, splendida e intelligente attrice del Teatro dell’arte, attivamente impegnata nel movimento rivoluzionario.

    Estate: partecipa commosso ai funerali di Cechov.

    10 novembre: presenzia alla prima teatrale del suo nuovo lavoro Dacniki

    [I villeggianti] e viene acclamato dal pubblico entusiasta.

    Dedicata alla memoria di Cechov esce un’antologia di scritti di autori vari pubblicata dallo Znanie.

    1905

    12 gennaio: viene arrestato e rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo per aver scritto un violento proclama contro la strage della Domenica di Sangue. In carcere scrive il lavoro teatrale Deti solnca [I figli del sole].

    14 febbraio: in seguito alle proteste che si levano da ogni parte d’Europa contro il suo arresto, viene rimesso in libertà in attesa del processo che non avrà mai luogo.

    27 novembre: s’incontra per la prima volta con Lenin, appena tornato dall’estero. Insieme lavorano nella redazione del giornale bolscevico Novaja žizn’ [La nuova vita].

    1906

    Febbraio: minacciato ancora di arresto, parte con Marija Andreeva per l’America, anche allo scopo di raccogliere fondi per il partito bolscevico. 10 aprile: arriva a New York, dove riceve accoglienze trionfali. Quando però si diffonde la notizia che non è legalmente sposato con l’Andreeva, viene duramente attaccato dalla stampa e dall’opinione pubblica.

    Scrive una serie di racconti che compariranno con il titolo di Gorod želtogo d’javola [La città del diavolo giallo], nei quali espone le sue impressioni negative sulla società americana. Inizia a lavorare al romanzo Mat’ [La madre], che prende spunto dallo sciopero e dalle manifestazioni politiche che nel 1902 avevano sconvolto la città industriale di Sormovo.

    Ottobre: di ritorno dall’America, dopo aver soggiornato a Napoli, si stabilisce a Capri.

    1907

    Primavera: viene invitato al V Congresso del Partito socialdemocratico russo a Londra. In questa occasione si consolida la sua amicizia con Lenin. Presso la casa editrice Znanie inizia la pubblicazione del romanzo Mat’ che verrà presto tradotto in 24 lingue.

    Ritornato a Capri, riceve la visita di numerosi letterati e uomini politici russi, tra cui Lenin. Continua la sua attività letteraria e scrive i romanzi Gorodok Okurov [La città di Okurov] e il suo seguito Žizn’ Matveja Kožemjakina [La vita di Matvej Kožemjakin], Ispoved’ [Una confessione], e le raccolte Russkie skazki [Fiabe russe] e Skazki ob Italii [Fiabe sull’Italia].

    1913

    Dicembre: grazie all’amnistia concessa per celebrare i trecento anni della dinastia Romanov, può rientrare in Russia e si stabilisce a Pietroburgo. Compare Detstvo [Infanzia], la prima parte della sua trilogia autobiografica.

    1914

    Allo scoppio della prima guerra mondiale, dopo alcune incertezze iniziali, assume una posizione internazionalista e pacifista.

    Presso la casa editrice Žizn i znanie [Vita e sapere] riprende la pubblicazione della raccolta delle sue opere: usciranno undici volumi fino al 1917.

    1915

    Esce V ljudjach [Tra la gente], seconda parte della sua autobiografia. Dicembre: fonda la rivista mensile Letopi’x [Cronaca].

    1917

    Dopo la rivoluzione di Febbraio, sulle pagine di Novaja žizn’ Gor’kij manifesta piú volte il suo scetticismo sul fatto che il paese sia pronto per una rivoluzione socialista.

    Nei primi mesi che seguono la rivoluzione di Ottobre, sempre per Novaja zizn’, scrive una serie di articoli, Nesvoevremennye mysli [Pensieri intempestivi], nei quali mostra un atteggiamento critico nei confronti del governo e del partito, all’interno del quale egli ravvisa delle tendenze accentratrici, pericolose per la democrazia. Piú tardi però si riaccosterà al partito, ritrattando anche pubblicamente le sue critiche.

    1918

    Luglio: in seguito ad alcuni interventi antisovietici viene chiusa Novajažizn’. Lo stesso Gor’kij scrive a questo proposito: «Mi ha stancato la fiacca, accademica opposizione di Novaja žizn’».

    Svolge un’intensa attività in difesa della cultura: si occupa della Casa delle arti e della Casa degli studiosi, dirige l’impresa editoriale Vsemirnaja literatura [Letteratura universale], incoraggia e aiuta numerosi giovani scrittori, tra cui il gruppo dei Fratelli di Serapione.

    Pubblica i suoi Vospominanija o Tolstom [Ricordi di Tolstoj].

    1921

    Dicembre: in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute si reca in un sanatorio in Germania, per poi stabilirsi a Berlino. Qui fonda la rivista Beseda [Conversazione].

    In Urss esce l’ultima parte della sua autobiografia, Moi universitety [Le mie università].

    1924

    Aprile: si stabilisce in una villa vicino a Sorrento.

    Maggio: in Urss, sulla rivista Russkij sovremennik [Il contemporaneo russo] vengono pubblicati i suoi ricordi di Lenin.

    1925

    Termina di scrivere il romanzo Delo Artomonovych [L’affare Artamonov]. Aprile: la polizia italiana perquisisce la sua villa.

    1928

    La posta italiana smette di recapitargli lettere, giornali e libri provenienti dall’Unione Sovietica.

    Maggio: rientra a Mosca dove è accolto in trionfo, e intraprende un viaggio di due mesi per il paese.

    Ottobre: a causa delle gravi condizioni di salute riparte per Sorrento. Nei quattro anni che seguono trascorrerà i mesi invernali in Italia e quelli estivi in URSS.

    Porta a termine il lavoro teatrale Egor Bulycov i drugie [Egor Bulycov e gli altri].

    1932

    Fine aprile: nell’appartamento di Gor’kij, appena rientrato a Mosca, ha luogo una riunione di scrittori, tra i quali A. Tolstoj, Tichonov e Fadeev, per discutere della risoluzione del 23 aprile, con la quale il Comitato centrale del partito ha deciso lo scioglimento di tutte le organizzazioni letterarie e la costituzione di un’unica Unione degli scrittori sovietici.

    Novembre: da Sorrento invia al teatro Vachtangov un nuovo lavoro teatrale,

    Dostigaev i drugie [Dostigaev e gli altri].

    1933

    Maggio: lascia per sempre l’Italia e ritorna a Mosca.

    1934

    11 maggio: muore di malattia suo figlio Maksim.

    17 agosto: sotto la presidenza di Gor’kij si apre il primo congresso panrusso degli scrittori sovietici, nella cui risoluzione finale egli viene designato presidente del direttivo dell’Unione degli scrittori sovietici.

    Lavora intensamente al lungo romanzo

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