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Citofonare Morabito: Voci di Corviale
Citofonare Morabito: Voci di Corviale
Citofonare Morabito: Voci di Corviale
E-book216 pagine3 ore

Citofonare Morabito: Voci di Corviale

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Info su questo ebook

"Citofonare Morabito" è una storia. Anzi, trentadue. Trentadue storie si presentano a un microfono sullo sfondo del Serpentone di Corviale, quartiere periferico di Roma definito «Il più lampante errore di programmazione architettonica della storia urbanistica italiana» (cit.). Gianluca, regista, raccoglie trentadue voci dagli abissi della periferia romana, fra umanità, ironia, voglia di riscatto. "Citofonare Morabito" è un romanzo in forma di docufiction.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita6 mag 2022
ISBN9791221329568
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    Anteprima del libro

    Citofonare Morabito - Cecilia Lavatore

    Introduzione

    I romani conoscono bene Corviale.

    Perso tra dolci colline erbose nel quadrante sudovest della capitale si trova il «Serpentone». Così lo chiamano a Roma. Quartiere periferico della capitale, caso emblematico di una programmazione urbanistica sbagliata, inconclusa, mal congegnata. Si trova là come una ferita di quasi un chilometro nel tessuto urbano.

    Un progetto pensato come contributo allo sviluppo delle periferie sul modello utopistico della città lineare, costruito e abbandonato a sé stesso, come un relitto sulla spiaggia, a lungo privo di quella rete di connessioni indispensabili per mantenerlo come un corpo vivo nel tessuto urbano della capitale.

    Non è un caso che il 26 febbraio del 2022, poche settimane fa, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all’indomani della sua rielezione, abbia scelto di visitare proprio Corviale, partecipando all’inaugurazione di campo di calcio a 11. Sul sito del Quirinale è disponibile un video in cui si notano gli abitanti salutare l’arrivo presidenziale sporgendosi dalle finestre.

    I romani conoscono bene Corviale.

    E lo conosce bene Cecilia Lavatore, che nel tempo lo ha ripetutamente visitato, frequentato, ascoltato, prima di raccontarlo così vivacemente in questo testo.

    Dare voce a questo quartiere, renderlo vicino attraverso la narrazione dei suoi abitanti è lo scopo esplicito di questo volume. Esso nasce innanzitutto da una attenta e rispettosa operazione di osservazione, di ascolto, di dialogo con gli abitanti del «Serpentone». Sono le loro voci che ispirano i trentadue episodi attraverso i quali i personaggi ci parlano di sé e delle proprie vite, nutrite di speranze e quotidianità, di fallimenti, aspirazioni, progetti e condivisione di quello spazio urbano così tipico che li unisce tutti, dalla bad girl alla centralinista, dal sognatore disilluso al giovane figlio di immigrati.

    Citofonare Morabito è dunque una storia corale, tessuta attraverso trentadue voci, trentadue personaggi di generazioni differenti che si presentano a un microfono immaginario e si raccontano a modo loro, con il proprio lessico, con il proprio slang, le loro espressioni incerte, spesso dialettali, parlandoci con un linguaggio vivace e contaminato, mescolato come le loro esistenze.

    Secondo Cecilia Lavatore, anche dall’errore urbanistico di Corviale si può apprendere qualcosa, per questo vale la pena raccontare a un microfono la propria storia. Lo sanno anche i personaggi di via di Poggio Verde, che rilasciano le proprie interviste al regista immaginario Gianluca Di Leo. Dalle loro voci emerge una parte di umanità che senza pretese fuoriesce dagli abissi delle periferie romane e con la propria testimonianza riscatta il degrado che la circonda. E un’umanità variegata e forse vinta che testimonia la propria esistenza e la propria resistenza a volte con rabbia a volte con umorismo, altre volte con testimonianze di amore ingenuo o disilluso. È un’umanità che affronta il proprio fallimento con coraggio e con ironia, con consapevolezza e che è ben conscia di essere «fuori dal coro» perché come ci racconta Cecilia Lavatore attraverso i suoi personaggi, il «coro è altrove».

    Forse sperando di trasformare il proprio destino, o quantomeno di redimerlo attraverso la propria testimonianza si presentano i vari Alessia, Mirco, Settimio, Marianna, personaggi diversi per età, occupazione, interessi e provenienze, le cui storie a volte si intrecciano ma le cui esistenze sono tutte collegate dalla condivisione di questo spazio così particolare e condizionante: sono tutti abitanti di appartamenti vicini, si incontrano, si scontrano, si mescolano, si ignorano nel degrado del Serpentone, ciascuno seguendo i propri percorsi e le proprie abitudini. Ma è questa prossimità, questa condivisione che finisce per avvicinare le loro vo­ci, loro destini, le loro sensibilità.

    Cecilia Lavatore costruisce un’opera di narrativa dell'inclusione interiore, elaborata attraverso la pratica dell'ascolto, articolata come fosse un backstage situato in via di Poggio verde. Questa è la ragione per cui Gianluca Di Leo, il regista a cui tutti i personaggi raccontano le proprie esistenze, pongono interrogativi e dialogano, rimane muto fino alla fine. Essi in realtà interloquiscono con il lettore, comunicando la propria vita e la propria esperienza a quella di chi li «legge» attraverso un microfono immaginario che si trasforma in pagina scritta.

    Nel desiderio dei protagonisti di raccontarsi si racconta anche della pratica oggi così pervasiva, dell’interessamento per le «vite degli altri», per i dettagli minuti dell’esistenza altrui, che alimenta i social media e le trasmissioni televisive, e che finisce anche nell’esplicitare un vuoto orizzonte di senso, una serie di comuni e banali quotidianità.

    Sullo sfondo del «Serpentone» di Corviale e del suo degrado, si affaccia anche la pandemia, il Covid-19, che compare nel backstage delle riprese immaginarie svoltesi nella primavera del 2021. Si tratta di un altro espediente letterario che ci restituisce una condizione comune e condivisa, a cui sono sottoposti gli abitanti del quartiere, come tutti gli italiani, ma che li porta a reagire ciascuno a proprio modo. In questo caso, da un lato li inserisce in una frequenza che risuona in tutta la città come il suono delle ambulanze, dall’altro si aggiunge a tutte le altre difficoltà esistenziali.

    Come molte delle vite dei protagonisti delle trentadue storie raccolte, anche il progetto del docufilm di Gianluca Di Leo resterà incompiuto. Le sue riprese rimarranno incomplete, com’è incompleto il progetto utopistico della città autonoma e avveniristica che ispirava la costruzione di questa ambiziosa città lineare, confinando con una lunga colata di cemento le proprie aspirazioni ideali con quelle delle migliaia di persone che si sono trovate, per diverse ragioni, a vivere in quegli spazi che, passando dalla progettualità alla realtà, si sono trasformati in un fallimento.

    Un fallimento che accompagna i protagonisti di queste storie, come gli abitanti di Corviale, lungo un percorso definito di muretti, scale, stanze, anfiteatri abbandonati, ascensori non funzionanti, strade male illuminate. Esistenze raccolte attorno a degli spazi sbagliati che rivendicano però la loro appartenenza a una umanità vera, spontanea, sincera, presente che non vuole esser dimenticata. Vale la pena, allora, ascoltarla e dare spazio alle emozioni.

    Roma, 21 marzo 2022

    Manfredi Merluzzi

    Professore ordinario di Metodologia e fonti della ricerca storica

    Università degli Studi Roma Tre

    A Martina, mia sorella,

    dance, dance, dance

    Cercare e saper riconoscere chi e che cosa,

    in mezzo all’inferno, inferno non è, e

    farlo durare, e dargli spazio.

    Le città invisibili, Italo Calvino, 1972

    Episodio 1 - Amore Call Center

    Serena, la nuova inquilina

    ‒ Sono l’operatrice numero due otto tre zero, rispondo dall’Italia, come posso esserle utile? Pronto? Mi sente?

    Niente, ha attaccato. Lo fanno ogni tanto. Chiamano e poi cambiano idea.

    Beh, ne approfitto per prendermi una pausa. Tanto le mie chiamate non sono poi così interessanti da ascoltare. Meglio se ci facciamo due chiacchiere!

    Comunque, menomale che siete venuti a trovarmi. Oggi ho proprio bisogno di parlare con qualcuno. Intendo dal vivo.

    Sì, sì, lo so che è accesa la telecamera... Allora, cominciamo! Molto piacere. Mi chiamo Serena, come un augurio. Tipo: Auguri per una serena vita, Buon Natale e sereno anno nuovo!, oppure: Trascorri vacanze serene… è una sorta di promemoria, capito? Stai serena, insomma.

    Però, a dire il vero, io serena, mai stata.

    Sono state tante altre cose. Certamente curiosa. Ecco mi sarei dovuta chiamare così. Però non è un nome. Giusto?

    Ho iniziato a viaggiare perché, appunto, ero curiosa. Eh sì, ne ho visti di posti in trentadue anni! E alla fine è diventato proprio il mio lavoro.

    Più o meno è andata così: nel 2014 mi laureo e, dopo qualche settimana, mi chiama un amico. Mi dice: "cercano persone in un tour operator, vai, tu sai le lingue, sei spigliata, disinvolta, perfetta per il ruolo, proponiti!". Allora, vado a questa selezione, e mi gioco poco a poco tutte le carte, arrivo alla interview finale, intavolo sorrisi e battute azzeccate, giochi di parole e barzellette (sapete… quelle cose wow che piacciono alle aziende americane), e faccio scacco matto: divento tour director!

    Cos’è un tour director? È una persona che scorrazza i turisti in giro. E non solo in Italia.

    Io li accompagno in giro per tutta l’Europa. I miei clienti sono statunitensi e canadesi, loro ammirano il nostro modo di essere Vecchio continente. Abbiamo quell’odore di radici e di cultura favoleggiati nei loro cliché. E io un po’ glieli confermo e un po’ glieli smonto. Beh, per una questione di onestà intellettuale: con gli stereotipi proprio non ci vado d’accordo. Gli racconto le cose come stanno. Chiaroscuri, luci e ombre. E poi gli racconto la Storia, che è la cosa che amo di più, insieme ai viaggi.

    Ricordo una volta, nella metro di Madrid, all’altezza della fermata di Calle Serrano, mi soffermai a osservare tra i partecipanti del mio tour, Cory, questo ragazzino dallo stato del Montana che se ne stava lì, appeso al corrimano grigio metallico, assorto. Aveva le dita grassocce, i piedi a papera e la schiena un po’ incurvata. Era la prima volta che viaggiava e chissà quando gli sarebbe ricapitato, non aveva l’aria di un rampollo. Perché noi lavoriamo anche con un target medio basso, low budget, mezzi poracci per capirci. Insomma, il ragazzo trasandato, con il capello biondino, riccetto e un po’ unto, fissava il finestrino scuro del vagone e sorrideva, come uno che non era abituato a farlo.

    Aveva gli occhi persi che in quel buio della galleria chissà cosa vedevano. Beh, mi fece una tenerezza… era specialmente per quelli come lui che valeva la pena di fare quel mestiere.

    E di pena ce n’è, credetemi. Non è mica sempre un carnevale di Rio! Uno pensa che stiamo lì in vacanza, e, invece, no. Ci sono i ritmi serrati, le notti insonni, le corse agli aeroporti, le tensioni, le polemiche, e sempre quell’entusiasmo da dover mantenere, quello show must go on a tutti i costi. Ci vuole un po’ di sana follia e molto sangue freddo.

    In ogni caso, adesso è arrivato il Covid e non si muove una foglia. Tutti fermi. Ma ripartiremo eh. Così dicono.

    E, quindi, eccomi qua: ho ripiegato sul call center.

    Fino a qualche mese fa avevo una vita piena di avventure e ora me ne sto rinchiusa in casa tutto il giorno a parlare di bollette con gente che non ha volto. Solo voci, sillabe, silenzi. Suoni intermittenti. Mi immagino le loro vite dentro a un colpo di tosse, in una frase detta in fretta, in un’esitazione, in un timbro particolare, in un respiro impaziente, nei rumori di sottofondo. In tutto ciò che c’è, insomma, dietro ai loro microfoni accesi altrove.

    Cerco altre realtà possibili nelle brevi conversazioni del servizio d’assistenza telefonica che mi ha assunto per 800 euro al mese e resto così: appesa a un filo. Ci avvolgo intorno le mie inquietudini, i venti contrari che non posso più incanalare nelle mie rotte turistiche, tra le vele dei progetti futuri.

    Perché io ho sempre viaggiato anche per quello, per dare un verso e una direzione alle mie correnti forti.

    Quelle che ora sono ferme immobili, come me, h24 in questo appartamento che è tutto qui, non c’è altro da vedere e non ci sono che io. Me l’ha prestato un amico. È la sezione di una sezione di una casa occupata, quella che doveva essere la sala condominiale, per l’esattezza. Sono 37 metri quadri se conti anche il disimpegno tra il bagno e la camera da letto/salotto/ingresso/cucina/piccola finestra sul garage. È tutto insieme in un unico ambiente. Ma ci sto bene, dai! Non mi lamento, almeno non è un seminterrato. Lo sanno tutti che a Roma nei seminterrati non si può vivere, troppa umidità. Oddio, non che qui dentro al Serpentone sia arido, il clima!

    Sono finita nella profonda periferia della Capitale. Piena di cose che non capisco, di piccole dimenticanze, di imprese lasciate a metà, di omissioni, di rinunce, di colpe, di rabbia e di storie sbagliate.

    Aggiustano qualcosa e il giorno dopo è già a pezzi un’altra volta. Ogni soluzione è buona per trovare un problema e tutto quello che è di tutti è anche di nessuno.

    Faccio da perno alla scala D, lotto 5, secondo piano. Sono l’elemento di diversità, di discontinuità, la carta che spariglia il mazzo. Sono fuori anche se dentro il contesto di questo luogo, le persone qua mi vedono diversa. E si sente.

    Ma questo, ora, posso permettermi.

    A dire il vero, un po’ di soldi da parte ne avrei. Però li tengo per la mia famiglia. Siamo quattro figlie e deve bastare per tutti. Soprattutto da quando non c’è più mio padre. Papà se n’è andato da un giorno all’altro per un incidente al cantiere dove lavorava. E, dato che secondo loro non si era protetto abbastanza, sono riusciti anche a ridurre al minimo quello che avrebbero dovuto darci. In ogni caso, anche avessi più soldi, io ho sempre lavorato e non saprei starmene con le mani in mano, come diceva Cocciante a Margherita. Mi hanno dato il telelavoro, così si chiama. Sette ore al giorno, inchiodata al PC: se vado al bagno devo segnalarlo, se devo bere devo segnalarlo, se mi devo riprendere dalle urla di qualcuno che si è ritrovato un addebito imprevisto sul conto devo segnalarlo.

    Passo il giorno a rispondere alle chiamate per questa azienda X, che non nomino perché sennò mi querelano. Pensate che mi hanno fatto perfino un contratto a tempo indeterminato e vi ho detto tutto (ma solo perché, come è noto, pochi reggono per più di qualche anno).

    Comunque non è colpa di questa azienda. Anzi, mi danno uno stipendio, gli sono grata. Così mi dicono tutti: devi essere grata, hai un lavoro, e di questi tempi…

    Certo che mi piaceva di più quello che avevo prima di lavoro.

    Del resto, c’è da dire che io sono giovane, ho tutta la vita davanti. Come il titolo di quel film di Virzí sui call center che guardai anni fa pensando: non finirò mai così. E invece…

    La sera vado a dormire e le chiamate mi continuano a rimbombare dentro la cassa toracica: avranno riaccreditato quei soldi al cliente? avrò bloccato correttamente quel numero? come mai la promozione è stata attivata senza che qualcuno la richiedesse? ma perché il tipo ha bestemmiato proprio a me? In fondo, io cosa faccio di male? Faccio solo il mio lavoro.

    Però di tanto in tanto mi capita anche di intrattenere conversazioni piacevoli, eh! Posso dire aver fatto quasi amicizia con alcuni clienti. Nei limiti del possibile, chiaramente. Ricordo Barbara, un’insegnante di teatro di Novara, siamo ancora in contatto. Luca, un infermiere di Foligno, quante me ne ha raccontate in quella chiamata. Un giorno ho risposto perfino a un mio ex fidanzato. Pazzesco!

    Un’altra volta, invece, dall’altra parte della cornetta c’era il figlio di un mio prof dell’Università. Visto che ha un cognome più unico che raro, l’ho riconosciuto subito. Tutta contenta gli ho detto: ma lei è proprio quel Rossi (cognome di invenzione), figlio del docente di Storia medievale?. E lui mi ha risposto serio e distinto: Sì, sono proprio io. E dopo un silenzio imbarazzante, ha aggiunto ah, così finiscono gli studenti di mio padre.

    Ma io gli ho detto che non sono finita. Io sto solo ricominciando… E poi ultimamente, pensate, mi piace perfino qualcuno. No, ma che… mica l’ho conosciuto su Tinder!

    È il corriere. Il corriere che mi porta i pacchi di quell’altra azienda X, e non nomino neanche questa, sempre perché sennò mi querelano. È un gran bel ragazzo, sembra uno forte, ha i capelli castano chiaro e gli occhi azzurrissimi che spuntano dalla mascherina e mi sprofondano giù, in un altro posto più bello. Dove i call center non esistono. E neanche il Covid. E si viaggia sempre.

    E poi è pure alto! E come diceva mia nonna: a ni’, se so’ alti stamo a cavallo.

    Credo che se ne sia accorto il tipo che ho un debole: ordino un libro

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