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La Piccola: Una meravigliosa storia di accoglienza e inclusione
La Piccola: Una meravigliosa storia di accoglienza e inclusione
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E-book335 pagine4 ore

La Piccola: Una meravigliosa storia di accoglienza e inclusione

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Info su questo ebook

La Piccola sorge ai bordi della strada provinciale da molto tempo, da prima che diventasse una locanda…

Non è mai stata una vera e propria cascina: poca terra, una dozzina di vacche nella stalla, il pollaio in fondo all’aia, la minuscola vigna su un fianco e uno stradello d’accesso che la collega alla vecchia Pieve.

La quotidianità de La Piccola e del paese della bassa padana in cui è inserita viene, a un certo punto, scossa da una notizia: arrivano i migranti. Proprio loro. Quelli di cui si parla alla televisione e che fanno scendere i politici in piazza a gridare alle folle.

La vita di ognuno si intreccerà con questa inaspettata presenza: nuovi sentimenti e riflessioni attraverseranno le menti e i cuori; paura, sospetto, rabbia si contrapporranno a coraggio, accoglienza, tenerezza.

Le difficili storie di sofferenza e di emarginazione, la strenua necessità di riscatto, e la ricerca di una vita migliore, accomunano i protagonisti della storia, italiani o migranti che siano.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2020
ISBN9788868674977
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    Anteprima del libro

    La Piccola - Paola Azzoni

    140

    Prologo

    Si può cominciare dalla fine?

    Si può davvero ricominciare?

    Un nuovo inizio.

    Tutto daccapo.

    Voci attorno a me. Ho gli occhi chiusi e non voglio aprirli. È troppo faticoso. E doloroso.

    Sussurrano, mormorano, non capisco cosa dicono.

    Sento, ma non voglio ascoltare.

    Il mormorio a tratti mi culla. O mi infastidisce.

    Dovrei ascoltare e capire. Ma non voglio.

    Né vedere, né sentire.

    Lascio le voci scorrere e accavallarsi. Si mescolano sul dolore che mi pulsa in testa.

    La testa.

    Dov’è la mia testa? Vorrei toccarla.

    Le mani sono pesanti e stanche, le braccia incollate lungo i miei fianchi. Vorrei portarle su, alla fronte. Vorrei, ma non so farlo.

    Le voci tacciono. Tranne una. «Non possiamo sapere.»

    «Oddio.» Un sussurro accanto a me. Il sussurro diventa tocco, mi sta toccando una mano.

    Se volesse potrebbe portamela alla fronte, massaggiarmi la testa qui dove ho tanto male. Se solo lo volesse, se solo lo sapesse!

    Vi sento. Se parlate forte vi sento. Non mormorate, però. Così è faticoso.

    Poi silenzio per un bel po’ di tempo. O per poco?

    È notte? È giorno? Dovrei aprire gli occhi per saperlo, ma fa male.

    Sento: «Buongiorno!» è la voce di una donna.

    Mi tocca, mi carezza. Mi passa addosso qualcosa di morbido e fresco e profumato.

    «Così. Con la spugna.» Mi tira su un braccio, poi l’altro. Arriva alle mani: il dorso, il palmo, ogni singolo dito.

    Passa ai piedi, e li bagna e li asciuga. In una lunga carezza sale dai piedi ai polpacci, alle cosce.

    «È come quando era piccola, signora. Non dimentichi di asciugare bene.»

    «È piena di botte.»

    «Sì.»

    La fronte, per favore, la fronte.

    Finalmente una mano benefica. Passa sulla fronte una, due, tante volte. Il sollievo di pochi attimi. Il sollievo!

    Ora il viso, gli occhi. Dovrei aprirli?

    «Questa sul collo, vede? Questa non è una botta.»

    Il silenzio urla di fronte al non so cosa sul collo.

    Ci sono altre voci. «Come diavolo avrà fatto?»

    «Era in mezzo alla strada.»

    «In bici di sera. Senza luci.»

    «Cosa ci faceva in giro?»

    Giusto.

    Luci, bici. Corro via. Scappo.

    C’è qualcosa che mi fa paura. Pedalo velocemente, ma non ci vedo, i miei occhi piangono e così io non vedo.

    Scappo verso casa mia.

    No, non è più la mia. È casa mia di prima.

    Da casa mia di adesso, scappo.

    Piango e scappo. Pedalo e piango. E scappo.

    Devo aprire gli occhi e parlare con queste voci. Loro non sanno niente. Devo aprire la bocca e parlare, ma non so ancora farlo.

    Vanno via.

    Righe di lacrime scendono dai miei occhi. Rivolano adagio verso le orecchie. Prudono e danno fastidio. Io però non posso asciugarle.

    Non c’è nessuno che possa asciugarmi le lacrime?

    Il ronzio è continuo. Non smette mai e non capisco se è dentro le mie orecchie, o se viene da fuori. È solo un filo di rumore, ma non smette mai.

    D’improvviso uno scatto lo sovrasta. Benedetto scatto che taglia quell’esasperante fila di Z. Sottili, perfide e penetranti Z.

    «Lella, allora?» mi infila qualcosa nell’orecchio. Qualcosa che suona. La voce è nasale, con una punta acuta e un’inflessione cantilenante. «Bene cara, niente febbre.»

    «Proviamo a svegliarci?»

    Dunque è mattina.

    Svegliarci, chi?

    Se aprissi gli occhi. Se potessi girare un po’ la testa, con gli occhi aperti, capirei.

    Poi il silenzio, anzi, no. Il ronzio, l’ostinato perforante ronzio.

    Voci. Una mi piace. È quella che mi sfiora lieve e mi lava. Il mio corpo la conosce. La mia testa si rinfranca al tocco di un bacio leggero sulla fronte. Ora respira vicino al mio orecchio, ma in modo strano, intermittente.

    «Cosa ti ha fatto? Cosa è successo?» devo capire chi è questa voce, devo guardarla e parlarle.

    Il respiro strano è pianto.

    Si tira su. Un’altra voce è entrata. Parla di radiografie, di contusioni, di escoriazioni. Parla di denuncia. La caduta c’entra, però non sempre c’entra.

    Io posso dirvelo, posso spiegarvi tutto. Mi confondo con le voci, perché non riesco a vederle, ma di quello che è stato so tutto. Di prima. Prima di cadere e tuffarmi nel buio di questi occhi che non riesco ad aprire. Di prima, so tutto.

    Devo provare a parlare. So come si fa. È tutto lì, sulle labbra da schiudere un po’, da tirare e schiudere.

    È arrivata un’altra voce. Dice solo: «Come sta?».

    Un colpo sordo mi rificca giù in fondo, nel buio della paura.

    Qualcosa accanto a me suona in modo intermittente, tutto si agita intorno.

    Dentro si agita tutto. Colpi che partono dal basso ventre salgono allo stomaco, soffocano la gola, martellano il cuore.

    Sudo, il collo pulsa, non riesco a respirare.

    «Ha una crisi. Uscite.»

    Il trambusto attorno a me è frenetico, le voci si accavallano.

    Zitte! Tacete, devo sapere se lei è ancora qui. La voce cattiva c’è ancora?

    Io fuggivo, lei mi ha raggiunto, è ancora qui.

    Sprofondo nel buio nero.

    Voce nasale è tornata. «Ma cosa mi combini, Lella?»

    Mi carezza una guancia, ferma lì la sua mano e mi ripete sommessa, adagio: «Cosa mi combini, eh?».

    A lei potrei rispondere, forse solo a lei e al ronzio. Perché ora so che il ronzio arriva con lei.

    Quando sono di nuovo sola decido di provarci: socchiudo gli occhi appena e scopro che è notte.

    La notte qui è azzurra.

    Ora so che il ronzio arriva con lei e con l’azzurro della notte.

    La notte è azzurra, la paura è nera. Nero pece.

    La notte è azzurra e ronzante; è questa voce nasale che mi sfiora con parole gentili.

    La paura è nera, è la voce cattiva. È pericolo.

    Il pericolo è giallo. Abbagliante, violento. Il giallo improvviso dei fari dietro la mia bicicletta.

    Infine, lo schianto.

    Devo andarmene da qui. La voce cattiva può tornare. Può farmi ancora male.

    Farmi morire.

    C’è un’altra voce che mi parla. La mia. Sussurra al mio orecchio, da dentro la testa. Non capisco bene, ma la sento. Mi suggerisce di muovere una mano.

    «Prova con le dita. La punta delle dita.»

    E aggiunge sempre: «Devi andartene da qui».

    «Muovi un piede.»

    «Devi andartene da qui.»

    «L’altro piede, adesso.»

    «Devi andartene da qui.»

    So che ha ragione, la paura mi immobilizza a letto.

    La paura mi spinge a provare.

    Scelgo lei, voce nasale.

    Arriva nella notte azzurra e dolcemente mi saluta. Mi rimbocca le coperte e mi parla. «Come è andata oggi?»

    Si avvicina: «Proprio non me lo fai un sorriso?».

    Buona idea, questo non è difficile. Allungo la bocca, la tiro, e piano la schiudo.

    «Oh» dice solo.

    Adesso mi prende la mano.

    «Stringi tesoro, prova a stringere.»

    So farlo. Piego adagio la punta del mignolo e sento la pelle calda della sua mano.

    «Allora ci sei, angioletto! Stai tornando!»

    «Gli occhi ora, coraggio. Apri gli occhi.»

    Se me lo chiedi tu, voce nasale. Com’è la tua faccia? Come sono i tuoi, di occhi? Ti voglio vedere.

    Schiudo le palpebre, sento che tremano, quindi sbattono un po’.

    Li richiudo, ci provo ancora e ancora e ancora. E ti vedo. Hai due occhi stupendi che brillano. Sei circondata di luce azzurra e non capisco che colori hai, ma i tuoi occhi brillano, come anche il tuo sorriso.

    «Ciao» mi dici in un soffio.

    Dopo, tutti sono felici. La luce chiara del giorno porta con sé la mamma, il papà, le mie sorelle.

    Tutti dicono parole come tesoro, amore.

    Mi danno dei baci. «Come stai?»

    «Parla tesoro, come ti senti?»

    C’è un dottore. «Ci vorrà un po’. Molto riposo, deve stare tranquilla.»

    Volto adagio la testa. La giro di qua e di là. Scruto la stanza. Cerco tra le voci che sono diventate visi. Devo sapere se c’è anche la voce cattiva. La voce di Massimo.

    Il mio quasi assassino.

    Mio marito.

    «Fuori tutti, adesso.»

    Resta la mamma. Volto adagio la testa verso di lei. Provo a parlare.

    «Devo scappare.» Non ho voce. È solo aria quella che esce dalla mia bocca.

    «Eh?» chiede la mamma, e si avvicina.

    «Devo scappare» soffio fuori, ma lei non capisce. Come spiegarle tutto? Troppe parole, troppa fatica.

    Tuttavia, dentro di me so trovare tutte le parole, e metterle in fila per spiegare, raccontare. Decidere.

    Si può cominciare dalla fine?

    Si può ricominciare?

    Tutto daccapo, un nuovo inizio. Una nuova vita.

    Un nuovo posto, un nuovo nome.

    Tutto daccapo.

    La voce

    All’inizio era solo una voce.

    S’intrufolava tra gli uomini seduti sotto i portici ai tavolini dei bar, attraversava la strada e si fermava all’edicola. Da lì rimbalzava in piazza e s’infilava nelle botteghe insieme alle borse delle donne che uscivano ogni mattina per fare la spesa e per mettersi al corrente della cronaca minuta delle loro strade.

    Si gonfiava di giorno in giorno, s’arricchiva di particolari spesso improbabili, si dilatava di enfasi. Nessuno sapeva da dove fosse partita, ma in breve tempo si era insinuata ovunque.

    Si snodava tra i crocchi di mamme in attesa dei loro bambini all’uscita di scuola, si accomodava sulle panchine dei giardini pubblici tra nonni intenti ai giochi dei nipotini, babysitters agganciate ai passeggini, anziane signore incerte al braccetto di giovani e bionde badanti dell’est.

    La potevi trovare al circolo dei pensionati, alla bocciofila, negli uffici del municipio, in chiesa tra le donne durante i pomeriggi di pulizie o alla fine del rosario quotidiano.

    La Mentina l’aveva portata fino in fondo al paese, dove la dritta e lunga strada curvava bruscamente a destra e si rituffava in campagna. La Giuditta invece l’aveva aiutata a serpeggiare tra le strade del quartiere dietro alla chiesa, villette quasi nuove, dai graziosi giardini ben curati, chiusi in cancellate ridipinte ogni cinque anni. Altri ancora l’avevano portata con sé pedalando in bicicletta lungo lo stradone che arrivava alla provinciale, posandola sulla via, tra i pensionati in fila all’ufficio postale, in farmacia, allo spaccio della Latteria Sociale. Un giorno se la rimbalzarono, seduti nella sala d’aspetto del medico di base, il sindaco e l’assessore all’urbanistica, ignari del fatto che contemporaneamente Flavia la parrucchiera e una cliente, che, per inciso, erano le loro mogli, la stavano analizzando con incredibile perizia.

    Finché, nel pigro dopo pranzo di un lunedì d’aprile, volteggiando come una piuma portata dal vento, giunse alla Piccola e fu inchiodata da un vigoroso pugno di Rocco sul tavolo.

    «No, puttana la miseria! Proprio no! Qui non ce li vogliamo!»

    Il pugno aveva fatto sobbalzare le posate e tremare i piatti. Una bottiglia di lambrusco, fortunatamente mezza vuota, si era rovesciata sul tavolo. I commensali, anziché sorprendersi, avevano assentito incrociando i loro commenti.

    «Non saremo più tranquilli.»

    «Hai visto la pizzeria del Corso? Chiusa. Al suo posto un coso che fa kebab.»

    «E si tirano dietro tutti i parenti e gli amici.»

    «L’invasione.»

    «Qui non li vogliamo.».

    Erano le due e mezza passate. Tutti i clienti se n’erano già andati, il personale in cucina stava per concludere il turno e si accingeva a tornarsene a casa. Restava solo quell’unico tavolo attorno a cui sedevano i membri della Proloco e Rocco, il padrone della locanda, appunto.

    L’Agnese, che di là in cucina si chiedeva quanto ancora sarebbe durato questo benedetto pranzo, s’affrettò a vedere cosa era successo. I cuochi, gli aiuto cuochi e i camerieri si bloccarono e tesero le orecchie: «Con chi ce l’ha?».

    Cristina, asciugatasi le mani, lasciò a metà la lavastoviglie che stava riempiendo e restò all’erta accanto al secchiaio, immobile, le orecchie tese.

    In sala da pranzo, la faccia paonazza e il collo gonfio, Rocco stava ripetendo ancora: «No! Se crede di portarceli in casa nostra si sbaglia di grosso!».

    I membri della Proloco lo guardavano, con la testa annuivano e l’assessore, era lui che aveva dato la notizia, allargava le mani in un gesto eloquente: «È quello che dico anch’io».

    L’Agnese ad occhi spalancati s’intromise: «Ma sei impazzito?».

    Rocco non si diede pena di rispondere a sua moglie. «Qui non li vogliamo, va bene? Che se li metta a casa sua.»

    L’assessore riprese il discorso: «Il papa in persona ha raccomandato che ogni parrocchia o convento o associazione ne prenda qualcuno e don Stefano è partito in quarta. Giovedì sera fanno una riunione in parrocchia per parlare di questo».

    «E allora alla riunione ci andiamo anche noi» tuonò Rocco, e giù un’altra manata sul tavolo.

    Quindi gli stranieri arrivavano davvero.

    Quella che girava in paese non era solo la fantasia timorosa di comari pettegole o la previsione pessimista dei soliti furboni, quelli del te lo dico io come vanno le cose, il frutto di chiacchiere sentite alla tivù nei programmi di cronaca del pomeriggio.

    Di paesi dove li sistemavano e la gente protestava era piena l’Italia.

    Davvero don Stefano voleva portare in paese degli stranieri?

    Già si era capito da quando era arrivato, qualche mese prima, seguito da tutte quelle facce scure che venivano a messa la domenica. All’inizio pareva semplicemente una stramberia di un prete giovane che faceva il moderno. Invece ecco qual era il suo obbiettivo: far digerire la faccenda ai suoi parrocchiani, al paese intero per poi portarne qui qualche decina!

    Giusto il giorno prima se ne erano presentati due proprio alla Piccola. Gocciolavano, perché fuori c’era il diluvio e avevano impantanato l’entrata. Rocco non aveva voluto sapere niente, non li aveva fatti parlare. «No no, fuori!»

    C’era lì la Cristina e aveva ribadito: «Forza, mandali fuori subito!».

    E non perché fossero neri, sia ben chiaro. Neri, gialli, rossi, anche super biondi. Non era razzismo il suo. Solo non voleva avere a che fare con gli stranieri.

    Che ne sapeva lui di permessi di soggiorno, di clandestini, di rifugiati eccetera eccetera? Sapeva che se parlava non lo capivano e che portavano solo guai.

    L’Agnese si faceva tirare dalle parole del prete. «È povera gente.»

    Un corno! Di povera gente italiana ce n’era già abbastanza, senza bisogno di tirarsene qui dell’altra. E non sarebbe stato certo lui a togliere il lavoro a un italiano per darlo a uno di questi qui.

    Intanto il pranzo che doveva servire per decidere l’organizzazione del rosario di maggio aveva preso un’altra piega e non si era potuto decidere niente. Ecco, appunto, bastava nominarli per avere dei fastidi.

    La Piccola

    La Piccola sorgeva ai bordi della strada provinciale da molto tempo, da prima che diventasse una locanda.

    Era una costruzione vecchia a due piani, con un minuscolo spiazzo sul davanti che si allargava in una grande corte sul fianco e sul retro, l’antica aia di quando ancora era una cascina, ai tempi del vecchio Sante.

    Poco più in là, sulla provinciale, sorgeva un distributore di benzina e forse anche per questo, col tempo, era diventata la trattoria dei camionisti.

    Parcheggiavano i loro bestioni, entravano paciosi e sorridenti o stanchi e nervosi.

    Alla Piccola trovavano cucina buona, menù fisso e prezzi bassi. La mamma di Rocco, l’Elvira, tirava sfoglie perfette, gialle come il sole, talmente fini da poterci vedere in mezzo, ma così elastiche e sode che non c’era pericolo che si strappassero. Impastava montagne di passatelli e li sgranava sull’asse di legno come chicchi di granoturco stesi al sole sull’aia. Nei pentoloni preparava bolliti misti di gallina e carne di manzo e ci aggiungeva qualche costina di maiale, per fare il brodo più dolce.

    Il profumo sublime di quel brodo! Poteva resuscitare un morto, riscaldare il cuore di un camionista lontano da casa, ristorare la stanchezza accumulata e dare nuova energia per la strada ancora da percorrere.

    Avete presente il dire comune, quello secondo cui dove si fermano i camionisti si mangia bene?

    Col passare del tempo la Piccola iniziò ad essere meta anche di clienti provenienti dalla città che volevano ritrovare i sapori di una volta. Le loro mogli lavoravano tutto il giorno e non avevano il tempo per fare la sfoglia o mettere su un brodo buono. Si accontentavano del brodo in bicicletta, diceva l’Elvira, quello di dado, ma ogni tanto venivano da lei a mangiare qualcosa fatto come si deve.

    Perciò adagio adagio la Piccola, per molto tempo l’osteria dei camionisti a mezzogiorno e dei contadini che venivano a giocare a briscola e a bere un bicchiere di lambrusco alla sera, era diventata un ristorante vero e proprio. Un ristorante alla moda, ricercato, dove dovevi prenotare con un certo anticipo per poter trovare posto.

    L’Elvira l’aveva lasciato al suo unico figlio, Rocco, e a sua moglie, Agnese, brava tanto quanto lei a tirare la sfoglia e ad annodare cappelletti e anolini.

    La Piccola non aveva quel nome per caso.

    Non era mai stata una vera e propria cascina: poca terra, una dozzina di vacche nella stalla, il pollaio in fondo all’aia, la minuscola vigna su un fianco. Niente a che vedere con le enormi cascine della campagna intorno, dove potevano abitare anche più di dieci famiglie. Piccoli villaggi chiusi in una corte.

    Condivideva il proprio destino e lo stradello d’accesso con la vecchia Pieve: una famiglia di contadini messa lì a custodirla, aprirla e chiuderla e a lavorare la poca terra della chiesa, secondo gli ordini del parroco.

    Dalla provinciale ci s’infilava in una stradetta bianca che si biforcava dopo un centinaio di metri. Sul bivio c’era una santella, la Madonna della Pieve, appunto, con due alti pioppi cipressini a fare da guardia e a dividere e unire l’esistenza delle due costruzioni.

    Rocco stesso, da che la memoria riusciva ad andare a ritroso, ricordava di aver trotterellato dietro a suo nonno tra i banchi della Pieve, di averlo aiutato a tirare le corde delle campane, di aver steso con lui la lunga stuoia odorosa di polvere e muffa dal portone all’altare in occasione di cerimonie importanti, di aver visto sfilare, ogni sera di maggio, le donne del paese col capo coperto da veli di pizzo nero per il rosario.

    Era maggio, appunto, quando tutto cominciò.

    Da un po’ di tempo era giunta la richiesta di espropriare la terra per costruire lo svincolo della nuova provinciale e al nonno Sante era venuto un colpo.

    Infatti, subito dopo Pasqua, il prevosto era entrato in casa e si era seduto sulla punta della sedia. Cattive notizie. Rigirandosi un bicchiere di rosso tra le mani, aveva parlato con rammarico e fatica e aveva ascoltato Sante chiedersi cosa sarebbe successo dopo. Come avrebbero fatto a tirare avanti. Già la Piccola era una cascinetta da niente, ora che perdeva gran parte dei campi, cosa rimaneva?

    Tutta la famiglia dietro di lui immobile e attonita aspettava dal prete una risposta.

    «Puoi continuare a fare il sagrestano, qualcosa ti pago.»

    Sante, una mandria di cavalli al galoppo nel cuore, un groviglio di rabbia nel cervello, aveva risposto con un debole grazie, si era alzato e si era rifugiato in fondo alla vigna senza neanche salutare.

    Tutto quello che voleva era che il prete se ne andasse per evitare di mettergli le mani addosso e fare uno sproposito. Non ne aveva colpa neanche lui, del resto.

    La sua vita stava crollando.

    La sapienza ricevuta da suo padre, da suo nonno e dagli altri prima di loro, la sapienza della terra, della pioggia, della grande calura, delle temute gelate. La familiarità, l’intimità con le zolle grasse e scure, le sementi da spargere a piene mani, i chicchi da seminare uno ad uno. La meraviglia della vita rinnovata in ciascun germoglio appena spuntato.

    I tempi e i ritmi dettati dalle vacche da mungere e da nutrire quando il giorno è ancora notte, dai campi pronti per la semina, dai raccolti maturi per la mietitura.

    Tempo di arare, tempo di seminare. Tempo di mietere, il più bello.

    Tempo di vendemmia, il più festoso.

    Le morti e le rinascite.

    La vita che ricominciava.

    Ricominciava dopo la grandine violenta e improvvisa che tritava i campi. Ricominciava dopo la gelata che cuoceva i primi germogli, dopo la filossera che distruggeva le viti.

    Ricominciava dopo la guerra che si era portata via suo fratello. Era tornato lui, Sante, a prendersi sulle spalle quello che era rimasto della famiglia: sua moglie, suo figlio Giovanni, e qualche anno dopo sua nuora Elvira e il piccolo Rocco. Erano stati tranquilli per un po’, fino a quando un male perfido e subdolo si era preso anche Giovanni, maciullando il loro cuore, ma c’era da pensare a Rocco che aveva poco più di due anni. Non potevano lasciarsi andare.

    Le morti e le rinascite.

    Cosa sarebbe stata la sua vita adesso?

    Solo quando, da laggiù, dalla sua piccola vigna, vide la striscia di luce uscire dalla porta di casa che si apriva e il prete salutare mesto sua moglie e inforcare la bici, solo allora poté lasciarsi andare sull’erba. Coricato tra le viti, fissando un cielo pacioso e sereno, circondato dai rumori e dagli odori della sua terra, ritrovò la calma e iniziò a pensare.

    Cosa restava? Cosa lasciava a Rocco? La Piccola certo, ma che cascina sarebbe stata senza terra? Solo una casa, una barchessa, un’aia, nemmeno più una vacca nella stalla che sarebbe diventata un ripostiglio di inutili cianfrusaglie. E la Pieve.

    Pensava, Sante. E indomito, nel suo fino cervello contadino, era pronto ad affrontare un’altra rinascita. Pensava giorno e notte.

    Andava nella stalla e pensava.

    Camminava lungo il fosso del campo che sarebbe stato espropriato e pensava.

    Carezzava i germogli del frumento spuntato da poco, e pensava ancora.

    Per giorni e giorni non rivolse quasi la parola a nessuno, tanto che l’Elvira, preoccupata, si era rivolta al dottore. «Sta andando giù di testa.»

    Lo sentiva alzarsi di notte, scendere nell’aia e misurarla a grandi passi e lo spiava da dietro le persiane. Seduto a gambe incrociate in mezzo alla corte, girava la testa di qua e di là, tenendosi la nuca con le mani. Guardava il cielo, si alzava in piedi, camminava fino all’imboccatura dello stradello, tornava indietro.

    I pensieri gli frullavano nella testa, la rabbia aveva lasciato il posto alla fantasia. La fantasia, alla possibilità di riscatto. Una nuova rinascita.

    Poi una mattina fece sedere le sue donne, chiamò Rocco, lo prese in braccio, e svelò il risultato di tutto quel pensare.

    Gli avevano espropriato la terra per una grande strada di passaggio? Passate pure, ma fermatevi a bere qualcosa, allora! La presenza della Pieve era perfetta, la santella della Madonna sembrava fosse stata messa lì a bella posta.

    Sante, aveva messo insieme tutto nella sua mente e sapeva bene, passo per passo, come realizzarlo.

    Il rosario

    La sera del primo maggio era tradizione in paese iniziare il mese del rosario davanti alla santella.

    Per tutto il resto del mese il rosario si sarebbe recitato all’interno della Pieve. Era un appuntamento a cui quasi tutto il paese partecipava. La gente arrivava in bicicletta o a piedi, percorrendo la lunga strada alberata che divideva il paese dallo stradone.

    Le sere di maggio erano tiepide e dolci, e più il mese si inoltrava nell’estate, più si allungavano in una luce tarda e serena. Era bello, terminato il rosario, far ritorno camminando insieme, gli uomini a chiacchierare di campagna fino all’osteria, le donne parlando, indugiando ancora un poco, una volta in piazza, mentre i bambini increduli dell’ora insolitamente tarda giocavano sfrenati e felici.

    Anche quell’anno, dunque, i fedeli si riunirono davanti alla santella per il primo rosario.

    E vi trovarono una sorpresa.

    All’imbocco che portava alla Piccola c’erano tre tavoli coperti da candide tovaglie. Un filo volante partiva dalla piccola cascina e finiva legato al

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