De La Tour: il peccato del tennista
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Info su questo ebook
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Ora sapeva cosa doveva fare, dopo quello che gli era successo.
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Non era giustizia, non era vendetta, non era piacere, era solo la vita.
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Del resto, padre, il mio lavoro era quello di ottenere giustizia, per il reato contestato ma anche solo per il fatto di appartenere all’umanità, a quell’umanità che mi aveva privato di tutto.
Colpendo l’umanità mi illudevo di alimentare millesimi di speranza di avere punito, indirettamente, i miei quattro carnefici e tutte le persone che gravitavano nella loro orbita.
Poca cosa, ma ogni volta che rileggevo i miei atti di accusa ne ricavavo la sensazione di una goccia di rugiada fresca che scivolava sulla mia fronte arsa dalla febbre, ogni volta che ottenevo la condanna richiesta mi sembrava di sentire il tepore di una carezza di Jeanne sulle mie guance contrite.
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Anteprima del libro
De La Tour - Mauro Acquaroni
Mauro Acquaroni
De La Tour - Il peccato del tennista
Gilgamesh Edizioni
Via Curtatone e Montanara, 3 - 46041 Asola (MN)
gilgameshedizioni@gmail.com - www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-094-8
È vietata la riproduzione non autorizzata.
In copertina: progetto grafico di Dario Bellini
© Tutti i diritti riservati.
ISBN: 978-88-6867-094-8
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Indice
Telecamera 4 – 5 settembre 2014 Ore 23:37
De La Tour - Nancy – Eglise des Cordeliers – 13 ottobre 1693
Claude 1
De La Tour - Paris – Notre Dame – 24 gennaio 2014
Edmond 1
Claude 2
Telecamera 4 – 6 settembre 2014 Ore 0:14
Edmond 2
Telecamera 4 – 6 settembre 2014 Ore 1:03
Claude 3
Edmond 3
Claude 4
Edmond 4
Telecamera 4 – 6 settembre 2014 Ore 11:48
Claude 5
Edmond 5
Claude 6
Edmond 6
Epilogo
Telecamera 4 – 6 settembre 2014 Ore 15:32
Le Monde
Ringraziamenti
ANUNNAKI
Narrativa
33
Edmond Darrel nemmeno sapeva chi fosse Edmond Dantés eppure, oltre all’assonanza del nome, aveva molte cose in comune con il Conte di Montecristo. È stato però Denzel Washington a spiegargli cosa doveva fare, dopo quello che gli era successo. Non è giustizia, non è vendetta, non è piacere, è solo la vita. Non è un noir, non è un giallo, non è un romanzo rosa, nessuno di questi colori, è solo una storia… raccontata da Mauro Acquaroni.
Mauro Acquaroni nasce a Sabbioneta (MN) nel 1961, non si accontenta di vivere le proprie passioni, ne scrive. Scrive di Roma e Parigi in un divertissement letterario con Gioco, partita,incontro. Scrive di compagni di classe, di radio private, di paradossi e finte verità in Fosse vero. Scrive di un giovin
Notaio parigino alle prese con Eric, testimonianza di cent’anni di storia e di sensi di colpa, cullati sulle acque della Senna e sulle note di un adagio di Albinoni, in Luc. Scrive di un adolescente sbocciato sul ring, per una sola stagione, imploso in sé e rapito da un disco dei Pink Floyd in Come un jab. Per Gilgamesh Edizioni scrive Piccioni e De La Tour.
Telecamera 4 – 5 settembre 2014 Ore 23:37
De La Tour - Nancy – Eglise des Cordeliers – 13 ottobre 1693
Claude 1
In nomine Patri, et Filii et Spiritus Sancti, amen.
Padre, chiedo a voi perdono perché ho peccato.
Spero che il Signore perdoni la mia debolezza, che mi conceda con la sua infinita compassione la salvezza, non voglio che la mia anima bruci per l’eternità negli inferi.
Anche se poi, in fondo, padre, la mia colpa non è poi così tanto grave.
Sì, è vero, ho peccato, ma sempre meno di tanti altri peccatori, che per noi del popolo è quasi impossibile non fare peccati, non come quelli, i nobili e i ricchi, che per loro è facile star lì a pregare il Signore e guadagnarsi le indulgenze e i perdoni, basta che pagano, e senza tanta fatica, perché, tanto, mica sono obbligati a lavorare e fare peccati per campare e portare a casa la pagnotta, e invece peccano, eccome se lo fanno, ve lo garantisco io padre che ne ho conosciuti tanti, e per primo lui, quel magnifico aguzzino arrogante, quel genio maleducato del Maestro Georges, che il Signore lo prenda in gloria, perché lui, padre, lui non era certo un buon cristiano, o almeno non lo era con noi, con noi del popolo, e, a pensarci bene, neanche tanto con quelli come lui.
Che poi, tutti a dire che lui dipingeva madonne e santi; mica vero. Lui dipingeva figure così, non precise, ma solo persone che volevano dire idee, sentimenti, emozioni, e se poi gli altri ci vedevano le maddalene, pazienza, ma non era quella l’intenzione del Maestro, lo so per vero, anche se poi dopo lui ci giocava.
E comunque, padre, davvero un caratteraccio Maestro Georges, dovevate vederlo quando usciva dalla grazia del Signore, una furia, non guardava in faccia a nessuno, di bastonate ce n’erano per tutti, anche per le guardie del governatore, quando bussavano per le tasse, che lui non le voleva proprio pagare, com’è che diceva? Ah, sì, – il privilegio, io ho il privilegio – ripeteva, urlava come un ossesso, perché diceva che il Duca glielo aveva dato e anche il Re glielo doveva riconoscere.
Però, con quel suo carattere, non gli andava sempre bene, padre; una volta era stato anche condannato a pagare una bella somma a un esattore per un paio di bastonate che gli aveva rifilato, privilegio o non privilegio.
Però è anche vero che il Maestro non era uno stupido.
Lui faceva sempre così con noi apprendisti, con i bifolchi, ma con i suoi compratori, con il Duca e il Re e tutti quelli che gli venivano utili lui era tutto una gentilezza – Oh, Monsieur qua, Monsieur là – e quando capiva che ci stava anche una bella preghiera al Signore, pronto, ecco un bel canto sulla bontà d’animo, insomma un’altra persona, un’altra storia.
E così non so dirvi, padre, se lui era davvero un buon cristiano, secondo me no, la sua era tutta una posa per vendere meglio i suoi quadri... i suoi quadri... davvero, padre, non ho mai visto, in tutta la mia misera vita, niente di più meraviglioso, ispirato, magico delle tele del Maestro.
È proprio vero, padre, che quando c’è di mezzo l’arte si deve separare l’uomo dal suo lavoro: allora, il pittore dipinge il quadro, lo scrittore scrive il romanzo, ma dopo le due cose si devono staccare, come il frutto dall’albero, il frutto va al mercato, l’albero resta lì, e così il quadro e il romanzo devono vivere la loro vita, come se l’autore fosse già morto, anzi, come se non ci fosse mai stato, meglio ancora.
Per il pittore e per il quadro.
Tutti e due.
Dovevate vederla, padre, quella luce che non era vera ma sembrava vera, anzi, più che vera, non come era ma come doveva essere, quella luce, e poi quelle facce, tutte pensierose, serie ma allo stesso tempo serene, com’è che aveva detto una volta il Maestro? Ah, sì, espressioni che superano il presente e si allungano all’infinito
, che poi non ho mai capito bene cosa voleva dire con quelle parole, ma suona così bene, non trovate, padre? Comunque quelle figure era come se sbucassero alla vita dalle tenebre e sembravano destinate alle pareti delle stanze dei re, e pensate, padre, che Re Luigi Tredici un dipinto, un bel San Sebastiano del Maestro nella sua camera da letto al Louvre ce l’aveva per davvero, e non in una stanza qualsiasi, ma nella stanza da letto, e per goderselo meglio aveva anche fatto togliere dalla stanza tutti gli altri quadri, ne sono sicuro perché mio cugino Pascal conosce una dama, mio cugino è uno che ne conosce tante di dame, anche se è sposato, va be’, ma questi sono peccati suoi, ecco, lui stava… era… ecco, era amico di una che era al servizio del Re alla corte di Parigi in quegli anni e che ogni mattina gli rifaceva il letto.
Insomma, però, a pensarci bene, anche se non lo sembrava, il Maestro Georges un buon cristiano alla fine lo doveva essere per forza, altrimenti perché Dio gli avrebbe dato quel dono, quell’ispirazione.
Quando era ispirato il Maestro Georges prendeva il pennello, accendeva le sue candele, cacciava tutti dal laboratorio e si metteva lì ad ascoltare le voci degli angeli che guidavano le sue mani. Perché c’era la grazia del Signore in quelle mani, anche se poi lui, come uomo, era quello che era, ma chi siamo noi per dire al Signore a chi regalare il suo genio?
Certo, se me lo dava a me, che ero per davvero un buon cristiano, era meglio ancora, però è andata così.
De La Tour - Paris – Notre Dame – 24 gennaio 2014
Edmond 1
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Padre, chiedo perdono perché ho peccato.
Forse più che di voi è di uno psicologo che avrei bisogno, o di uno di quegli assistenti sociali che capiscono tutto, che trovano una ragione ad ogni cosa e che comunque alla fine ti assolvono più per contratto che per convinzione, ma no, ho preferito tornare qui, come facevo da bambino, quando mia madre mi obbligava a farlo – Basta capricci, Edmond, un bravo bambino si confessa sempre prima di fare la comunione – che poi erano sempre le stesse cose, i soliti peccati buoni, la bugia, la brutta parola, perché quelli cattivi non li andavo certo a raccontare in giro.
Vi avverto, padre, il mio peccato è piuttosto complicato, non può essere raccontato in due minuti, la sua storia è lunga, ma se non interrompete per fingere di avere capito o, peggio ancora, per darmi conforti intermedi o ammonirmi per le mie gravi colpe potrete cavarvela con poco; comunque non vi annoierò, ve lo garantisco.
Il mio è un peccato grave, gravissimo, ma che vale la pena di essere raccontato dall’inizio, e quindi quella signora anziana inginocchiata dietro di me, e le sue amiche che presto la raggiungeranno, dovranno portare pazienza, ma tempo ne hanno, a occhio e croce forse non molto ancora, ma ne hanno a sufficienza, a differenza di me.
Io e Jeanne, Jeanne è mia moglie, padre, è al liceo che ci siamo sfiorati, conosciuti, evitati, spiati, toccati, respinti, avvicinati, respirati, uniti, stretti, innamorati, sposati e, infine, meraviglia, dalla nostra splendida, unica e poco originale storia d’amore è nato Nicolas.
Tutto così bello, così banalmente perfetto e noioso, ero talmente felice che avrei voluto morire lì, in quel momento, perché, padre, bisogna sapere cogliere l’occasione al volo per morire con il sorriso sulle labbra.
Comunque non sto a spiegarvi tutta la storia, padre, ne avrete sentite mille di simili e non voglio obbligarvi a fingervi interessato, e poi non è per questo che oggi sono qui, ma per contestualizzare il mio peccato voglio solo aggiungere che mi sembrava di vivere in una di quelle pubblicità di biscotti dove le cose si muovono in armonia, leggermente rallentate, e i confini delle immagini sono dolcemente sfocati da una telecamera leggermente miope, nessuno spigolo, nessuna asperità, nulla deve graffiare l’incanto di quel dipinto gioioso.
Jeanne, già stupenda di suo, era radiosa nella sua maternità, quando appoggiava al seno Nicolas, i suoi capelli che a seconda della luce e del luogo catturavano diversi colori dell’iride, dal bruciato al miele, morbidamente raccolti dietro la nuca in uno chignon pigro, lasciavano sfuggire una ciocca che scivolava dalle tempie, attraversava il suo profilo fino a scendere quasi sulla spalla, il suo pallore era appena ravvivato dal rossore sugli zigomi, le fossette sulle guance appena accennate, le sottili rughe agli occhi quando sorrideva, e sorrideva spesso, sembrava una madonna di Raffaello, certo, una madonna sfuggita dai canoni di eleganza e proporzioni voluti dal maestro.
Soprattutto per il naso.
Avreste dovuto vederlo, padre, il naso di Jeanne. Un naso di carattere, non uno di quelli di anonima perfezione, che dipingono il volto senza lasciare il segno, utili ma insignificanti, magari eleganti ma invisibili, il suo era un bel naso che sorreggeva con forza l’arcata sopraccigliare, un sostegno robusto per quei suoi occhi ingenui fino all’irriverenza, decisamente pronunciato e spesso fin dalla sommità, leggermente animalesco, quasi leonino nella sua compatta eleganza e appena accennata curvatura, uno di quei nasi che oggi si operano come se fossero una malattia.
Non dico di essermi innamorato di Jeanne per il suo naso, però… quel naso esprimeva quella forza, quella decisione, quella non convenzionalità, quel coraggio di opporsi ai venti o di indirizzare le correnti che io desideravo ma capivo di non possedere o, almeno, non abbastanza.
Quel naso sfidava tutto e tutti, convenzioni estetiche e comune senso del bello, sono qui, diceva, e voi dovete farvene una ragione e, se non vi va, potete pure andare a farvi… beh, sì, insomma padre, avete capito.
Promesse mantenute. Perché Jeanne era proprio come il suo naso anticipava, quel naso che arricchiva la mia vita, che sfioravo con le dita e con labbra, che era un po’ anche mio, e che adesso…
Non so se è stato con Jeanne e non so nemmeno da quando è cominciata questa mia strana mania, perché ne sono consapevole, si tratta di una innocua mania, voi, padre, potreste definirla anche feticismo, fate pure, non mi offendo, non è certo un peccato, ma ricordo di essermene reso conto quando ho letto in un trattato di antropologia criminale quello che aveva scritto Lavater i francesi portano, nel naso soprattutto, il carattere della loro grandezza
, e ad un certo momento ho cominciato a giudicare le persone dal loro naso.
Il che non sarebbe poi tanto grave… se non fossi un giudice.
Si dice, padre, che è la prima impressione quella che conta, e per me è vero, e l’impressione che giunge per prima alle mie retine e al mio giudizio è quella protuberanza che sporge in mezzo al volto.
Immagino che in questo momento, padre, al di là della fitta grata che ci separa, vi stiate toccando il naso; beh, non preoccupatevi, da qui non lo vedo, e anche se lo vedessi le cose non cambierebbero, la mia è solo una inconsistente illusione e voi del mio giudizio non vi dovete curare, non voi.
Jeanne: quando uscivamo non potevo trattenere un fremito di orgoglio – Ma la vedete? È incredibile, è mia moglie, mia, solo mia – e quando la sera tornavo a casa e la trovavo con i capelli sconvolti, un paio di matite conficcate come nell’acconciatura di una inconsapevole geisha, avvolta da una mia vecchia maglietta che la copriva fino ai fianchi, lì a sbuffare mentre correggeva gli elaborati dei suoi allievi, era come se una folata di vento spazzasse via dal mio cervello il tribunale, gli imputati, gli avvocati, la metrò con tutti i suoi molesti passeggeri, il sottile mal di testa e ogni forma di cattivo umore.
Solo lei.
Jeanne era la mia amica, la mia amante, la boa che permetteva