La giovinezza di Shlomo
Di Stefano Iori
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Anteprima del libro
La giovinezza di Shlomo - Stefano Iori
1972).
PRIMO CAPITOLO
Sangue, silenzio, speranza
Sangue. Grido. Sudore nell’aria. Fetore di medicina. Ombre in camice bianco che si dannavano attorno alla donna. Ancora grido: acuto, lancinante. La testa del bimbo era quasi fuori. Spingi, spingi!
. Grido. Grido. Grido. Le acque del corpo avevano intriso il lettino e il rosso ormai copriva il bianco. C’è un’emorragia, dammi la pinza, porta il forcipe!
. La donna ormai era solo urlo. Il forcipe scivolò a terra mentre la testa, un istante dopo, uscì del tutto. L’infermiera era nel panico. Il bimbo si salvò per un soffio dall’oltraggio di quella tenaglia disumana che avrebbe dovuto incoronarlo. Ancora grido e ancora sangue. Il piccoletto sgusciò fuori, silente, immobile, mentre la donna chiudeva gli occhi e taceva. Presto, in rianimazione!
. La madre se ne uscì coperta da un lenzuolo da battaglia, bagnato di umori, di sangue, di linfa. Il bimbo rimase. In braccio all’infermiera. Sempre zitto. Come in preghiera.
Salomon ‘Shlomo’ Batai nacque a Tel Aviv alla fine della Guerra dei sei giorni. Suo padre Gershom riuscì a tornare appena in tempo dal fronte per assistere al parto. Ma non lo fecero entrare. Nella bianca sala d’attesa, dove spesso si respira la gioia, c’era paura. Lui, fuori, solo, pianse. Pianse come non aveva mai fatto. Neanche quando premeva il rigido grilletto del cannone, nella pancia del suo tank inglese prestato alla rapida, inutile vittoria. Era il 12 giugno del 1967. La donna morì dopo due giorni. L’emorragia si arrestò solo per far posto alla setticemia. Nulla da dire. Tempo annullato. Nessuno spazio tra vita e morte.
Shlomo piccino visse assieme ai nonni, per i pochi anni che rimasero al mondo. Nella casa che sarebbe passata a suo padre, e poi a lui. Maestosa sul mare. Rigonfia di glicini. Quattro piante, ormai vetuste, avevano messo radici nel cortile e sul marciapiedi esterno poco dopo la costruzione del palazzo, uno tra i più vecchi della zona. Da allora, con il loro risveglio rigoglioso, esaltavano ogni anno la leggenda della primavera. Lungo i muri secchi e impolverati, la celeste fioritura serpeggiava fino a disegnarsi nell’abbondanza. Fino a grondare di grappoli in boccio, da terra a tetto. Come vivere in un bosco, pensò negli anni a venire Shlomo. Un tripudio della natura. Il disegno intricato di un pittore dall’esagerata tavolozza.
Dal grande appartamento dei Batai, all’ultimo piano, la vista sul mare era di rara bellezza. Prima che gli occhi raggiungessero il lontano profilo del porto commerciale, ormai quasi completamente in disuso, la vista incontrava i moli dei piccoli pescherecci, che puzzavano al sole, dondolati dalle onde. Ognuno diverso dall’altro, con nomi fantasiosi, perlopiù di donne. Il lungomare serpeggiava, scandito da cespugli sbiancati dal sale, piccole palme, panchine rugginose e bianchi lampioni a due e tre luci.
La casa era destinata ad essere divisa in due alla nascita del piccolo: una parte per i nonni e una per la famiglia di Gershom. La morte di Ines, che non vide mai il proprio figlio, spezzò il progetto. Yoram, il nonno di Shlomo, era capitano di marina e stava via per interi mesi, ma interruppe il viaggio alla notizia della tragica nascita, sbarcò al primo porto e tornò in aereo appena in tempo per l’avvio della Shiv’à1. Subito al primo giorno disse al figlio che il lavoro di suddivisione non era più necessario. La casa era molto ampia e ora che il giovane padre era rimasto solo, il bimbetto avrebbe tratto vantaggio dal vivere in una sorta di famiglia allargata. Era deciso, e così fu. Gershom lasciò l’appartamento in affitto dove aveva vissuto sette anni con Ines e tornò all’abitazione paterna. Con il piccolo Shlomo ancora in fasce.
Ci vuole un uomo in questa casa
disse il vecchio marinaio nell’accogliere il figlio Io vado e vengo. Tu abiterai qui con Salomon. C’è spazio per tutti. Tua madre penserà al bambino
.
Il tempo volò. Nel segno del prevedibile. Gershom combatteva in Libano quando il piccolo compì due anni. Ed era in prima linea al confine con la Giordania quando festeggiò i tre. Shlomo divenne il principe della casa. Un mondo grande, anzi, enorme, quanto di meglio un bimbo potesse desiderare. Un lungo corridoio in larghe piastrelle di marmo giallo divideva le stanze dalla veranda esterna che guardava sul cortile, una vera pista di lancio per corse e capriole. La cucina baciata dal sole s’apriva alla luce vivida della vetrata che separava l’interno dall’aria del nord, a tutta parete. Lì era piacevole giocare tra i piedi di nonna Izabela. Ma era bello anche in sala. Nel mondo d’ombra prediletto dal nonno, Shlomo poteva volare silenzioso sui morbidi tappeti persiani che coprivano tutto il pavimento. Quando il vecchio Yoram era in casa, amava riposare su di una grande poltrona di velluto dopo il pranzo. Il piccolo, appena sentiva il suo rombante russare, gli si avvicinava fin quasi a toccarlo. Fino a sentire il suo respiro sfiorargli le guance. Gli stava accanto per una manciata di secondi, sorrideva scuotendo la testa e poi fuggiva via senza rumore. Il gioco delle visite furtive del piccolo fantasma si ripeteva come un rito: chissà quante volte il nonno dormiva davvero e quante era invece rimasto impassibile, complice, ben sveglio. Chissà quante volte Shlomo aveva vinto e quante perso?
Ma il vero fantasma di famiglia era Gershom. Quando viveva nella casa, nessuno, più di tanto, badava alla sua presenza discreta. Brevi apparizioni tra una battaglia e l’altra, tra un’esercitazione e l’altra. Rare parole. Ogni domenica metteva sul tavolo della cucina una mazzetta di soldi. Ogni lunedì mattina poneva i suoi panni sporchi nella vasca del bagno piccolo perché l’anziana madre li lavasse. Salutava Shlomo con una carezza la mattina e poi la sera, prima che andasse a letto. Forse null’altro. In licenza stava chiuso nel suo studio tutto il giorno. Dopo la morte della moglie pareva aver fatto un patto col silenzio.
Shlomo era un bimbo ossuto, svelto nei passi. Vivace come un piccolo animale: un furetto sorridente. Appena il suo corpo scoprì l’equilibrio dei muscoli e dei nervi fu il moto perpetuo. Danzava, slanciandosi verso il cielo, sul ciglio del muro disseccato che confinava, a destra del cortile, con il giardino dei vicini. Stava a guardare il passeggio, appollaiato al davanzale di una finestra. Osservava il mare e contava i gabbiani, con le gambette penzoloni. Sempre in bilico, sempre in alto, come se da quel mondo che lo aveva accolto senza pietà volesse staccarsi spiccando il volo. Per unirsi agli uccelli che volteggiano lesti nell’aria. Verso le nubi, incontro al sole. Quante ramanzine si prendeva quando Yoram lo trovava appeso ai rami degli alberi, sul lungomare. E quanti rimbrotti se nonna Izabela lo scovava ad arrampicarsi lungo il rugoso tronco del glicine, fino a sfiorare il ballatoio del primo piano (ma era arrivato anche a quello del secondo), o a dondolarsi, appeso alla catena del pozzo posto nell’aiuola al centro del cortile.
Nonno e nonna parlavano lo yiddish tra loro. Ma lo facevano di rado. Una volta, in cucina, litigarono perfino in quella lingua che al piccolo Shlomo pareva dura, secca e sostanzialmente incomprensibile. Si sentì umiliato, quel giorno. Non volevano che lui capisse. Non c’erano altri nella casa.
Papà Gershom capiva bene quello strano dialetto. Se a Yoram sfuggiva una frase o una battuta nella sua vecchia lingua, lui replicava apparentemente a tono. O sorrideva in risposta.
Shlomo, zitto zitto, con le sopracciglia aggrottate, ascoltava.
Il saggio ode una parola e ne comprende due
.
Fu questa l’unica frase che Gershom tradusse al figlio, una sera a cena. Il giovane riconobbe nel tempo i suoni di quello che evidentemente era uno dei proverbi preferiti da Yoram.
Il bambino non intendeva ciò che gli adulti si dicevano in yiddish. Ma col tempo finì con l’intuire che quelle strane formule verbali erano usate per discutere di soldi, di azioni inerenti la famiglia, la spesa, la casa, o di Shlomo stesso. E se ne stava con le orecchie tese quando riconosceva il suo nome nell’altalenante litania straniera.
Quella lingua diversa finì per significare per lui la forma stessa del mistero. A portata di mano, sì. Non certo maligna e tuttavia impenetrabile. Una parlata buffa, a volte, ma destinata alla notte. Al buio marasma del mondo dei grandi.
Furono anni morbidi, spensierati. Yoram appariva di tanto in tanto dopo i suoi viaggi ed era sempre gentile e affettuoso col piccolo. Nonna Izabela c’era sempre. L’unica. La bontà in persona, dolce, amorevolmente pronta a raccontare storie e fiabe. Severa alla bisogna quel tanto che un bimbo comprende e capisce. Gershom andava e veniva, come il nonno, ma con assenze più brevi. In fin dei conti per Shlomo i primi anni di vita furono un sogno leggero, vissuto all’ombra di una sicurezza garantita da Izabela, celebrata ritualmente dal nonno e confermata, seppur fugacemente, dal silente Gershom.
Giorni e notti, nel grande condominio. E gli anni volavano. Erano i ritmi sempre uguali che tutti rispettavano nel caseggiato a rendere svelte le ore. Una regola che valeva anche per Shlomo: un metronomo che reiterava le medesime scansioni di tempo ogni giorno. Asilo e poi scuola, pranzo, giochi ai giardinetti o in riva al mare, bagno e cena, pensieri in cortile la sera. Non c’era però monotonia per lui. L’ingorda curiosità di bimbo gli sollecitava il riso con straordinaria frequenza.
Poi, all’improvviso, venne zia Sarah. Hai bisogno di lei ora che i nonni se ne sono andati
disse serio suo padre.
Il vecchio Yoram era un automobilista esperto, voleva guidare sempre lui quando portava in giro la moglie, anche se ormai i suoi occhi erano velati dalle ingiurie del tempo e dagli acuminati riflessi del mare. L’imprevisto è davvero dietro ogni angolo, soprattutto la notte. E quella volta prese le forme di un bagliore improvviso. Morirono entrambi nella tragica sbandata. La bomba messa dai