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L'ultimo assolo
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E-book159 pagine2 ore

L'ultimo assolo

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Info su questo ebook

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, una nuova band musicale si affaccia sulla scena rock nazionale, è il quintetto milanese degli “Hope”. Ma ciò che per molti ragazzi è un sogno che si realizza, per Giovanni, virtuoso chitarrista e compositore del gruppo, è l’inizio di un incubo. La pressione mediatica lo trascina nel vortice del panico, cui riesce a far fronte solo attraverso l’uso di stupefacenti, che stravolgono la sua vita professionale e privata. Fino al giorno in cui, di colpo, sembra svanire misteriosamente nel nulla.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2021
ISBN9791220855822
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    Anteprima del libro

    L'ultimo assolo - Stefano Montruccoli

    Prologo

    Soffiava un vento di maestrale forte e gelido che veniva dal mare, tanto da costringerlo a coprirsi il capo con il cappuccio. Era il freddo tipico di una giornata di fine febbraio, eppure questo non lo fece desistere dalla voglia di camminare lungo la battigia.

    Procedeva di buon passo con la testa china per ripararsi, ma ogni tanto la sollevava; il mare era furioso, branchi di cavalloni si inseguivano fino ad allungarsi sulla lunga spiaggia sabbiosa. Il cielo non era limpido, il sole doveva farsi strada tra nuvole di diversa densità, creando una serie di riflessi che mutavano rapidamente. Respirava appieno e quell’aria fredda gli dava una sensazione di purezza; camminava con le mani nelle tasche della pesante giacca, col passo ritmato ma tranquillo di chi vaga senza meta.

    Arrivato al molo vi salì e percepì la diversità dell’appoggio del piede, prima morbido e sfuggente per la sabbia, ora rigido per il cemento. La banchina si estendeva verso il mare, come una propaggine piccola e lunga qualche centinaio di metri, che si staccava perpendicolare dalla costa.

    La percorse tutta e al culmine si sedette. Il vento si era calmato e gli permise di stare per qualche minuto a scrutare l’orizzonte senza doversi riparare.

    Lasciò che la sua mente vagasse in quel mondo diviso da una linea. Poi il vento rinforzò, così si alzò e tornò sui suoi passi. Lasciò la spiaggia attraversando uno dei tanti stabilimenti balneari chiusi in quel periodo; si tolse la sabbia dalle scarpe scuotendole ed entrò in un bar, dove ordinò un caffè bollente che gustò seduto dinanzi alla vetrata.

    1 – L’inizio

    Fine 1977.

    Cambiare città per qualcuno può essere un trauma, per altri un’opportunità. Per Giovanni né l’uno né l’altra, l’unica seccatura per lui era il trasloco, riempire scatoloni con le proprie cose e disfarli nel nuovo alloggio, cercando la disposizione ideale per l’impianto stereo, il vestiario, le Sneakers, il posto dove collocare gli strumenti musicali...

    Sì, gli strumenti musicali, o più precisamente le chitarre, perché parliamo di un musicista, o meglio lo sarebbe diventato; all’epoca era solo un ragazzo di ventitré anni con l’hobby di suonare.

    Giovanni faceva lavori saltuari e cercava di laurearsi in scienze biologiche, frequentando di rado l’università e accumulando un po’ di ritardo nel piano di studi. Un giovane come tanti, cui piaceva suonare la chitarra e lo faceva anche bene.

    Aveva lasciato la lontana periferia di Milano per una un po’ meno lontana, uno spostamento di qualche chilometro verso il centro, un cambio di domicilio che non aveva portato grandi differenze nelle sue abitudini: continuava a frequentare gli stessi locali e gli stessi amici e terminato il trasloco tutto era tornato come prima.

    Il trasferimento era dovuto a una scelta dei genitori, con i quali ancora viveva e aveva un buon rapporto. I due avevano preferito un appartamento di maggior pregio per un canone simile a quello che già pagavano, una decisione presa senza neppure interpellarlo.

    Il ragazzo trascorreva la sua vita in modo ordinario, felice; come tanti coetanei stava cercando il suo spazio in quello che gli adulti chiamavano il mondo degli uomini. Lavorava saltuariamente al bar Cavour, appena fuori dal centro modaiolo di Milano, facendo il cameriere in sala dalle 6 alle 14, poi il pomeriggio un po’ di riposo e di studio. La sera la dedicava allo svago e, se non aveva esami il giorno seguente, gironzolava con gli amici e a volte con qualche ragazza. Una vita normale in cui inseriva un po’ di tempo per suonare, e proprio questo rappresentava la sua peculiarità.

    In realtà, tantissimi altri suoi coetanei suonavano la chitarra o qualcos’altro, ma la maggior parte lo faceva in un gruppo musicale, o avrebbe voluto farne parte, e quasi tutti avevano un sogno: quello di fare successo. O perlomeno essere apprezzati da qualcuno.

    Giovanni non era tra questi, suonava un paio d’ore tutti i giorni ma da solo, nella sua camera. Soprattutto la chitarra elettrica, in cuffia e utilizzando delle basi che lui stesso componeva. Le faceva passare attraverso il registratore dell’impianto stereo, per poi deviarle verso un mixer che aveva costruito, grazie al quale aveva inserito le percussioni e altre ritmiche alla melodia della sua chitarra.

    Un piccolo studio di registrazione silenzioso, compresso in una cuffia, in modo tale da poter eseguire dei brani senza provocare una rivolta condominiale.

    La scelta di suonare da solo non era dovuta a timidezza, in passato lo aveva fatto insieme ad altri amici a qualche festa. Un’estate aveva lavorato nel piano-bar di un paese limitrofo insieme a un cantante: esperienza piacevole ma fine a se stessa, giusto per fare un po’ di soldi e pagarsi le vacanze successive.

    Quell’inverno, pochi mesi dopo il trasloco e a ridosso delle festività natalizie, era nella sua stanza per suonare un po’, particolarmente eccitato per come si stavano mettendo le cose con Claudia, la ragazza di cui si stava innamorando, finì per spingere di più sull’amplificatore, tanto da rompere un altoparlante delle cuffie.

    Senza sarebbe stato impossibile suonare e non fare casino.

    Provò dapprima con la chitarra non amplificata e trovò la cosa molto triste e impersonale, così usò l’amplificazione al minimo volume.

    Una soluzione non ottimale, piuttosto limitante per un musicista, ma al momento la situazione era questa.

    Il giorno successivo si recò subito in una rivendita di materiale elettrico per acquistare un’altra cuffia, ma non la trovò in nessun negozio, bisognava richiederla a un produttore o a qualche magazzino decentrato.

    La cosa dapprima lo scoraggiò, tanto da tenerlo lontano dal suo strumento per qualche giorno, ma la passione prevalse e ricominciò a pizzicare le corde della sua chitarra. In principio a basso volume, poi la sera successiva lo alzò un po’ di più e nelle sere seguenti andò via via a salire, finché la madre non entrò nella stanza per avvisarlo delle lamentele di qualche vicino. Da quel momento ripartì con il volume più basso, per poi risalire fino a una nuova lamentela.

    Un tardo pomeriggio, mentre un leggero nevischio imbiancava Milano donando alla città un aspetto più solenne, Giovanni era solo in casa e suonava aspettando la sera per raggiungere gli amici; partì al solito col volume basso, per aggiungere pian piano più potenza alle note. Le dita scorrevano lungo il manico di mogano, sembravano sfiorare le corde in metallo; era difficile collegare quel gesto così delicato e leggero a un suono talmente ricco e corposo, era incredibile come tutte quelle melodie fossero eseguite sempre sulla stessa base.

    Molto soddisfatto della sua performance, appoggiò la chitarra e si versò una birra chiara, che sorseggio gustandola lentamente, fiero di sé.

    Il suono del campanello interruppe il lieto momento.

    Il ragazzo pensò subito alle rimostranze di qualche condomino, cui era andata di traverso le cena a causa del volume troppo alto.

    Si agitò e iniziò a pensare di far finta di non essere in casa, poi prese coraggio e si avviò verso la porta. Prima di aprire si preparò un piccolo discorso di scuse, con tanto di promessa di tenere il volume più basso la prossima volta.

    Aprì e si trovò davanti un uomo sulla quarantina, abbigliamento casual , capelli tirati indietro fino a coprire il collo e un pizzetto corto appena accennato. Fece per presentarsi porgendo la mano, ma Giovanni non lo lasciò parlare, né ricambiò la stretta, attaccando subito con le giustificazioni che si era appena preparato.

    «Mi scusi, mi scusi» iniziò facendo gesti con le braccia, «non mi ero accorto del volume, le prometto che non...»

    Invece l’uomo sul pianerottolo prese la parola con decisone: «Mi chiamo Luca Salvini, detto Bigio. Anche per me la musica va suonata ad alto volume e sono qui proprio grazie a questo, altrimenti mica ti avrei sentito!» sorrise.

    «Sì. ha ragione, non mi ero accorto di...» continuò Giovanni, che non aveva ancora contestualizzato.

    «Suoni molto bene, mi piace il tuo stile» l’altro interruppe quella litania. «Sono uno dei soci dell’Arc Sound Studio e mi piacerebbe che ci facessi una visita, possibilmente con la chitarra» diretto, senza preamboli o giri di parole.

    Giovanni non sapeva neppure dell’esistenza di questa Arc Sound Studio e continuò come se si trattasse di un equivoco.

    «No, mi scusi, io suono così per passatempo non sono un musicista…»

    Ma fu nuovamente interrotto dal Bigio.

    «Primo dammi del tu, che non sono tuo nonno, poi se ti va passi e ci beviamo una birra e, sempre se ti va, suoni. Niente di impegnativo, questo è il mio biglietto con l’indirizzo, io ci sono a metà pomeriggio» quindi si congedò dicendo che aveva da fare.

    Poche parole e un pezzetto di carta, è strano come a volte basti poco per cambiarti la vita.

    Quando Bigio se ne andò, Giovanni provò una sensazione di sollievo, si sdraiò sul morbido divano in pelle nera, leggermente consumata sulle sedute, portato dalla precedente abitazione. Fece qualche respiro profondo, odorando l’aria della casa ancora intrisa dei profumi di vernice, poi reclinò la testa e guardò il soffitto per qualche minuto. Quasi per caso si trovò a fissare il grande lampadario barocco appeso al centro della sala, ascoltando il silenzio del luogo, turbato da qualche rumore esterno e dalla voce di qualche vicino, che oltrepassava le pareti; poi si riprese e accese il televisore, contento di aver evitato una sommossa condominiale.

    Le parole che aveva udito gli scivolarono addosso e dopo un paio d’ore raggiunse gli amici al pub senza renderli partecipi dell’accaduto.

    Il giorno dopo, però, gli riaffiorarono alla mente.

    Giovanni, seppur appassionato di musica, forse anche un buon musicista, non aveva mai pensato che quello potesse divenire un lavoro e men che meno di diventare una rock star, ma era pur sempre un ragazzo e all’incontro della sera prima non poteva rimanere del tutto indifferente, quindi iniziò a rimuginarci su.

    Innanzitutto voleva sapere qualcosa di più sulla Arc Sound, soprattutto se esisteva davvero e non si trattava della trovata di qualche burlone. Così si recò all’indirizzo riportato sul biglietto.

    Esisteva, sì, e questo era già qualcosa!

    Dall’esterno gli fece una buona impressione: poco sfarzo e una targhetta in ottone con una scritta nera in stampatello maiuscolo, una segnalazione discreta ma visibile e questo gli mise ancora più curiosità.

    Passò ancora qualche giorno, ma la conversazione sul pianerottolo di casa continuava a rimbalzargli in testa, così si decise ad accettare l’invito, tanto non aveva nulla da perdere. Sarebbe stato un pomeriggio passato diversamente, per poi tornare a concentrarsi sull’università e sul suo lavoro di cameriere.

    Finite le lezioni della mattina, pranzò con i soliti amici senza fare parola dei suoi programmi pomeridiani, poi un caffè, qualche partita a bigliardino e si congedò dal gruppo. Invece di rientrare a casa, però, si diresse lentamente verso la Arc Sound.

    Il pomeriggio frenetico di Milano gli sembrava immobile e il tempo pareva essersi fermato. Giovanni arrivò che non erano neppure le tre, troppo presto; si mise quindi a passeggiare tra le strade della città, rese lucide da una leggera pioggerellina. Camminava fermandosi davanti alle vetrine dei negozi, con gli occhi rivolti agli oggetti ma la mente da tutt’altra parte. Nella sua testa si ripetevano, come in un loop, le frasi del Bigio, sempre uguali, ma ogni volta gli davano le stesse emozione. Non si era mai sentito così e non

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