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Re Infecta: Un thriller psicologico che ti lascerà senza fiato
Re Infecta: Un thriller psicologico che ti lascerà senza fiato
Re Infecta: Un thriller psicologico che ti lascerà senza fiato
E-book395 pagine5 ore

Re Infecta: Un thriller psicologico che ti lascerà senza fiato

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Info su questo ebook

Un thriller psicologico che ti lascerà senza fiato. Non riuscirai a smettere di leggerlo!

La morte di un bambino sulle strade del suo paese natale, dà il via a un vortice di cambiamenti che travolgeranno la vita di Marco Marelli, professore di lettere in un liceo. Sulla riscoperta delle amicizie di vecchia data e sulle rivelazioni familiari domina lo spettro oscuro della re infecta, l’azione incompiuta che presto o tardi finisce per degenerare. Fra colpi di scena e risvolti psicologici Mauro Novellini accompagna il lettore in un percorso di riconsiderazione di sé e delle proprie origini, in un romanzo ricco di suspense che catturerà il lettore, spingendolo a voler scoprire cosa si cela oltre il velo di ciò che è rimasto per troppo tempo relegato nella sfera dell’incompiutezza e del nascondimento.

Recensioni di alcuni lettori:

Letto tutto d'un fiato. Un viaggio introspettivo nell'animo e nelle vicende del protagonista che ti coinvolge e ti lascia col fiato sospeso fino all'ultima riga. Elisabetta

Un libro che ti appassiona sempre di più... consigliatissimo!!! Luigi

Un libro davvero ben scritto che tra introspezione psicologica, colpi di scena, cornici caratteristiche lascia il segno nel lettore. Un'immersione a 360 gradi nella vita del protagonista Marco Marelli veramente apprezzabile, credibile, emozionante. Anche lo stile è degno di nota: piacevole, lessico sempre perfettamente adatto e mai banale. Complimenti all'autore, al suo romanzo d'esordio, che spero sia solo il primo di una lunga serie. Consigliatissimo per qualsiasi categoria di lettore. Andrea B.

Re infecta ha ottenuto la MENZIONE SPECIALE MICROEDITORIA di QUALITÀ 2020
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2020
ISBN9788868670870
Re Infecta: Un thriller psicologico che ti lascerà senza fiato

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    Anteprima del libro

    Re Infecta - Mauro Novellini

    padre

    UNO

    Marelli parcheggiò la macchina davanti al municipio di San Martino. Gli spazi, di domenica, erano tutti vuoti.

    Guardò di sfuggita il suo vecchio orologio da polso, quattro tacche soltanto ai bordi di un cerchio completamente bianco. Glielo aveva regalato suo padre, il giorno in cui aveva deciso di ritirarsi, in uno dei suoi ultimi sprazzi di lucidità, nell’ospizio del paese.

    Le due lancette d’argento delimitavano poco meno del quadrante in alto a destra, dunque le tre erano appena passate.

    Scendendo, volse lo sguardo un po’ miope sulla continuazione della provinciale, che inoltrandosi tra le due file di portici portava alla chiesa parrocchiale. Era una striscia assolata, tiepida, ma fuori da essa, specie per chi era appena sceso dall’auto, l’aria risultava ancora piuttosto pungente.

    La coda del corteo scompariva in quel momento dentro al portone spalancato, proprio quando l’autista del carro funebre, con professionale lentezza, si accingeva a chiudere il portellone da cui la piccola cassa era stata scaricata.

    Marelli era venuto perché c’era il funerale del bambino, su questo non nutriva alcun dubbio, ma non aveva stabilito in che misura vi avrebbe partecipato.

    Lui conosceva bene Guglielmo, il padre, anche se non ne aveva notizie recenti, ma le generalità della madre, Dolores Varzìa, cubana dell’Avana, gli erano venute in mente solo leggendo la cronaca del giornale locale. Ricordava invece il nome del bambino, Carmelo, presentatogli una volta da Guglielmo in persona.

    Lui non solo era stato testimone dell’incidente, ma si era anche piegato sul bambino quasi in contemporanea con la madre, in mezzo alla strada, ed era stato il primo a chiamare i soccorsi col suo cellulare.

    Unico testimone, avrebbe detto, se la cronaca del giornale, coincidente, salvo che per un dettaglio con quella che avrebbe fatto lui se mai ne avesse parlato con qualcuno, non gli avesse dimostrato il contrario.

    Raggiunto il punto che cercava si voltò indietro, verso il municipio, per avere l’identica prospettiva di allora.

    Rivide il bambino sulla porta della sua casa, comparso all’improvviso a non più di sei, sette metri avanti a lui, rivide le sue gambette agili correre lateralmente attraverso il portico e, sbucando oltre l’arco, puntare dritto verso la strada.

    Sì, si disse: dritto, senza il minimo ripensamento. Anzi – gli sembrò di ricordare – con il sorriso sulle labbra.

    La macchina veniva dal municipio verso la chiesa, un rombo isolato in un deserto. Non molto più veloce del bambino, all’apparenza, ma diretta con indolenza allo stesso fatale appuntamento, anch’essa senza un ripensamento.

    Infatti non c’era stata frenata, se non dopo l’urto che aveva sbalzato il corpicino qualche passo lontano, verso il centro della strada.

    Marelli si era precipitato sull’asfalto, senza neanche rendersi conto che solo per un soffio la sua traiettoria non aveva intralciato quella della madre, che correva al suo fianco.

    Sul corpo era arrivata prima lei, anzi vi era quasi caduta sopra, con un verso strozzato che non assomigliava per nulla al grido di dolore di cui aveva parlato il giornale. Incredulità, ecco cosa era uscito dalla sua gola; magari un’incredulità violenta che l’aveva squassata fin nelle viscere, ma non ancora dolore.

    Non era quello, comunque, il particolare della ricostruzione che non avrebbe sottoscritto. In fondo un cronista non è un romanziere: per lui non c’è differenza tra una voce urlata e un’altra che si deforma contro un ostacolo interno che le chiude il varco.

    Il particolare che non tornava era un altro: se la donna si era gettata fuori di casa solo dopo l’incidente, come aveva detto il giornale, perché era arrivata sul corpo prima di lui?

    Data la sua posizione, Marelli era in grado di dimostrare che non era uscita dalla stessa porta del bambino prima dell’impatto, ma non era per questo disposto a dedurne che ne fosse uscita dopo, perché in quel caso lei non avrebbe mai potuto, neanche sospinta dal terrore o dalla disperazione, percorrere più rapidamente di lui lo spazio che la divideva dal centro della strada. Anche lui si era precipitato, da una distanza certamente minore, e con in più il vantaggio di una mente meno sconvolta e, di conseguenza, di gambe molto più leggere.

    Ma se non dalla sua porta, da dove era venuta? Nella sua memoria visiva Marelli non trovava traccia di lei, se non dal momento in cui l’aveva preceduto gettando il proprio corpo, o lasciandolo cadere, su quello di suo figlio. Prima niente, come se fosse stata coperta, o nascosta. E dopo? Dopo lui era stato così catturato da quei due corpi avvinghiati, da dimenticarsi completamente dell’investitore.

    Se ne era ricordato più tardi, solo qualche secondo dopo, quando il rombo si era riacceso nel silenzio e l’auto, evitati con un largo giro il corpo a terra e i due curvati su di esso, aveva ripreso velocemente la sua corsa nella strada ancora deserta, e si era persa con una lieve sbandata nella più vicina traversa a sinistra.

    La madre non aveva neppure accennato ad alzare la testa, lui invece aveva stretto le palpebre e teso la sua vista corta fin dove aveva potuto, abbastanza da riconoscere la forma del mezzo prima che si dileguasse.

    Dalla forma era risalito alla marca – una Mercedes, una Mercedes nera di grossa cilindrata, non in stato ottimale però, dato il rantolo che quella sua improvvisa accelerazione aveva immesso nell’aria immobile – mentre della targa aveva captato solo pochissimi frammenti incerti, svaniti dopo la svolta insieme al fumo denso della marmitta.

    Gli era rimasta impressa invece la chioma del guidatore, una macchia rossastra pennellata nel nero delle lamiere e nel crepuscolo che le circondava. Un investigatore avrebbe potuto aggrapparsi a quel dettaglio; se poi l’investigatore fosse stato lui, in quella chioma avrebbe potuto leggere un nome, un cognome e un indirizzo.

    Ma lui non era l’investigatore; anzi, quando aveva visto avvicinarsi, dietro l’ambulanza, il lampeggiante dei carabinieri, si era alzato subito dall’asfalto come per sgranchirsi, e confondendosi tra la gente che cominciava ad accorrere, era sparito senza fretta nella direzione opposta all’urlo delle sirene. Una fuga imbarazzante, se il secondo fantomatico testimone l’avesse registrata nel suo racconto al giornale; ma misteriosamente, e per fortuna, non l’aveva fatto.

    La scena dell’incidente si dissolse, e d’un tratto il sole del pomeriggio tornò a dilagare sulla strada ridiventata deserta. Diede un’altra occhiata al suo orologio, dove le due lancette erano praticamente sovrapposte. Le tre e un quarto, la Messa doveva essere quasi alla predica.

    Lui però non si sentiva ancora pronto ad unirsi alla cerimonia. Entrò nel bar della Teresa, sotto i portici, proprio l’ingresso successivo a quello da cui era uscito il bambino.

    «Ciao prof» disse lei, prima di delinearsi con la sua immagine minuta nella penombra. La sua voce un po’ infantile, con gli anni, si era fatta più afona.

    Molti anni, pensò Marelli. Quando l’aveva conosciuta, dietro quel bancone, lei aveva in braccio il suo secondo figlio, nato da poco, e lui era un ragazzino delle medie che voleva imparare a giocare a biliardo. Da allora, almeno fino a quando non era andato ad abitare a Mantova dopo il matrimonio, aveva passato un quarto della sua vita in quel locale.

    «Ciao, Terry» rispose occupando, come sua abitudine, uno dei tre sgabelli messi in fila davanti al bancone.

    «Il solito?» chiese lei, tanto per attaccare discorso.

    «Sì» fece lui, laconico. Il solito, da quindici anni, era un tè bollente. Prima era stato un bianco frizzante, ma poi sua moglie l’aveva convinto che quello era la causa principale della gastrite che lo affliggeva.

    «Sono tutti al funerale - spiegò lei, accorgendosi che Marelli stava esaminando il locale vuoto – ci sarei anch’io, se non fossi condannata a vita a stare in questo posto. Carmelino qui era di casa…»

    «Brutta storia.»

    «Ah, bruttissima. Prima il marito che se ne va, piantandola da sola senza un lavoro e con un bambino piccolo da tirarsi dietro. Adesso il figlio finito in quel modo, a quattro anni…»

    «Guglielmo se n’è andato?» chiese Marelli, incredulo.

    «Un mese e mezzo fa, circa. Sicuramente meno di due mesi. Non lo sapevi? Ad ascoltare la gente che viene qui dentro, nessuno ha idea di dove sia finito».

    «Neanche Dolores?»

    «Neanche lei, sembra. E pensare che all’inizio era innamorato come uno scemo. Te ne ricorderai anche tu…»

    Marelli annuì: certo che se ne ricordava.

    «…ma dopo, chissà cosa gli è saltato in mente. Un giorno è scappato via, addirittura qualcuno dice con una donna.»

    Guglielmo Arduini con una donna? Impossibile, pensò Marelli. Rimasto orfano da ragazzo, il suo amico aveva vissuto una decina d’anni con una vecchia zia che, morendo, l’aveva lasciato solo del tutto. Non avrebbe mai fatto passare a suo figlio quello che aveva passato lui. E anche la moglie: l’aveva desiderata troppo per sbarazzarsene in quel modo.

    «Non credo - disse soltanto – sgobbava troppo come muratore per pensare ancora alle donne.»

    Mentre Teresa usciva dal bancone a prendere l’ordinazione di due clienti appena entrati, Marelli osservò il biliardo più lontano, con le lampade spente sospese nel centro, verdi come il tappeto. Aveva imparato a quel tavolo, quello dei principianti. Con lui, anche quella volta di trent’anni prima, c’era Alberto Parini, detto il Paro, il suo amico inseparabile dai capelli rossi.

    I capelli erano i suoi, si disse, bagnandosi le labbra con il tè che fumava nella tazza. Era inginocchiato sull’asfalto e aveva intravisto solo una macchia rossastra nel grigio della sera, ma avrebbe giurato che erano i suoi, come se un sesto senso gli avesse permesso una ricognizione a 360° nell’abitacolo in fuga.

    Ma era contro ogni evidenza, dovette ammetterlo. Infatti, il Paro non aveva mai avuto una Mercedes, anzi in vita sua aveva guidato soltanto utilitarie di infima categoria. Soprattutto il Paro non avrebbe mai disegnato con l’auto quel semicerchio sulla strada, attorno ai loro tre corpi, un semicerchio così perfetto da sembrare tirato con il compasso; e non avrebbe dato gas per svignarsela come un pirata qualsiasi, tanto più che, prima del bambino, il Paro aveva conosciuto molto bene suo padre. No, non poteva averlo fatto.

    Marelli lasciò sul banco i soldi senza aspettare la Teresa, quindi decise che era ora di andare in chiesa.

    Inutile arrovellarsi. Che senso aveva andare dai carabinieri e fare a mente lucida la deposizione che l’istinto gli aveva impedito di fare subito dopo l’incidente? Perché depistarli con una confessione parziale da una pista su cui solo lui avrebbe potuto metterli? Oppure, al contrario, perché confessare che il fiuto gli suggeriva una pista contraddetta da ogni logica? E perché coinvolgere il suo migliore amico in un’indagine che, se condotta seriamente, e cioè a fil di logica, a lui non sarebbe mai arrivata?

    Fuori dal bar riesaminò le lancette dell’orologio: adesso delimitavano poco più del quadrante in basso a destra. Alle 3.35, calcolò, era ancora in tempo ad assistere alla benedizione.

    Quando entrò in chiesa, l’unica grande navata, affollata come le tre cappelle laterali, era già impregnata d’incenso. Il vecchio parroco scivolava a passi brevi attorno alla piccola bara bianca, benedicendola con l’acqua dell’aspersorio.

    Nell’aria offuscata galleggiavano le note del canto finale: Io starò nella casa di Dio, lungo tutto il migrare dei giorni. Stonate, sfaldate nell’incenso e nella commozione; stavolta non sorrette, notò, dalla voce baritonale del Paro, che di solito campeggiava nel coro.

    Nel primo banco, che dalla sua posizione Marelli poteva vedere lateralmente, c’erano soltanto due donne, sedute una poco discosta dall’altra, mentre tutto il resto della chiesa era in piedi e si faceva il segno della croce. Erano della stessa etnia – lo diceva l’identica pelle ambrata - ma non della stessa età e, a giudicare dai lineamenti assolutamente privi di somiglianza, neppure dello stesso sangue.

    Apparentemente quel bambino, del resto figlio di un orfano e di una straniera, non si era lasciato alle spalle nessuna parentela. Assente anche suo padre, misteriosamente sparito nel nulla. Una delle due donne singhiozzava coprendosi il volto con una mano, ed era scossa di tanto in tanto da un tremito che la percorreva tutta; l’altra invece teneva gli occhi asciutti puntati sul feretro nudo, senza fotografie né fiori, dritta e attaccata allo schienale del banco.

    La madre era la seconda. Prima che dal profilo, Marelli la riconobbe dall’espressione vuota ed incredula, la stessa di tre giorni prima, solo un po’ ombreggiata da un sottile velo nero. Per un attimo temette di essere riconosciuto a sua volta ma, in realtà, com’era naturale, Dolores aveva occhi solo per i resti del suo Carmelo.

    Finita la Messa, la seguì con lo sguardo mentre si incamminava con fatica davanti a tutti, nel suo soprabito lungo, stretta all’altra dietro la bara trasportata a braccia da due uomini fuori dal portale.

    Marelli si ritirò di qualche passo, per non essere trascinato dalla gente che sfollando ricominciava ad allungarsi in corteo dietro il carro funebre, stavolta in direzione del cimitero.

    Fino all’ultimo sperò di incontrare le guance barbute del Paro, il suo profilo marcato da busto antico. Ma il Paro non c’era, né nel coro né altrove. Davvero strano, per lui che dal paese non era mai andato via; lui che, qualche volta, si era scordato dei pranzi e delle feste, ma mai dei funerali che riguardavano i suoi amici. I bambini dei suoi amici.

    DUE

    «Prof, come si dice arrostire

    Marelli stava guardando fuori dalla finestra della Terza B, attirato da quello che stava accadendo nel piazzale della scuola: la Gautieri e la Orlandi, due colleghe, avevano parcheggiato nello stesso momento, e si avvicinavano conversando all’ingresso del liceo scientifico. Sarebbero entrate in servizio alle nove, dedusse.

    Arrostire è un termine di seconda fascia, di quelli che a quarantaquattro anni suonati si possono dimenticare. In realtà se lo ricordò quasi subito: «Asso, assas, assavi, assatum, assare», rispose soddisfatto, anche se con apparente noncuranza, senza distogliere lo sguardo dalla conversazione che aveva indotto le due colleghe a fermarsi nel piazzale, in una luce già quasi accecante. Anche troppo accecante per l’ultima settimana di marzo.

    Fino a qualche giorno prima, a quella stessa ora, ristagnava ancora una foschia lanosa e sulfurea, che sorgeva dalla pianura insieme ai bagliori dell’alba.

    Le donne non riescono a conversare senza fermarsi, osservò, non si rassegnano all’essenza volatile delle parole.

    Ne approfittò per indossare gli occhiali da miope, che teneva sempre infilati nel taschino della giacca, e mise a fuoco le due donne, che nel frattempo si erano mosse e fermate di nuovo, avvicinandosi all’ingresso dell’istituto. La Orlandi era una giovane e graziosa insegnante di matematica, che l’ossessione per il rendimento degli alunni rendeva troppo professionale e, quindi, poco interessante. Anche in quel momento, a giudicare dagli arabeschi che le sue mani nervose disegnavano nell’aria, si stava lamentando di qualcuno che l’aveva delusa. Non ancora il marito, pensò Marelli, visto che era appena rientrata dal congedo matrimoniale. Quindi un ragazzo che non aveva fatto il compito o che era rimasto assente nel giorno, inviolabile, dell’interrogazione programmata. Deve essere così, azzardò Marelli: ai mariti le colleghe riservano una gestualità più sobria, ma anche più tagliente. Non escluse quelle sposate di recente.

    La Gautieri la ascoltava attentamente ma senza scomporsi, interloquendo solo quando era strettamente necessario, limitandosi piuttosto ad assorbire lo sfogo dell’altra con un distacco sottilmente dissimulato.

    La curiosità di Marelli era tutta per lei. Nonostante i cinquant’anni, o giù di lì, che le avevano lievemente appesantito i fianchi e le caviglie, la Gautieri conservava il fascino antico, anche se inesorabilmente in declino presso le nuove generazioni, della materia che insegnava: il francese. Old-fashioned lei stessa, con il viso quattrocentesco inciso, di fianco agli occhi, da una doppia raggiera di rughe superficiali, ma non ancora al tramonto. Una volta erano stati un po’ più che colleghi, e benché entrambi fidanzati fuori dall’ambiente, anche un po’ più che amici; ma dopo che Marelli aveva incontrato Luisa, lasciando Anna, e senza che lui gliene avesse parlato, il filo della loro complicità si era rapidamente allentato, come se la Gautieri avesse intuito che la vita del suo confidente era stata stravolta all’improvviso da un’esperienza senza ritorno. Luisa non era Anna, e lei se n’era accorta.

    Da allora aveva cominciato a diradare il suo saluto, fino a toglierglielo del tutto; e ormai da anni, nonostante la condivisione dello stesso luogo di lavoro li facesse incontrare spesso in corridoio o li affiancasse lungo le scale – appena il tempo, per la verità, che lui impiegava a sorpassarla con il suo passo più svelto – lei ne evitava lo sguardo con una calibratissima rotazione del viso.

    Marelli aveva saputo con grande ritardo che si era sposata con l’avvocato, suo fidanzato storico, e che un giorno di qualche anno dopo il marito era morto da solo e lontano da casa – in un anonimo residence della Versilia, si era vociferato – senza che nessuno fosse riuscito a carpire dietro il silenzio della vedova le misteriose circostanze di quel decesso.

    In seguito si erano incontrati casualmente al ristorante, o a teatro, lui con Luisa, nel frattempo divenuta sua moglie, e lei con il distinto accompagnatore di turno, ignorandosi come due che non si erano mai visti o, più esattamente, come due che si erano visti, eccome, ma non avevano nessuna voglia di farlo sapere.

    In quella comune reticenza, a ben vedere, sopravviveva una traccia della vecchia complicità; reticenti tra loro erano sempre stati, in un certo senso, anche quando si fermavano a parlare dappertutto, e con piacere, per raccontarsi le proprie vite, attenti entrambi a tacerne quella parte, prevedibile e noiosamente ufficiale, in cui coprotagonisti sarebbero stati i rispettivi fidanzati.

    Solo una volta, e molto di recente, gli era capitato di vederla da sola. Di quell’incontro si ricordava alla perfezione, e non solo perché la solitudine di lei era decisamente fuori dagli schemi. Mentre si incrociavano nel vasto salone d’ingresso del Cinema Sociale, la Gautieri aveva ignorato lui ma non sua moglie, che aveva anzi guardato con insistenza, come per imprimersi bene in mente le ragioni della sua indubbia superiorità. Ma era stato solo un momento di debolezza, dopo di che era tornata ad usare con lui, e con tutto ciò che lo riguardava, la consueta indifferenza.

    Quando la Gautieri e la Orlandi scomparvero nella porta a vetri del liceo, conversando ancora piuttosto vivacemente, Marelli rivolse di nuovo lo sguardo alla classe. I ragazzi erano agitati, segno che avevano finito l’esercizio di latino. Fece con loro la correzione, poi sbirciò l’orologio da polso di suo padre. La lancetta lunga stava per concludere il suo giro: sei–sette minuti alla campana, calcolò. Pochi per iniziare un nuovo argomento, troppi da concedere all’anarchia. In sei minuti l’inevitabile crescendo dei decibel avrebbe richiamato l’attenzione del preside.

    Allora prese il gesso e cominciò a scrivere sulla lavagna: «Io starò nella casa di Dio, lungo tutto il migrare dei giorni».

    «Che ne dite?» chiese, girandosi.

    «Dobbiamo tradurlo, professore?»

    «No, solo discuterne» rispose in tono rassicurante. Sapeva che gli studenti erano conversatori brillanti quando il tema era fuori dai rituali.

    «Salmo 20, o forse 22, non ricordo; – fu la prima risposta – «Il Signore è il mio pastore», ultimi versetti».

    «Re Davide?»

    «Certamente».

    Annamaria Plebani, attratta da tutto il sapere che non veniva imposto dalla scuola. Marelli le fece un rapido sorriso, per ringraziarla della consulenza.

    Micheli, un tipo sovrappeso, le indirizzò invece un «buh» bonario dal fondo dell’aula; ma subito passò dallo sfottò alla collaborazione: «Credo di averlo sentito a un funerale… sì, alla fine, quando il prete benedice la bara».

    Il suo intervento scosse l’apatia dell’ala della classe più vicina alla finestra.

    «Perché la cantano in quel momento, secondo te?»

    «È un addio, - rispose Micheli – il morto sta per andarsene».

    «La casa di Dio dev’essere l’aldilà, - aggiunse la Plebani – dove chi ci lascia resterà per sempre».

    Senza dubbio, pensò Marelli, solo che mentre l’anima resterà, i giorni continueranno a migrare. Ecco la chiave: migrare! Poetico e agghiacciante. Anzi, la chiave era il contrasto tra stare e migrare. I testi sacri vanno sempre al punto. E anche gli studenti sanno il fatto loro, purché abbiano la mente sgombra da diffidenze e paure. Perché dal Ministero non gli mandavano ogni tanto un ispettore a misurare al suo posto la loro preparazione? Lui era stanco di dare voti, anche perché nelle valutazioni era poco indulgente, contrariamente all’andazzo generale, e gli alunni lo temevano.

    Marelli tornò a guardare l’orologio: tre minuti alla campana. Voleva portare i ragazzi alla sua stessa conclusione, ma per farlo in centottanta secondi doveva coinvolgere la mente della compagnia: Gabrielli. Uno svagato che se ne stava in disparte, per insofferenza ai riflettori, ma che non si tirava indietro se nella domanda scorgeva il fascino della sfida. Marelli lo interpellò con lo sguardo, senza chiamarlo. «Se Annamaria ha ragione - chiese - alla fine del suo viaggio il morto si ritrova, per sempre, nella sua nuova casa celeste: ma che cosa vede dalla finestra?»

    Bisognava sempre usare immagini concrete: glielo avevano insegnato quasi vent’anni di dialogo coi giovani. E infatti la domanda suscitò una vera baraonda.

    «Vede il migrare dei giorni».

    «Sì, ma cosa vuol dire?»

    «Piogge, venti, maree… aria e acqua soprattutto».

    «Acqua in cielo? No, io credo che veda una rotazione di astri, e quindi albe, tramonti, luce di sole, di luna, di stelle».

    «Migrare significa spostamento, mutamento. Forse vede tutti i mutamenti del mondo».

    Marelli annuiva divertito, ma non distolse mai veramente lo sguardo da Gabrielli, che aveva elaborato la sua teoria a tempo di record.

    «Io credo che non veda niente di tutto questo» disse, in un silenzio improvviso. Alcuni per invidia finsero di non ascoltarlo, seguendo qualcosa che era apparso oltre le vetrate delle finestre; ma lui ormai era come in trance, e se ne infischiava di tutto il resto.

    «La casa di Dio per definizione dev’essere diversa da quella degli uomini; - aggiunse – i mutamenti riguardano noi, non chi ci lascia. Ed infatti la morte, che è un mutamento, un passaggio, l’ultimo dei passaggi, nell’aldilà non esiste più».

    Giusto, convenne Marelli mentalmente. La morte è un passare senza mutamento. Per Carmelo non c’erano più piogge, né venti, né luce di sole o di luna. Niente del suo, breve, universo precedente. Ammiccò a Gabrielli, che in due secondi aveva ripreso la sua espressione svagata, poi si avvicinò alla cattedra per infilare i suoi libri nella cartella.

    «Ma perché ci ha proposto questi versi?» lo incalzò Micheli, mentre nell’aria vibrava la campana del cambio d’ora.

    «Li ho sentiti ieri ad un funerale, come è capitato a te».

    «Chi è morto?»

    «Un bambino di quattro anni. In un incidente».

    Micheli rimase seduto, semicoperto dai suoi vicini di banco che cominciavano ad alzarsi.

    «Lo conosceva?»

    «Conosco bene suo padre».

    «Sarà stato distrutto…».

    «Sì - mentì – era distrutto».

    Del resto Guglielmo lo sarebbe stato sicuramente, se avesse saputo.

    All’una e un quarto Marelli approdò al pianerottolo del suo appartamento, al secondo piano del numero 4 di Vicolo Terziario; a piedi, non più di sette-otto minuti dal centro di Mantova.

    Accese la caldaia e regolò il termostato sui 18 gradi; di più, nell’habitat secco del condominio, non ne avrebbe sopportati. La sua giovinezza in provincia, con la rete dei canali e la distesa dei campi dietro casa, lo aveva abituato a interni umidi e a esterni rigidi e nebbiosi.

    Mise la pentola sul fornello grande, ed intanto tornò in soggiorno per dare un’occhiata alla sua agenda. Il martedì avrebbe avuto italiano e storia in seconda, italiano e latino in terza, che significava Ungaretti e guerra greco–gotica in una classe, Petrarca e sintassi del dativo nell’altra. Per fortuna, niente interrogazioni; e fortuna ancora maggiore, niente verifiche da correggere e da consegnare. L’incognita era la storia, che aveva il potere di farsi dimenticare da un anno all’altro. Ma non tanto incognita da impedirgli di farsi il sonnellino dopo pranzo e la passeggiata sui laghi prima di sera. Antidoti, vitali, contro la solitudine.

    Dopo avere scartabellato il libro di storia, tornò in cucina e gettò un pugno di pennette nella poca acqua non ancora evaporata dalla pentola. Poi estrasse da uno scaffale il barattolo del ragù che Luisa gli aveva preparato; ad occhio e croce sarebbe durato ancora due o tre pasti. Fatica sprecata, pensò: i piatti freddi gli avrebbero fatto risparmiare tempo e fatica. Soprattutto un cerimoniale stupido, se non c’è un cane con cui parlare. Versò alcuni cucchiai di ragù in un tegame, scolò e condì la pasta, scodellandola nel piatto.

    Era ancora in piedi quando un rumore lo attirò alla finestra della cucina: una Lancia era diretta a passo d’uomo ai garage attraverso il cortile del condominio lastricato di porfido. La macchina era quella dell’avvocato Berelli, di ritorno dall’ufficio o dal tribunale. Ne conosceva solo il nome, anche se si salutavano da più di dieci anni; di altri inquilini non sapeva neppure quello.

    Prima che l’avvocato scendesse dall’auto, si spostò dalla finestra e si sedette al tavolo. Finita la pasta, andò ad aprire il frigorifero. Tirò fuori un pezzo di grana e una bottiglia d’acqua, poi richiuse lo sportello. Mangiò il formaggio in piedi, appoggiato al ripiano della cucina, e alla fine bevve al collo della bottiglia.

    Aveva sonno. Quella notte aveva dormito poco, e quel poco era stato molto tormentato. Lui, Dolores e Carmelo sull’asfalto, sotto un cielo incolore. Il Paro, o qualcuno che gli somigliava, a tre-quattro metri, paralizzato dentro all’abitacolo. E poi Guglielmo, il padre di Carmelo, fuggito dal paese anche nel sogno ma non protetto dalla distanza, anzi con gli occhi fuori dalle orbite e con la gola gorgogliante come se l’avessero scannato.

    Dal cortile salì lo scoppiettìo di una marmitta. Marelli stava per affacciarsi di nuovo, ma stavolta resistette alla tentazione. L’auto era sicuramente quella del ragioniere che abitava sopra di lui, un uomo tarchiato e sanguigno che da più di un anno infliggeva ai condomini lo strazio della marmitta bucata, un rumore così assordante da sospendere quasi ogni forma di vita nel raggio di centocinquanta metri.

    Marelli aspettò che il ragioniere mettesse a tacere motore e marmitta, quindi lasciò la cucina e si avvicinò al telefono appoggiato alla mensola del soggiorno.

    Sulla parete, attaccati da lui col nastro adesivo, c’erano i numeri che contavano. I due di sua figlia: stanza e reception del college di Boston, dove si era trasferita all’inizio dell’anno accademico. Primo anno di corso, economia. E i quattro di sua moglie: ufficio e centralino dell’azienda a Milano, centralino della filiale di Mosca dove l’azienda la spostava il mercoledì e il giovedì; ultimo il cellulare, sia per contattarla dopo il lavoro nel suo pied-a-terre di Milano, zona Sant’Ambrogio (estremamente grazioso e funzionale, gli aveva detto, ma sprovvisto di un telefono di linea), sia per provare a raggiungerla il mercoledì e il giovedì nelle desolate campagne della Russia.

    Un labirinto di prefissi internazionali e fusi orari in cui Marelli, allergico alle telecomunicazioni, non era ancora riuscito ad orientarsi.

    Fece tre passi nel soggiorno, fino alla finestra. Il vicolo era deserto e silenzioso, investito da un mare di luce. Il muro di fronte feriva gli occhi coi riflessi dei vetri.

    Aveva sonno da vendere, ma sapeva che non avrebbe dormito. Rifece in senso inverso i tre passi nel soggiorno, si fermò di nuovo davanti al telefono.

    Già, dovette riconoscere, non era stato soltanto l’incidente a tenerlo sveglio la notte precedente. Accettato l’incarico in Russia, sua moglie aveva smesso di fare la pendolare tra Milano e Mantova. Era già faticoso senza l’intermezzo internazionale, ma adesso sarebbe stato impossibile; e lui aveva dovuto convenirne. Luisa tornava a Mantova il sabato mattina e riprendeva la strada per Milano la domenica pomeriggio. Un weekend corto, cortissimo, per schierarsi in perfetta forma il lunedì mattina ai blocchi di partenza.

    Marelli sollevò la cornetta e digitò il primo dei quattro numeri. Controllò l’orologio: alle due meno cinque sua moglie doveva essere già rientrata dalla pausa pranzo. Settantacinque minuti in tutto: sessanta per mangiare e quindici per gli spostamenti nell’enorme edificio della Silver Lake, uno dei colossi mondiali della calza. Gli spostamenti verticali dal primo al sesto piano si facevano in ascensore, mentre quelli in orizzontale si svolgevano a piedi attraverso lunghissimi corridoi illuminati anche in pieno giorno da lampade al neon. C’era

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