Grembiuli
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Anteprima del libro
Grembiuli - Marco Pedroli
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AGRITURISMO
Le origini
Una fattoria. La vite sul pergolato, il pozzo al centro dell’aia, il prato col ruscello, la staccionata e il pony al pascolo. E tutt’attorno una valle fresca e rugiadosa intervallata da boschi, laghetti e passeggiate nella natura. Insomma, il luogo ideale per indurre chiunque alla sosta e al ristoro. Ecco cosa deve aver pensato il signor Luciano Manera un giorno di quasi mezzo secolo fa. Ma procediamo con ordine.
Come altri agricoltori attivi in Italia in quegli anni, anche il Manera, tentato dai sostegni statali cominciò a considerare la possibilità di convertire in agriturismo la fattoria di famiglia, nonostante la contrarietà della moglie che gli dava del matto un giorno sì e l’altro pure.
Lassa perd Luciano, damm a trà!
Aveva un bel dire la Piera, che ormai il Manera la sua decisione l’aveva presa. In effetti non era nuovo a colpi di testa che in gioventù gli avevano fatto guadagnare l’appellativo di matòc. Senza scandagliare troppo nell’aneddotica che lo riguarda, basti pensare a quando decise di dichiararsi alla sua futura sposa. Lo fece a modo suo, attraversando la palude ghiacciata a bordo della mietitrebbia del padre.
Pierina, ti amo!
urlava il Luciano innamorato avvicinandosi alla sponda opposta.
Quando la ragazza si affacciò alla finestra fece appena in tempo a riconoscere lo spasimante prima di vederlo inabissarsi con tutto il trabiccolo. A quanto si narra, il Manera fu ripescato dopo quasi mezz’ora. E nonostante l’immersione artica, la passione amorosa ne rianimò l’ardire; tanto che, una smargiassata via l’altra, alla fine la Piera si lasciò convincere.
Il resto è storia comune, col matrimonio, la nascita di Martina di cui si dirà più avanti, la gestione della fattoria di famiglia. Fino al giorno fatidico in cui il Manera ebbe la pensata dell’agriturismo. Aveva già tutto in mente, disse. Per prima cosa partì col trattore, deciso a sventrare le stalle a colpi di benna. L’intento di ricavarne una sala ristorante con annessa cucina dovette però interrompersi sul nascere. Alla prima carica con cui intendeva abbattere una parete, a suo dire non portante, un lastrone di calcestruzzo si staccò dal soffitto demolendogli un totale di sei dita, tre per mano.
Tempo di ristabilirsi il Manera non ne aveva. Gli arti ancora ingessati, riprese il lavoro con buona pace della Piera che gli dava del bìgul ogni volta che lo sentiva avviare il trattore. In attesa dei finanziamenti, le spese per i materiali il Manera le pagò coi proventi della vendita delle vacche di cui mantenne un numero bastevole, sempre secondo le sue stime, al fabbisogno della nuova impresa.
L’opera di trasformazione dell’azienda agricola lo tenne impegnato per quasi un anno, fino al giorno dell’inaugurazione. Per l’occasione furono invitati amici e parenti. Il Manera era a dir poco raggiante, oltre che in vena di scherzi. Tanto che gli riuscì di metterne a segno uno fatale. Per divertire la compagnia chiese alla moglie in posa per la foto di indietreggiare un passo dopo l’altro, fino a farle toccare la rete elettrificata del recinto. Per lo spavento la Piera fece un salto alla forsbury mentre il Manera scoppiò a ridere come un cretino. Fino a creparne. Fu così, in un momento di ilarità funesta, che il business passò nelle mani della Piera, la quale accompagnò sempre la memoria del marito con una serie di epiteti di cui i più affettuosi rimasero bìgul e balùrt.
Dopo aver dato fondo ai risparmi per saldare i debiti residui, la vedova decise che era il momento di passare all’incasso. Reclutati un cuoco e due camerieri fra i parenti e confermato l’Umberto al governo delle bestie, si innervò al bancone del bar come un’amadriade sul suo albero. Da dietro il registratore di cassa, oltre il quale faceva a malapena capolino, vigilava su qualsiasi movimento. I clienti entrando non la notavano nemmeno, salvo trasalire puntualmente al suo inatteso cenno di benvenuto.
Camerieri
Come accennato, a servire in sala furono assoldati due nipoti. Pur avendoli sempre considerati più o meno degli inetti, la Piera, che in quel momento si trovava alle strette coi bilanci, li preferì a chiunque osasse pretendere in cambio un regolare contratto d’impiego.
Ai residenti del borgo bastò fare la conoscenza dei due rampolli per appioppargli un paio di soprannomi, come sempre azzeccatissimi: Furia e Pigiamino. Il primo, un magrolino rubizzo dall’età indefinibile, fu ribattezzato come il famoso equino televisivo per il suo modo di trottare in giro senza ragione. Non stava mai fermo. La fronte imperlata di sudore in qualsiasi stagione fremeva per servire i clienti il più velocemente possibile. Gli piombava addosso mentre erano ancora sulla soglia, smaniando per dargli il benvenuto e quasi spingendoli dentro. Anche quando nel ristorante non c’era nessuno, il che vale a dire piuttosto spesso, bastava il rumore di un’automobile in lontananza perché s’infilasse il grembiule e prendesse a sgambettare come un tarantolato, allineando i tovaglioli e risistemando di continuo tavoli e sedie che aveva appena finito di spostare. Se poi per caso una famiglia di villeggianti tedeschi si materializzava per davvero nel salone, Furia rimaneva dapprima inebetito. Un secondo dopo partiva a razzo travolgendoli. Gli infilava la sedia sotto il sedere consigliando le specialità del giorno prima ancora di aver portato in tavola il menu.
Was ist kallina?
gli domandavano i teutoni.
«Gallina! Coccodè!» rispondeva lui sfarfallando di gomiti e mimando l’andatura del pollo.
All’inizio non aveva voluto servirsi di un taccuino sostenendo di avere una memoria di ferro.
Tranquilla, ho tutto qui!
esclamava picchiettandosi la tempia con la punta dell’indice a rassicurare la zia. Gesto su cui anche la Piera concordava, seppure attribuendovi un significato leggermente diverso.
Le lamentele di chi avendo ordinato una costata si vedeva recapitare uno stracchino o una fetta di torta