La leggenda di Tredita
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Artesio è stato una meteora nel panorama artistico italiano. Definirlo artista è riduttivo, visto quello che faceva e, soprattutto, quello che riusciva a far provare. Lui vedeva la musica, sentiva i colori. Ciò che è riuscito a fare non ha precedenti e nemmeno seguito, per ora.
Questa è la leggenda di Tredita, scritta come meglio ho ritenuto, ma probabilmente non la parte migliore della sua vita. Quella è andata perduta in giro per il mondo, nel suo girovagare alla ricerca delle emozioni di cui era stato privato, ma che, ne sono convinto, è riuscito a sentire.
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Anteprima del libro
La leggenda di Tredita - Cristian Martini
Contemporanea
Cristian Martini
LA LEGGENDA DI TREDITA
© La Memoria del Mondo Libreria Editrice
Via Garibaldi, 51 – Magenta (MI)
www.lamemoriadelmondo.it
edizioni@memoriadelmondo.it
Redazione: Alice Gualandris
ISBN 9788899933050
Tutti i diritti sono riservati
Cristian Martini
La leggenda di Tredita
Prologo
Sentii parlare di lui per la prima volta durante un viaggio in America, quando tra mille peripezie riuscii ad attraversare il confine colombiano e a raggiungere finalmente la più sicura Panama.
Casualmente rimasi bloccato a Puerto Obaldia, il primo centro abitato panamense che si incontra sulla rotta. Non avevo i documenti necessari per proseguire il cammino e dovetti attendere qualche giorno per riceverli dalla capitale.
Puerto Obaldia è un villaggio di pescatori nella parte finale del Darién Gap, un tratto di giungla dove Panama ha proibito la costruzione di strade per ostacolare i narcotrafficanti, i quali vi si sono comunque insediati e usano sentieri non segnalati per i loro commerci.
Andarsene è possibile solo via mare o con un piccolo aereo che, rischiando tra le montagne, atterra e decolla una volta alla settimana.
La zona è considerata calda
per il traffico di droga e avamposti militari cercano di limitare ogni commercio illecito. Oltre che dai narcotrafficanti, la giungla è abitata dalle popolazioni Kuna, bellissimi indigeni che vivono ancora in stretto contatto con la natura.
Non avrei potuto spostarmi dal villaggio in quanto ero stato dichiarato clandestino e il comandante dei militari mi aveva fatto la cortesia di non mettermi sotto sorveglianza perché non risultavo pericoloso. In più, andarsene a spasso per la giungla era tra le cose più rischiose e stupide che si potessero fare e questo, secondo loro, avrebbe dovuto essere un deterrente. I narcotrafficanti erano avvezzi a sequestri di persona che nella maggior parte dei casi finivano con la morte del malcapitato. Ma la noia e l’incoscienza mi portarono un giorno a ingannare i militari e a intraprendere un lungo cammino fino a giungere a un villaggio Kuna, dove il primo abitante che mi vide, mi portò dal vecchio capo tribù che parlava qualche parola di spagnolo. Quando seppe che ero italiano aprì la bocca in un sorriso sdentato e dopo avermi dato una pacca sulla spalla mi fece un gesto che inizialmente credetti un saluto locale.
Alzò la mano ritraendo indice e medio.
«Tredita era italiano» mi disse.
Passai tutta la giornata al villaggio, incuriosito da questo strano personaggio che loro chiamavano Tredita e che, a loro dire, dopo anni di vagabondaggio, aveva scelto di vivere in un posto per me così sperduto.
Mi mostrarono la sua capanna, un luogo spartano su una piccola collina disseminata di palme, da cui sottrassi una foto senza farmi vedere.
Mi condussero alla bellissima spiaggia dove era sepolto e, seduto in riva al mare, mi parlarono di quanto fosse strano quel ragazzo. «Strano, ma felice» dicevano.
Tredita era morto di malaria a circa venticinque anni.
Probabilmente avrebbe potuto vivere più a lungo e in modo sicuramente più agiato.
Ma avrebbe sentito le stesse emozioni?
Mi ripromisi che una volta tornato in Italia avrei condotto delle ricerche, proprio partendo da una foto in bianco e nero.
La leggenda di Tredita
Il pianoforte lo avevano trovato già in casa. Il vecchio proprietario si era trasferito lasciando alla famiglia Perti l’onere di sbarazzarsene. Ma i novelli sposi avevano deciso di sistemarlo e tenerlo esclusivamente come pezzo d’arredamento, poiché nessuno dei due sapeva suonarlo. La casa in cui si erano trasferiti era grande ed effettivamente lo strumento, oltre a non intralciare, si intonava alle travi a vista della cascina alle porte di Parma e creava un’atmosfera sofisticata.
Le tempere erano della signora Luisa Perti: un hobby iniziato in tarda età l’aveva portata a dotarsi di tutti gli attrezzi necessari per dipingere. Aveva dedicato la grande stanza del pianoforte a questa sua passione momentanea, passione autoimposta per seguire la corrente delle sue amiche altolocate che, nei salotti bene in quel di Parma, vantavano doti inverosimili di canto, scrittura, scultura. Tutte a lezione da grandi maestri per affinare capacità quasi inesistenti, non vedevano l’ora di riunirsi a casa di una o dell’altra per sfoggiare i loro ultimi apprendimenti. Era chiarissimo a ognuna di loro che tutto era fatto per darsi un tono, per apparire: non c’era la benché minima passione in quello che facevano. Era un mentirsi reciproco e per questo accettato. D’altra parte le signore si annoiavano mentre i mariti guadagnavano soldi e quello sembrava loro un intrattenimento di classe.
I coniugi Perti provenivano da povere famiglie meridionali che avevano abbandonato in giovane età con l’obiettivo di elevare la condizione sociale in cui si sentivano costretti.
Incredibilmente, Mario Perti era stato assunto presso una filiale della Banca di Parma. Risultato simpatico al direttore, era stato introdotto nell’ambiente ricco