Gaeta. Memoria e Futuro
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Anteprima del libro
Gaeta. Memoria e Futuro - Giuseppe Napolitano
Ringraziamenti
Chiedi alle pietre
Gaeta è come se – conoscendola da sempre – non dovessi aver bisogno di interrogarla per sapere… eppure (come capita appunto con certe persone che conosci da sempre e non finisci di scoprirne aspetti nascosti del carattere) ho la sensazione che mi sfugga, e ogni volta che mi faccio un giro nella sua storia o fra la sua gente, ogni volta mi manca un pezzetto che credevo di avere o trovo un pezzetto che non cercavo più e insomma il puzzle rimane irrisolto, forse irrisolvibile.
Eppure mi viene voglia, di tanto in tanto, di farmi un bagno di storia o di gente, cercando di scoprire cosa c’è dietro, cosa rimane di una storia tanto ricca, densa di eventi, e di sapori e di umori… cercando di capire anche perché a volte quella gente sembra lontana da quella storia, da quei sapori.
Una città che, nel corso di un millennio, subisce 18 assedi (uno ogni 50 anni, più o meno!) finisce per sapere anche come resistere ai corteggiatori, agli ammiratori, anche a coloro che vorrebbero semplicemente volerle bene: non si fida, non si fida più, se da tante parti ha subito lo scorno del tradimento. Viandanti e naviganti, religiosi e militari, esiliati e condannati: Gaeta ne ha sempre ospitati, come pure ha ospitato artisti di ogni genere, assorbendone la presenza benevola come una spugna… dopo, basta strizzare un po’, conservando di quelle presenze le tracce appena, preziose magari, con l’aria di chi tanto ne ha già assorbite tante, e si riprende la vita di ogni giorno, come sempre.
Le pietre parlano più della gente, ormai, assuefatta ad una inerzia senza tempo, contenta di stare bene oggi e domani poi chissà. È alle pietre che bisogna chiedere chi era, chi è Gaeta: ho sempre guardato a loro in cerca dei segni lasciati dal tempo, ascoltando le voci in esse custodite. E le pietre hanno voglia di raccontarmi un’altra volta… e una volta ancora la storia si srotola fra i monumenti che l’hanno costruita, e parlano anch’essi degli uomini che li hanno vissuti. Ma chi se ne accorge?
Quasi irriconoscibili, i resti del palazzo del re Ladislao addossati alla chiesa di Santa Lucia; più in basso, nelle adiacenze del Duomo, quel che resta del vasto palazzo dell’ipata Docibile buttato giù nell’ultima guerra mondiale è stato in qualche modo sistemato (non felicemente, mi pare); grida al tempo sul lungomare il fantasma della chiesa di San Biagio, nei pressi della base americana, e poco dopo, oltrepassate la porta di Carlo V e la porta di Carlo III, si esce dalla fortezza che non c’è più e si arriva nella civiltà dei consumi: la moderna e attrezzatissima base nautica per i signori della nostra società, il nuovo palazzo comunale in stile inglese (una simpatica sudditanza psicologica, non certo politica).
Più che una domanda retorica, comincia quasi ad essere un disperante grido di impotenza: perché è diventato così difficile far comprendere (agli studenti, ai giovani, un po’ a tutti) l’importanza la bellezza il senso della storia? Sarà che a me – per fortuna, per merito, capacità, desiderio di genitori sensibili entrambi alla lezione del passato (forse per aver vissuto come avevano vissuto, compresa una guerra) – sarà che a me è stato inculcato, trasmesso geneticamente il valore pedagogico degli eventi storici, ma ho sempre curiosato volentieri nei libri scolastici e nelle enciclopedie, e nei musei, negli scavi archeologici, ovunque ci fossero da scoprire frammenti di vita nel grande puzzle dell’umanità, del quale ho subito sentito di essere parte. La prima volta che ricordo di aver preso il treno, mi portarono a Pompei (agli scavi), e la prima visita al Museo Nazionale di Napoli – a 12 anni, con mio padre – è tra le memorie più vive.
Giocavo con mio fratello, ragazzini a rincorrerci fra i ruderi borbonici della Carolina sul Monte Orlando, e sentivamo ogni tanto cavalli agitarsi nelle scuderie, temendo a volte il grido rabbioso di qualche sentinella dietro quelle pietre sconnesse: chi va là?
…
Un nome, le storie
Scrivere di Gaeta – è inevitabile – finisce per diventare un libro che parla di libri, un libro fatto di altri libri: sterminata è la bibliografia reperibile, almeno sulla carta (Non tutte le pubblicazioni dedicate a Gaeta negli ultimi tre secoli si possono facilmente consultare, ma sono comunque tante, tantissime quelle a cui si può chiedere aiuto per soddisfare una curiosità, per cercare un’informazione o soltanto per avere un’idea di come fosse la città prima di come la si vede oggi). Già nel 1937, Angelo De Santis – nel suo Saggio di una bibliografia della provincia di Littoria – censiva almeno un migliaio di titoli, fra libri e articoli, su Gaeta e il suo Borgo.
Questo Gaeta. Memoria e futuro è inevitabilmente debitore del mio Gaeta. Ieri e oggi, ma non ne è la continuazione: non mi piacciono i sequel (anche se devo ringraziare la disponibilità di un lungimirante assessore alla cultura per aver ristampato, opportunamente aggiornato, quel mio lavoro storico-fotografico, da anni esaurito).
Quando, nell’autunno del ’97, l’editore Alges (Nino Dell’Ova) mi chiese di preparare una guida di Gaeta, pensavamo proprio ad una guida come quelle del Touring, di carattere descrittivo e informativo. Cominciai pure a buttar giù abbozzi e schemi – poi ci venne l’idea delle foto messe a confronto (grazie ai preziosi suggerimenti di Cosmo Buonanno, collezionista di cartoline e documenti d’epoca, autore egli stesso di volumi fotografici su Gaeta e la sua storia) e venne fuori tutto un altro libro. Un libro che volutamente nasceva da altri libri, dai numerosi che potetti consultare, che avevo a casa, che già conoscevo; oltre che, naturalmente, dalle risposte che mi diedero le pietre, nuovamente interrogate. Me ne andavo in giro con una cartolina di 50-70 anni prima e cercavo nei luoghi di oggi l’immagine perduta – era difficile (tra edifici abbattuti e tante nuove costruzioni) stabilire un rapporto di spazi equivalenti –, e il più delle volte mi capitava di preferire ieri a oggi: in qualche caso mi venne da ritenere senz’altro negativo aver rimosso certe pietre.
Un peccato davvero la scomparsa di così vaste sezioni della cinta muraria voluta da Carlo V nel primo Cinquecento! e almeno una delle batterie a mare, non si poteva tenerla come esempio di quel che era stata la piazzaforte di Gaeta? La mia visione di profano lettore del passato può darsi che veda con occhi appannati e poco attenti