Un Natale sbagliato
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Anteprima del libro
Un Natale sbagliato - Tommaso Picasso
Picasso
25 dicembre 1929
L’abitudine di alzarmi presto la devo a mia madre, che ci obbligava a fare colazione all'alba prima che lei, com’è costume in una città di mare, uscisse per recarsi al mercato orientale a scegliere il pesce più fresco. Da quando mi sono trasferito da Genova nella Capitale, però, non ho potuto fare a meno di assorbire lo stile del prendersela comoda
. Essere mattiniero a Roma è controproducente.
Lavoro per un quotidiano, occupandomi – non per scelta, sia chiaro – di spettacoli di seconda categoria. Già dall’inizio non ho tardato a capire che se arrivavo in redazione prima degli altri finivo per suscitare diffidenza e malcelate antipatie. Sembrava che volessi mettermi in evidenza o che avessi qualcosa da dimostrare. La mattina, perciò, mi trovo spesso a ciondolare per la mia modesta stanza da scapolo, attardandomi nel rituale della rasatura e della scelta della cravatta da abbinare all’abito. Ho imparato ad arrivare al giornale dopo i redattori di cronaca e prima del capo-redattore, in quell'orario in cui tutto è già avvenuto ma deve ancora iniziare.
La festa del 25 dicembre si era imposta con categorica fermezza, preannunciata da un tripudio di celebrazioni. Era il primo Natale da quando Mussolini aveva siglato la pace tra la Chiesa e il Regno d'Italia col Patto al Laterano.
In redazione girava un foglio con l'elenco dei titoli e sinonimi onorifici con cui si doveva indicare il capo del Fascismo e adesso era stato aggiunto anche quello di Uomo della Provvidenza
per aver permesso all'Italia di dirsi cristiana cattolica romana alla luce del sole. I titoli degli articoli dovevano suggerire la ritrovata concordia e istillare una fiducia nel futuro densa di afflato spirituale, nonostante le nascoste preoccupazioni per l’improvvisa crisi dell'economia mondiale e le conseguenze che essa provocherà.
Nella mia camera in affitto, mentre con lentezza infilavo i gemelli nella camicia scelta dopo lunghe valutazioni, indugiavo nel pensiero di Natali lontani. Ero infastidito dall'idea stessa di essere a Roma, o almeno di esserci nelle condizioni in cui la vivevo, né carne né pesce. Stavo per caricare con il poco caffè rimasto la cuccumella regalatami da un amico napoletano, ma poi ho rinunciato, spinto dal bisogno di uscire; speravo che l’aria frizzante mi spazzasse di dosso la malinconia che la festa mi provocava. Era una bella giornata di fine anno, di quelle che Roma dipinge con luce e aria tutte sue. Per fortuna non si era ripetuto, almeno fino a quel momento, il gelido terribile inverno precedente con tanto di nevicata del secolo
, come i miei colleghi l’avevano definita.
Dal finestrino appannato del tram vedevo la città addobbata con una solennità posticcia, fatta di cartelloni con reclame e manifesti inneggianti ad un’armonia generalizzata. Giravano pochi soldi, è vero, ma la gente era tutta per strada, già solo felice di esserci e non pensare. Non volevo mescolarmi alla folla e mi sono intestardito a cercare un caffè che fosse, oltre che aperto, poco frequentato. Non è stato facile, ma ci sono riuscito non lontano dal Pantheon: seduto a un tavolino dietro a una vetrina mi godevo il sole che giovava al mio corpo e al mio umore. Mi rigiravo tra le mani la copia del Messaggero dove sapevo era stata pubblicata la mia ultima recensione; alla fine mi sono deciso a darle un'occhiata constatando che, come temevo, me l’avevano infarcita di errori.
Il locale cominciava a riempirsi e così ho deciso di affrontare di nuovo il freddo, facendo una passeggiata per attendere l’ora di pranzo. Attirato dal cartello appeso fuori Santa Maria sopra Minerva sono entrato a vedere un presepio, uno dei tanti che le chiese della Capitale fanno a gara per allestire. Quella serenità della Sacra Famiglia mi ha sempre colpito, e quel giorno quasi mi feriva. Era la nostalgia del tempo perfetto dell'infanzia, quando anch’io preparavo il presepio aiutato da genitori e parenti. Da quando ero diventato grande e avevo visto da vicino la morte in guerra, ogni anno mi chiedevo se quello sarebbe stato il Natale giusto per tornare a sentirmi bambino.
Ripresa la mia passeggiata mi sono diretto verso Piazza del Popolo quando, ad un certo punto, mi sono stancato di bighellonare e mi è venuto in mente che sarei potuto andare in redazione. Anche se farlo la mattina di Natale rappresentava una sconfitta. Sapevo che vi avrei incontrato almeno Saverio Pasquali, il divinatore della cronaca romana, e che di certo mi avrebbe invitato a pranzo. A prezzo di doverlo ascoltare per un paio d'ore senza interruzioni. Se mi andava bene, ci sarebbe stato anche Giacomo Martani, il vice-redattore capo, con lui sì che l'atmosfera si sarebbe ammorbidita. I due vecchi giornalisti erano entrambi senza famiglia, il primo scapolo per vocazione e il secondo vedovo senza figli. Non trovando di meglio da fare, ho deviato per via del Tritone per poi salire le scale di quello che una volta era un albergo di lusso e che da qualche anno rappresentava la mia seconda casa. O la prima, se consideriamo le ore passate alla scrivania.
Vedendomi sopraggiungere anche in quella giornata speciale, il custode mi ha accolto sull'ingresso con sguardo