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Rosa ma non di maggio
Rosa ma non di maggio
Rosa ma non di maggio
E-book236 pagine3 ore

Rosa ma non di maggio

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Info su questo ebook

Anno 1929. Rosa, operaia in una tessitura, cede alle ragioni della famiglia e anziché seguire il suo amore, Peppo, sposa Luigi, un muratore in procinto di emigrare in Francia.

Sei mesi dopo il matrimonio, Luigi la vuole accanto a sé e Rosa lascia il piccolo paese sulle rive del Lago Maggiore per raggiungerlo, a Charleville. La convivenza con Luigi e altri due muratori: Giovanni, suo fratello e Silvano, genovese, con i quali condivide l'alloggio, appare da subito difficile. Tra i due non scatta l'amore. Luigi accetta un lavoro in Belgio dove si trasferirà col fratello Giovanni, lasciando Rosa al suo destino, come fosse una estranea. Inizia così la nuova vita di Rosa aiutata e sostenuta dalla vicinanza di Yvette, padrona di casa e del notaio Rossignol che ha lo studio nello stesso edificio, ma sarà Silvano, il muratore rimasto ad abitare con lei, a risvegliarle la bellezza dell'amore.

La guerra sta per scoppiare e Silvano deve ritornare a Genova. Rosa aspetta un figlio da lui, ma non glielo dirà. Nascerà Carlo che morirà di difterite a cinque anni. Forte del ricordo dei sui grandi amori e della sua tragedia, si risolleverà, con rabbia e determinazione. Diventerà una semplice ed umile ricca signora, aiuterà altri emigranti italiani fondando una cooperativa edile e dando loro lavoro e benessere, ma le strade della vita sono imprevedibili e Rosa dovrà percorrerle tutte, sino all'ultima, che si svelerà come la più accidentata, quella che, spera, la porti dal suo primo amore: Peppo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2021
ISBN9791220314374
Rosa ma non di maggio

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    Anteprima del libro

    Rosa ma non di maggio - Giancarlo Buzzi

    (W.Shakespeare)

    1

    Serenità! Era questa l'atmosfera che si percepiva il lunedì mattino sotto l'arrugginita pensilina della stazione e poi risa, racconti di domeniche passate tra funzioni in chiesa, gita al lago e sguardi ammiccanti di giovanotti in cerca di dolce compagnia. Era il giorno del ritorno in fabbrica delle ragazze provenienti dai piccoli paesi limitrofi che si trovavano al marciapiede due ad aspettare il primo treno delle 5:45. Tornavano al grande stabilimento di filatura e tessitura e vi restavano sino a mezzogiorno del sabato, quando, riscossa la paga, raccoglievano il fagotto con i panni sporchi e facevano ritorno ai loro paesi provate dalla fatica.

    Non conoscevano albe, non contemplavano tramonti, ma in tutte, c'era l'orgoglio di avere un lavoro.

    La loro giornata iniziava al buio e terminava al buio e nei due mesi estivi subivano il supplizio del caldo che unito a quello emanato dal funzionamento dei telai, rendevano l'aria irrespirabile. Qualcuna sveniva, allora i capi reparto la portavano all'esterno, all'ombra di grossi alberi di tiglio finché non si riprendeva.

    Non c'era ristoro neppure nelle grandi camerate dormitorio, ma almeno lì i finestroni del sottotetto venivano aperti, dando l'illusione che entrasse l'aria più fresca della notte. Caldo o non caldo, le loro mani erano sempre in movimento per caricare spole, raccogliere la tela o annodare il filo che si spezzava.

    La giovinezza sorrideva loro, nonostante le poche cose che avevano, come il paio di zoccoli di legno che segnavano il ritmo di ogni passo. Erano sempre gli stessi a modello unico, di quelli a due patte chiuse sul davanti con stringhe che si allargavano o stringevano a secondo delle calze che indossavano, perché le calze variavano con la stagione e quelle invernali erano le più spesse, di pura lana grezza filata in casa, ruvida sulla pelle, ma incredibilmente calda ed impermeabile. L'unico paio di scarpe, si metteva nelle grandi solennità o per eventi speciali: funerali o matrimoni.

    Nei loro sogni c'era una famiglia, un marito fedele e dei figli, tanti figli e per ognuno ci sarebbe stato un letto caldo, del pane e la semplicità nelle cose di ogni giorno.

    L'allegro mormorio si spegneva all'udire il fischio del treno che annunciava il suo imminente arrivo in stazione.

    «Sta arrivando il ciuff ciuff!» - gridava qualcuna e gli sguardi di tutti si volgevano alla destra in attesa di vedere il fumo della locomotiva, poi, raccoglievano il fagotto della biancheria pulita posato a terra, pronte per salire.

    «Chissà che numero avrà?» - rispondeva qualcun altra.

    «Speriamo il 7305, è la più veloce!» - commentavano altre.

    Un secondo prolungato fischio era la sveglia che il macchinista regalava ai passeggeri al suo ingresso in stazione,

    «Ciao bionda!» - gridava il carbonaio alla prima che vedeva.

    «Lavati la faccia che è più nera del carbone!» - era la risposta di lei mentre si accalcava per salire.

    Le porte delle carrozze si aprivano tutte in corrispondenza dei sedili su cui sedevano già altri passeggeri saliti nelle stazioni precedenti e si doveva passare tra le loro gambe. La cosa piaceva molto ai giovanotti, che si posizionavano dalla parte giusta per poterle sfiorare e poi contavano chi ne aveva toccate di più.

    Un nuovo fischio ed il treno era pronto per partire e tutto cambiava nuovamente: niente grida festose nelle carrozze, qualcuno accennava a dormire, altri parlavano sottovoce. Tutto il pensiero era proiettato alla fabbrica, al lavoro e alla paga che avrebbero ricevuto, che non le ripagava della loro fatica, ma era una manna caduta dal cielo.

    2

    Quel mattino non portavo il fagotto della biancheria pulita. Le mie mani erano libere e la mia mente altrove. Avevo fatto la strada a piedi, di fretta, come ogni lunedì, per arrivare in tempo per salutarle tutte. Si accorsero subito del mio stato: camminavo, ma non vedevo, era l'abitudine che mi guidava sino in testa al binario, dove solitamente si fermava la prima carrozza e dove le avrei trovate in gruppo. Si strinsero attorno, senza parlare, con solo un sorriso, per abbracciarmi a turno dimostrando in questa maniera la loro vicinanza.

    Rimasi finché tutte salirono in carrozza. Udii il fischio del capostazione, venni avvolta dal fumo della grossa caldaia nera e quando si dissolse feci in tempo a vedere le loro mani sporgere dal finestrino che sventolavano un fazzoletto, poi una nuova vampata di fumo denso cancellò ogni cosa.

    Addio, compagne di sempre! Come potrei dimenticare chi ha sofferto per me e con me. In qualsiasi parte della terra il destino mi condurrà, ricorderò sempre i vostri volti.

    Tornai verso casa affranta. Erano due chilometri e sembrò che fossero interminabili. Titta e mamma Ernesta mi aspettavano. Loro non capivano e non potevo pretendere che si sforzassero di capire, ma non mi importava dei loro pensieri. Le avevo giudicate entrambe perfide, Titta in particolare, proprio lei, che avevo tenuto in braccio ancora in fasce mentre mamma e papà curavano le bestie. Titta, a cui avevo insegnato a leggere e scrivere, come poteva essere diventata così cattiva? Mi pentivo di questo continuo pensiero che aumentava il risentimento nei loro confronti e mi auguravo che il tempo mi desse torto, tuttavia per il rispetto che si deve ad una madre, scelsi l'obbedienza, una qualità che col mio carattere schietto e strafottente non mi apparteneva.

    Due giorni più tardi avrei preso anch'io il treno per andare molto lontano, in Francia da mio marito Luigi Bruschi che avevo sposato sei mesi prima e che il mattino dopo il giorno delle nozze, era partito per unirsi alla squadra di muratori che avrebbero costruito una serie di case al confine con il Belgio.

    Sposa per un giorno, perché i miei avevano deciso così.

    Zia Angelica, che aveva combinato l'incontro, lo descriveva come unico: un bravo uomo, onesto, lavoratore e senza le pezze sul culo per sottintendere che economicamente se la cavava bene. Abitava nel paese confinante col nostro e tutta la sua famiglia era conosciuta per la generosità di bravi cristiani. Non avrei potuto desiderare un partito migliore, diceva, ed in Francia, con lui al mio fianco, avremmo fatto fortuna. Non ero convinta di tanto entusiasmo e dopo averlo incontrato solo tre volte durante il breve fidanzamento ed aver vissuto con lui poche ore dopo averlo sposato, a malapena ricordavo il timbro della sua voce.

    Mamma Ernesta, che si arrogava il diritto di prendere decisioni per tutta la famiglia, considerato che erano passati sei mesi dal matrimonio e non c'era pericolo che fossi rimasta incinta - casomai la prima notte risultasse fruttuosa, ignara del fatto che non vi fu la prima notte che lei immaginava - sentenziò che era giusto che mi ricongiungessi con mio marito per via dell'evangelica frase: è la moglie che deve seguire il marito. Tra l'altro, nell'ultima lettera che avevo ricevuto, c'era anche un biglietto da cento franchi per le spese di viaggio. Non c'era altra soluzione, tutta la famiglia era d'accordo e persino il Parroco Don Giuseppe si scomodò a venire a casa per richiamare i miei doveri di moglie. Gli regalarono un pollo.

    Il mio cuore non era al confine col Belgio, ma a pochi metri da casa, nella piccola casa dipinta a calce bianca in fondo al prato grande e a pochi passi dal lago: la casa di Peppo.

    Non lo avevo più incontrato dalla settimana prima delle nozze e non ebbi modo di parlargli. Sapevo che mi osservava di nascosto ed io non mi sottraevo. Passavo di fianco la casa, e se vedevo la finestrella aperta, fingevo di tossire perché mi sentisse, poi raggiungevo la riva del lago, nel posto dei nostri appuntamenti, ma niente, lui si negava.

    Non mi rassegnavo. Volevo sapere cosa c'era scritto sulla lettera che mi aveva inviato e che Titta mi aveva strappato di mano prima che potessi leggerla, lasciandomi solo un brandello con l'inizio: Mia cara piccina. Fu quella lettera la causa scatenante di quello che successe dopo: mamma Ernesta decise che avevo diciannove anni ed era ora di sposarmi e zia Angelica, mia madrina di battesimo, mi avrebbe trovato un buon marito. A nulla valsero i miei pianti, le mie grida e la richiesta continua di poter leggere quella lettera, ma non ci furono santi.

    Peppo non sapeva di queste macchinazioni, non sapeva che da giorni Titta mi seguiva di nascosto, complice di mamma Ernesta, per spiare le nostre mosse e non sapeva che Titta ci aveva visti baciarci in riva al lago, eppure, se solo avesse accettato di ascoltarmi anziché scappare da me arrabbiato come un cane, forse avremmo ancora avuto una speranza.

    Ma alla fine dovetti piegarmi alla ragione della famiglia, non a quella del mio cuore.

    3

    La luce del giorno tardava ad arrivare. Le nubi che nella notte avevano portato la pioggia, si stavano ritirando lentamente ed una striscia luminosa ad est, a tratti tinta di rosa, presagiva la nascita del sole che di lì a poco si sarebbe fatto strada con i suoi raggi luminosi. Sembrava un cielo d'artista, ma una sola pennellata di luce non bastava a schiarire il buio ancora predominante del mattino. Ero come incantata a guardarlo mentre, incrociando le braccia, stringevo lo scialle nero sulle spalle in cerca di più calore. Avevo visto albe migliori, ancora più colorate, ma questa mi sarebbe rimasta impressa per sempre.

    Era l'alba dell'addio nel freddo marzo del 1929.

    C'era ancora qualcosa che volevo ricordare prima dell’arrivo di Vanni col calesse: lo splendido golfo che andava dal monte detto dei pioppi sino alla collina dei castagni, il tratto di lago che più amavo, dove avevo trascorso gran parte della mia gioventù. Scappai, non vista, attraverso il sentiero del prato grande rischiando più volte di cadere per via di fossi fangosi in cui era facile inciampare e rimasi incantata nel vedere quell'incredibile panorama.

    La catena delle Prealpi che faceva da sfondo, era innevata abbondantemente e la nebbia saliva lentamente dall’acqua ad ovattare il paesaggio. Mi piaceva guardarla mentre diventava sempre più fitta, farmi avvolgere completamente ed immaginare di sentire nuovamente la melodia struggente suonata dall'armonica a bocca di un barcaiolo e vedere da lontano la sua sagoma ancora non definita svelarsi mano a mano che la barca si avvicinava alla riva.

    Respirai profondamente quell'aria dal profumo dolciastro che amavo e diventava più intenso quando la bella stagione avanzava ed il caldo riscaldava la superficie dell'acqua, ma era dopo un temporale estivo che, mischiandosi all'odore dei sassi bagnati dalla pioggia, raggiungeva il culmine sino a togliere il respiro.

    Fissai le onde basse, che si frangevano sulla riva con un ritmo costante ed ascoltai il loro lieve rumore causato dal risucchio della sabbia e dei piccoli sassolini di selce marrone. Ne raccolsi alcuni e li misi nella tasca del vestito appena stirato, il migliore che avessi e che avrei indossato per il lungo viaggio.

    Attorno, le canne lacustri iniziavano a spuntare e sovrastare quelle vecchie, rinsecchite, spezzate dai venti e dalla copiosa nevicata di dicembre. Mi piaceva guardare il canneto a due colori a tratti così fitto, impenetrabile e disordinato, un groviglio di fili secchi e vecchi e tuttavia disponibili a lasciare il posto ai nuovi germogli e paragonai quella visione alla mia mente, aggrovigliata, disordinata, ma penetrabile, disponibile a cose nuove per cui valesse la pena di crescere ed elevarsi.

    Chissà se altri gioivano per questi particolari che a me apparivano pieni di poesia oppure, se immersi nella preoccupazione del giorno, passavano senza farci caso, pensando solo ai fatti propri, ignari della meraviglia che li circondava.

    Peppo! Lui sì che apprezzava. Lui sapeva vedere il bello anche dove altri non vedevano che marciume e cose inutili, ma lui era un musicista, un artista, un animo sensibile, non pascolava le mucche, non faticava da mattino a sera per campi e prati. Lui suonava la fisarmonica ai matrimoni o alle feste di paese e viveva di quello. Una vita troppo precaria, che non dava alcuna sicurezza ed era proprio di sicurezza di cui, in fondo, sentivo il bisogno. Non si poteva vivere di soli sogni e di passione. Era appena terminata la grande guerra e già se ne prospettava una nuova, occorreva difendersi e non farsi trovare impreparati, per questo alla fine mi lasciai convincere e accettai la decisione della famiglia di sposare Luigi. Mi pentii subito, ma speravo che un giorno l'avrei anche amato. Di certo per ora c'era solo un posto nel mio cuore per l' unico vero grande amore: Peppo.

    In riva al lago, alla piccola spiaggia nascosta tra due canneti, il posto dei nostri appuntamenti segreti, non c'era. Speravo che il barcaiolo, immaginato poco prima, in realtà fosse lui che improvvisamente apparisse dalla nebbia indossando la giacca marrone, l'unica che possedeva, suonando l'armonica a bocca, ma più di tutto speravo con tutto il mio ardore di sentire - forse per l’ultima volta - le sue labbra unirsi per un ultimo proibito bacio. Ma non successe.

    Mi restava ancora una possibilità per poterlo rivedere: il calesse passava poco distante dalla sua abitazione e sperai ardentemente che sul ciglio fermasse Ginin per salire e sedersi accanto, abbracciarmi ed insieme percorrere il tratto di strada sino al porto. Una vana speranza?

    Udii improvvisa la voce acuta di mamma Ernesta che mi chiamava a squarciagola e la realtà soffocò ogni fantasia. Girai su me stessa per un’ultima visione d’insieme e presi di corsa il sentiero verso casa, ma c'era ancora una cosa che volevo fare prima di attraversare il prato grande: guardare il mio quadro. Non era una tela d'artista o meglio, era la tela di un grande artista, quello che aveva creato tutto. Stesi lo scialle sull'erba umida della morena e mi sdraiai pancia in giù, come al solito. I colori non erano gli stessi del pieno giorno, ma ugualmente affascinanti.

    Ecco, era il punto giusto! La tela era divisa esattamente a metà: la parte sopra: il cielo grigio con pennellate di rosa, la parte sotto: il verde del prato con solo piccoli ranuncoli che iniziavano a fiorire. Restavo ore incantata mentre pascolavo le mucche a contemplare questo quadro, che mutava a seconda del vento e portava nuove nuvole di strane forme o uccelli in volo e talvolta entravano anche le due mucche ad arricchirlo, mentre l'erba si piegava ad ogni soffio del vento.

    Udii un nuovo richiamo strillato da mamma Ernesta e mi alzai, soddisfatta.

    Nel cortile era già tutto pronto. Ginin come mi vide fece un cenno con la testa ed un verso rumoroso, forse un saluto, forse un augurio. Mi avvicinai per accarezzarla. I suoi occhi lucidi sembravano contenti di rivedermi, la salutai e lei ascoltava fissandomi. Povera Ginin, anni di calesse per un secchio di biada, sempre fedelissima e mansueta col suo Vanni dal quale, essendo muto dalla nascita, non ebbe mai il piacere di sentire un parola di conforto, ma le bastavano le tante carezze che non le faceva mancare durante il giorno.

    Mamma Ernesta si spazientì:

    «Sali! Su, Sali! Dove sei stata? È tardi! Il battello non aspetta! ».

    Il momento era arrivato, non potevo più tornare indietro. Mi fermai davanti a loro sospirando e per tutti ci fu il mio sorriso di sempre, quello che rasserenava, che conquistava chiunque mi guardasse, ma non loro. Abbracciai Titta per prima, che contraccambiò come stesse abbracciando un tronco di legno, senza dire una parola, poi toccò a papà Carlo che dallo sguardo sembrò volermi supplicare di restare e mi strinse con tutta la forza che aveva:

    «Ciao Rosa di maggio! Coraggio e ancora coraggio!»

    Poche semplici parole, come era solito pronunciare papà, ma tante altre non dette sembravano uscirgli dall'espressione degli occhi e dalle labbra che muoveva leggermente. Lo abbracciai di nuovo stretto più che potevo e lui fece altrettanto e mi baciò sulla guancia, un gesto che non mi sarei mai aspettata.

    Non fece altrettanto mamma Ernesta. Non amava queste che chiamava smancerie, però era tutta infervorata, soddisfatta per come aveva gestito questa parte della mia vita dal giorno del fidanzamento ad oggi. E' così che si allevano le figlie ripeteva spesso. Volle mettermi al collo la medaglia delle Figlie di Maria con l’effige della Madonna perché, disse, mi avrebbe protetta dovunque, poi mi sistemò il cappotto e raccomandò di badare alla piccola taschina verde che aveva cucito all’interno e che nascondeva la banconota da cento franchi, quella che Luigi aveva inviato per le spese di viaggio e riassunse in breve cosa dovevo fare:

    «A Stresa troverai questo tale di Genova che si chiama Arrigo Poli e avrà già comprato il biglietto con il posto numerato in treno. Starà con te fino a Parigi, poi ti comprerà un altro biglietto e ti metterà sul treno per Charleville. Hai capito?».

    «Certo!» - Era la decima volta che mi ripeteva la lezione e l'avevo imparata molto bene.

    «Vai! Vai adesso che è già tardi!» - disse, cercando di spingermi di forza sul calesse.

    Volli guardarla bene in viso e vidi che le scendevano le lacrime. Pensai che

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