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Sottoterra
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E-book358 pagine4 ore

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Info su questo ebook

In un litorale che non è né mare, né spiagge ma periferia della periferia di Roma, il fango dell'agro, l'incuria e i canali di bonifica s'intrecciano alle vite di Fabio, Cristina, Marco e Gloria.
Vite diverse, ma anche uguali. Ragazzini e amici i primi. Adulti e, forse, amanti i secondi.
Le loro storie ciondolano fiacche, in un'infinita e straziante quotidianità, finché un piede, ritrovato nelle acque putride di uno dei canali, le lancia in una rincorsa folle, insieme a personaggi imbarazzanti e grotteschi, che vengono via via trascinati nei vortici della storia dagli sbuffi frenetici di un’afa estiva, che vuole amalgamare tutto in un'unica mistura.
Su questa giostra, che gira e impasta la vita dei protagonisti con le triviali bizzarrie del vicinato, un mistero sotterraneo, ancestrale e stupefacente, inonda e allaga ogni cosa, in una torbida e nauseante alluvione.
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2021
ISBN9788869632563
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    Anteprima del libro

    Sottoterra - Antonio Colacicco

    Antonio Colacicco

    SOTTOTERRA

    Elison Publishing

    © - 2021 - Elison Paperback

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632563

    ad Alice

    "Ho questa foto di pura gioia

    È di un bambino con la sua pistola

    Che spara dritto davanti a sé

    A quello che non c’è…"

    Quello che non c’è

    AFTERHOURS

    OGGI

    Roma è una città bizzarra, nata attorno a sette colli e poi scivolata tutt’intorno, nel corso dei secoli. I suoi abitanti vivono quella stanchezza asfittica che trasmette la storia. Soffrono quel senso di gaudente nervosismo che solo chi attraversa con i tacchi piazzale Ostiense può capire.

    Ma si sa, Roma e i romani sono un tutt’uno di urla, clacson, sfottò, risate, cornetti, cappuccini e autocelebrazione continua.

    «Roma nun fa la stupida stasera …» cantava Rugantino e tutto sommato non sbagliava. In fondo questa è la romanità. Bella e immensa ma anche sciocca, avara, sciatta, infantile, piagnona e gaudente.

    Nel ditirambo di rumori, luci, colori e odori del Core pulsante dell’Urbe si aprono lungo le consolari, lontani quartieri periferici, in cui il senso di appartenenza alla città si palesa nel tifo, nell’accento più marcato e nelle buche più grosse sull’asfalto.

    Seguendo il lento flusso estivo del Tevere che soffia i suoi miasmi in ciò che resta dell’Agro romano, l’acqua torbida ti porta verso il mar Tirreno, abbandonandoti su quegli argini ricoperti dalle canne, dove ancora nidificano le garzette, in un dipanarsi di antico e moderno, venuto su, un po’ a caso, nel corso della storia.

    La corrente ti ha lasciato proprio lì, dove fu la malaria prima dell’eroina a essere la Parca che tagliava il filo. Sei arrivato a Ostia, quella periferia di Roma, che guarda la città da lontano. Chiusa dal Tevere, il mare e una pineta, che si estende per decine di ettari, fin sulla riva del Tirreno.

    Proprio dentro questa periferia della Capitale, spesso dimenticata, a volte considerata una città a sé, esiste un entroterra vivo e un po’ illogico, perso tra l’Agro romano, l’asfalto bombardato dall’incuria e lo sviluppo urbanistico più figlio del caso, che di un programma. Un territorio dove un tempo, l’anopheles proliferava a nugoli, prima che i canali di bonifica raccogliessero tutta l’acqua delle sue paludi e la convogliassero al mare.

    Laggiù, il cinque giugno del 2015, il sole scaldava le mura rosse della scuola media Aristotele e Fabio Ceroni, dal secondo banco sotto la finestra, fissava le lancette dell’orologio appeso alla parete, dietro la cattedra.

    Mancavano poco meno di dieci minuti al termine dell’ultimo giorno di scuola e l’emozione degli studenti si percepiva anche nel rumore dei loro respiri.

    Appoggiata al bordo di radica rossa della scrivania e accompagnata dal silenzio dell’aula, la professoressa Badussi, docente di matematica e scienze, istruiva gli alunni sullo svolgimento della prova d’esame, con quel piglio dottrinale e cattedratico che l’aveva contraddistinta, nei tre anni passati con la classe.

    Nonostante il discorso della professoressa meritasse più interesse, Fabio non riusciva a distogliere l’attenzione dal rintocco della lancetta dei secondi. Il ragazzino aspettava solamente di essere libero di correre a tirare su la sua nassa.

    Il bidello in corridoio, guardò l’orologio al polso e sospirò. Sapeva che di lì a poco, sarebbe iniziata quella sciagurata tradizione che, ogni anno, si ripeteva come una festa comandata.

    Nel frattempo, fra i banchi dell’intera scuola media, serpeggiava un ticchettio di polpastrelli operosi che scandiva il tempo rimanente per uscire in massa e scatenare il lancio di gavettoni, con cui salutare la fine dell’anno scolastico.

    Il compagno di banco diede una gomitata a Fabio e gli sussurrò all’orecchio se fosse pronto.

    «Ehi, Fa … Prima, in bagno, ho incrociato Furlani che mi ha detto che fuori, ci sono un sacco di ragazzi del liceo che ci stanno aspettando con i gavettoni e le uova. Pare che Magliozzi, quello che l’anno scorso stava in Terza A, abbia, addirittura, messo su Instagram una foto del loro arsenale. Furlani sta organizzando una specie di contrattacco e ha chiesto aiuto, un po’ a tutti. Mi ha inserito nel gruppo Whatsapp e mi stanno mandando un sacco di messaggi!»

    «No, Mauro, non mi va di fare gavettoni. Appena suona, devo andare via, te l’ho già detto!»

    «Bah! La situazione è diventata abbastanza seria. Forse, dovresti darci una mano …»

    «Devo andare via, non posso proprio!»

    «Va bene, se proprio non puoi ... Comunque, appena suona la campanella, controllo il cellulare per capire cosa hanno deciso, così magari hai modo di ripensarci. Sento il cellulare che vibra da dieci minuti ma, finché la Badussi non se ne va, non m’azzardo a leggere manco un messaggio!»

    Nominarla fu come pestare una mina.

    «Ragazzi, possibile che non v’interessi sapere come sarà il vostro primo esame? Questo brusio di sottofondo è davvero insopportabile!» ruggì ferocemente la professoressa.

    «Ci scusi, la stavamo ascoltando e non volevamo disturbare» si giustificò Mauro, con la faccia contrita dallo spavento.

    La professoressa li fulminò con uno sguardo caustico e riprese a parlare, voltandosi dall’altra parte della classe.

    Fabio, in risposta al rimprovero, rifletté che il primo esame della sua vita sarebbe stato tirare su la nassa dall’acqua, per scoprire cosa ci fosse dentro.

    Il sole, intanto, ignaro delle vicende di quella classe, continuava a picchiare sulla scuola e sulla maglietta nera del ragazzino.

    Gli arrivò un messaggio e il cellulare, nascosto sotto l’astuccio in tela, fece vibrare il banco.

    Fabio fissò i ricci capelli della professoressa ondeggiare come le fronde di quel vecchio olmo, che torreggiava nella piazza davanti alla scuola. Era ancora voltata verso l’altra ala dell’aula, impegnata ad ascoltare l’intervento della Russo, la secchiona della classe, che aveva il braccio alzato già da qualche minuto, tanto per farsi notare, fino all’ultimo momento.

    Il ragazzino si sentì abbastanza sicuro di farcela. Afferrò lestamente il telefono, se lo poggiò sulle gambe e aprì lo schermo per capire chi fosse.

    Era Cristina.

    – Ehi Fa, stai andando a casa subito, allora? Niente gavettoni sul serio? Ho saputo che Furlani e la Terza B stanno organizzando un contrattacco a quelli di fuori …

    Fabio guardò verso la professoressa per capire se la via fosse ancora libera e digitò furtivamente la risposta all’amica.

    – Ciao Crì. Sì già lo so, ma come ti ho detto stamattina, vado subito via, perché devo controllare la nassa!

    La risposta arrivò quasi più veloce dell’invio e il telefono gli vibrò fra le gambe.

    Fabio non riuscì a trattenersi dallo sbirciare anche quel nuovo messaggio.

    – Uffi Fa. Tu e le tue nasse. Vabbè ci vediamo dopo alla fontanella, così ti racconto com’è andata e tu mi dici che hai pescato …

    Il ragazzino digitò la risposta e fu travolto dal vortice di leggere e rispondere, dimenticando completamente il rischio che correva.

    – Sì, Crì … Sono convinto che stavolta ho preso qualcosa, te l’ho detto. Quindi vado via … Cmq confermato l'appuntamento alla fontanella … Però sentiamoci nel pomeriggio che io oggi devo studiare per l’esame! Capito tonta?

    – Tonta a chi? Scemo! Non ti meriti neanche i miei messaggi!

    – Dai sto scherzando … Ti voglio bene!

    – Si vabbè! Lanci sempre il sasso e poi nascondi la mano! Scemo!

    – Rosicona!

    «Ceroni, che cosa stai facendo? Togli subito quel cellulare! Stai per ricevere l’ultima nota dell’anno. Non solo parli con il tuo compagno di banco ma, addirittura, ti metti a giocare con il telefonino, proprio mentre provo a spiegarvi cosa significhi fare il vostro primo esame della vita! Roba da matti …»

    La professoressa Badussi non ammetteva la presenza dei cellulari in classe, durante le sue ore. Ne aveva sequestrati tantissimi e li restituiva solamente ai genitori, quando andavano ai colloqui con lei.

    La Badussi vedeva vicino il traguardo della pensione e, complice l’obiettivo quasi raggiunto, da qualche anno, aveva iniziato a essere decisamente allergica, alle cose che non le piacevano.

    Oramai, era anni luce lontana da quella giovane insegnante che, nel suo primo giorno di lezione, scoppiò in lacrime davanti alla classe.

    Quel pianto le era rimasto soffocato in gola per molto tempo, da quando un boato assordante aveva sconvolto una pigra mattinata estiva bolognese.

    Sarebbe dovuta esserci anche lei nel mattatoio che diventò la Stazione Centrale di Bologna in quell’afoso sabato del 1980 ma, appena un’ora prima della detonazione della dannata bomba, il senso del dovere, l’ansia o il destino che dir si voglia, l’aveva spinta a rinunciare a prendere il treno per casa, convinta che, nella solitudine di quel fine settimana, sarebbe riuscita a preparare meglio l’orale del concorso per docenti.

    Di lì a qualche mese, avrebbe vinto la cattedra di scienze naturali in un liceo scientifico di Roma e, in quella scuola, si presentò emozionata e decisa a voler contribuire, con tutta se stessa, alla crescita dei suoi alunni.

    Per molti anni fu sempre dalla loro parte e li difese anche quando, forse, non avrebbe dovuto, inimicandosi spesso il resto del corpo docente.

    La Badussi era fatta così, tenace e caparbia nel portare avanti ciò in cui credeva e questo fu, forse, l’unico aspetto che non cambiò, anche quando, con l’inizio del nuovo Millennio, percepì, per la prima volta, che gli alunni, che aveva di fronte, non erano più meritevoli di alcun sostegno morale da parte di un adulto.

    Come fosse incappata in un personalissimo Millennium bug, la professoressa iniziò a prendere le distanze dai modi di fare dei suoi studenti, dimostrando una rigidezza morale che, nel tempo, divenne sempre più rigorosa.

    Lei, che aveva sempre sorvolato su tutto, aveva definitivamente chiuso la porta alla tolleranza. Erano finiti i tempi in cui liquidava con un sorriso i pantaloni a zampa d’elefante, le frezze rosè, le Dottor Martins colorate e le zeppe. Erano terminati gli apprezzamenti ironici e paternalistici ai rasta, al bomber nero e alle teste rasate.

    Dal settembre del 2000, non riuscì più a trovare alcun accenno di ribellione negli occhi dei nuovi studenti. Non percepì più quel desiderio di scoprire il senso della propria esistenza, presentandosi in aula rasati a zero o indossando un eskimo.

    Si era convinta che il nuovo Millennio avesse sdoganato l’omologazione universale. Le sembrava chiaro, dall’assenza di ricercatezza nelle tendenze giovanili che le risultavano asettiche e vuote.

    Già, perché nel camouflage di mode, estro e ideali precedente aveva sempre percepito il serpeggiare di un percorso di crescita, che portava i ragazzi a confrontarsi sulla vita, espressa in tutte le sue forme, inclusa la morte.

    Per lei, che la morte l’aveva quantomeno annusata, il due agosto del 1980, era inaccettabile vedere ragazzini assuefatti a un infinito presente che non lasciava spazio, al minimo cambiamento.

    Vedeva tutti i suoi alunni come supposte perfettamente inserite nel blister dei talk show, proni alle vacue mode dell’apparenza, nel totale edonismo dei sensi e privati di qualsiasi interesse critico, verso l’esistente.

    Con le nuove classi non si prese neanche più la briga di solleticare l’attenzione degli alunni sulle terribili proprietà dell’acido cianidrico, il potente principio attivo dello Zyklon B, usato dai nazisti a Dachau e Auschwitz, quando iniziava a spiegare i principi di respirazione cellulare.

    Tutto era diventato un gigantesco e dannato eterno ritorno che iniziava con un primo liceo e terminava in un esame di maturità, senza che questo percorso generasse alcuna crescita nei suoi studenti, lasciandoli eterni bambini ed eterni adolescenti.

    Dopo una lunga e faticosa riflessione, la professoressa Badussi si rese conto, di aver perso ogni stimolo a insegnare scienze ai ragazzi di quel liceo scientifico di Roma Nord, dove, anni prima, aveva fatto carte false, per essere trasferita.

    Immaginò che insegnare in una scuola media potesse essere il modo più efficace per riuscire a stimolare le future generazioni di adolescenti e riempire il vuoto delle loro vite.

    Tentò testardamente di ottenere quel trasferimento e, vista la necessità dell’amministrazione provinciale di spostare professori nelle scuole più periferiche della Capitale, nel giro di un paio di anni, la professoressa Badussi riuscì a traslocare nella scuola media Aristotele, per insegnare matematica e scienze.

    Nella sua velleitaria crociata educativa non si pose limiti e non risparmiò alcun alunno e alcun cellulare.

    Anche stavolta, l'ultimo giorno di scuola media per Fabio Ceroni, non faceva differenza. Sarebbe drammaticamente toccato anche a lui, pagare pegno per quella mancanza di rispetto.

    Il ragazzino fu pietrificato dallo sguardo minaccioso della professoressa e iniziò a tremare, qualche istante prima, che la Badussi cominciasse a sputare fiamme dalla bocca.

    «… Questa cosa è davvero inaccettabile! Possibile che tu sia più interessato a guardare quel coso, piuttosto che sapere cosa dovrai fare tra quindici giorni? Sappi che all’esame me lo ricorderò. Portami subito il cellulare! Voglio avere il piacere di spegnerlo io!»

    Fabio non avrebbe voluto farlo ma conosceva la Badussi e non esitò, neppure un attimo, a portarglielo alla cattedra.

    Appena consegnò il telefonino nella mano rugosa della prof, il cellulare vibrò nuovamente.

    Era arrivato un altro messaggio.

    Alla professoressa iniziarono a fumare le orecchie e Fabio intravide il dilatarsi delle sue narici.

    Mancavano poco meno di cinque minuti alla fine della scuola e, adesso avrebbe dovuto consegnare il telefonino a quella stronza della Badussi, per farselo ridare chissà quando, oltre che prendersi una nota e condizionarsi l’esame.

    «Mannaggia a Cristina!» digrignò fra i denti.

    La professoressa accese lo schermo e controllò il messaggio.

    «Ora leggo a tutti, cosa, Fabio Ceroni, ha da fare di più interessante, che seguire la lezione. Questa cosa, come avrete ormai compreso, non è una violazione della privacy ma, piuttosto, una lezione nella lezione, che vi serve per imparare ad avere rispetto per il luogo di lavoro e per le persone che sono intorno a voi …» disse, intercalando quelle frasi con lunghe pause.

    «… Se uno non vuole che tutti sappiano, come sta perdendo tempo, è meglio che non usi il cellulare in classe. Una cosa molto semplice!» Fissò la classe che la guardava silenziosa e proseguì con la sua filippica.

    «... Il bello è che ci sono stati alcuni genitori, capaci di contestare anche una cosa così banale. Che razza di tempi! Non capisco cos’altro debba fare, ragazzi, per farvi comprendere che con questi cosi state buttando via la vostra vita!» e queste ultime parole le pronunciò, incrinando un po’ la voce, per l’amarezza della sconfitta.

    Inforcò gli occhiali e cercò di leggere cosa c’era scritto sullo schermo.

    «Allora, vediamo un po’ cosa c’è scritto … Ecco qui: Fabio, a che ora torni dal Vascone?» lesse la professoressa, strabuzzando gli occhi.

    «Che cos’è il Vascone, Ceroni?»

    Fabio restò a bocca aperta, senza più salivazione e con il cuore che gli pulsava energicamente nel centro del petto.

    «Allora Ceroni, ora hai perso le parole? Se preferisci, puoi scriverlo sulla lavagna?» e gli mostrò un gessetto.

    La classe esplose in un divertito ghigno collettivo che sibilò nel silenzio dell’aula come uno sbuffo di vapore.

    «… Purtroppo è sempre così. Passano gli anni, cambiano le mode e le generazioni ma restiamo sempre un popolo di camerieri!» pensò, con amarezza, la professoressa Badussi, nel sentire quelle risa pusillanimi.

    Fabio prese alcuni attimi per superare l'imbarazzo che lo stava divorando e balbettò una risposta, tutta d’un fiato, così come gli uscì dalla bocca:

    «… Il Vascone è la parte finale del Canale delle Acque Basse e sta dietro alle idrovore, vicino a casa mia!»

    La Badussi lo fissò negli occhi, cercando di cogliere il senso di quelle parole.

    «Spiegati meglio ragazzo mio, che significa?»

    «… Significa che è una grande vasca che sta dietro le idrovore e lì ci arriva tutta l’acqua del canale!»

    Nella classe continuava a sentirsi un mugolio di risate, soffocate.

    «Silenzio, ragazzi! Ora ho capito Ceroni, grazie. Che cosa devi andare a fare a questo Vascone, me lo puoi spiegare, per favore?»

    Quell’interrogatorio lo stava sfinendo ma il ragazzino sapeva che rispondere, era l’unico modo per tornare al posto. Le sue orecchie parevano due tizzoni ardenti e, a testa bassa, Fabio provò a rispondere.

    «Vado a recuperare una nassa. Devo vedere se ho pescato qualcosa!»

    La professoressa Badussi saltò sulla sedia. Non credeva alle proprie orecchie. Ceroni le aveva dato una soddisfazione che, neanche lui poteva immaginare.

    «Cioè? Scusa Ceroni, se insisto. Mi stai dicendo che devi andare a pescare, giusto?»

    «Sì, professoressa. Sì!»

    Lei continuò a fissarlo.

    «Forse c’è ancora una speranza …» pensò, sentendosi un po’ più leggera.

    Guardò i pioppi verdi, baciati dal sole primaverile, fuori dalla finestra e, per qualche secondo, restò in silenzio, a smaltire quella piacevole sensazione.

    Fissò la classe che la guardava silenziosa, con ancora i solchi delle risa segnate sui volti, e si disse:

    «Beh, dai, forse, non sono davvero tutti dei giovani camerieri!»

    «Prendi Ceroni, tornatene al posto ma spegni il telefonino. Oggi è l’ultimo giorno di scuola e mi sento magnanima!»

    Fabio non poteva sperare in nulla di migliore e la tachicardia iniziò a rallentare, diminuendo le pulsazioni sulle sue tempie. Prese il cellulare, lo spense e corse al banco.

    Quando la campanella suonò, ci fu il giubilo di tutti gli alunni. Le scuole medie erano finite e quella era stata, finalmente, l’ultima lezione con la Badussi.

    Le ragazzine iniziarono ad abbracciarsi e scattare selfie, i ragazzini si prepararono alla guerra delle bombe d’acqua, iniziando a parlottare in fondo all’aula e a scrivere messaggi con i loro smartphones.

    In tutto quel trambusto, Fabio chiuse lo zaino e, con la testa alla sua nassa, salutò i compagni, affrettandosi verso la porta. La professoressa Badussi, presa nel sistemare le sue cose, vedendolo passare veloce davanti alla cattedra, lo fermò con un cenno. A Fabio sembrò di essere stato freddato, alle spalle, da un cecchino.

    «E mo’ questa che cazzo vuole ancora?» si domandò.

    «Sì, professoressa, mi dica …» pronunciò flebilmente, voltandosi di scatto.

    «Ceroni, lo sai che mi hai meravigliato poco fa? Visto che ti piace la pesca, potremmo proprio parlare di pesci all’esame. Magari, potrei voler sapere come fanno a muoversi nell’acqua …» e gli sorrise. «Beh, comunque che altro posso dirti, studia in questi giorni e Buona Pesca per oggi!»

    «Certo. Studierò sicuramente, arrivederci!» e il ragazzino filò via, incazzato nero per la iattura, lanciatagli dalla Badussi con quel maledetto Buona Pesca!.

    «In culo alla balena, stronza! Pure iella porta, questa ... Meno male che è finita la scuola, non ce la facevo proprio più!» e si grattò le parti basse, mentre schizzava giù per le scale.

    6 MESI PRIMA

    La tramontana tagliava Roma con raffiche siberiane. Le strade erano ghiacciate e le persone si avvolgevano negli scialli per ripararsi dal freddo. Quel vento spazzava l’aria, aprendo un cielo terso, fra baffi di nuvole bianchissime. Sulla costa, il Tirreno sbatteva sugli scogli, spruzzando aerosol di salsedine verso la riva. Le onde si gonfiavano come mantici e scaricavano la loro furia contro la foce del canale, propagandosi all’interno. Le barche, attraccate alle banchine, si muovevano su e giù e qualche diportista correva a fissare meglio gli ormeggi sul molo.

    Le foglie secche venivano spazzate dal vento a bordo strada, fino a volare sull’acqua, insieme a qualche busta di plastica che arrivava, svolazzando, da chissà dove.

    Questo era lo scenario che appariva agli operatori della municipalizzata dei rifiuti, mentre guidavano il mezzo per la raccolta dell’indifferenziato, lungo la strada che costeggiava il canale.

    Girarono a sinistra, passarono davanti le idrovore e quando videro le condizioni del quartiere, si misero le mani fra i capelli. L’asfalto e il bordo strada erano completamente ricoperti dai rifiuti.

    Cumuli di sacchi neri semiaperti, cassonetti rovesciati, sporcizia sparsa qua e là, foglie secche, cosce di pollo, bucce di banana, vecchie scarpe e cartoni di vino. Uno scenario davvero desolante.

    Il vento gelido aveva dato il suo contributo al caos, sparpagliando, ancora di più, tutto quel pattume e sollevando al cielo le parti più leggere. Molte buste di plastica sventolavano, appese ai cespugli e ai rami degli alberi più bassi.

    Gli operatori scesero dal mezzo, fra una folla di persone imbufalite per tutto quel casino, e si misero rapidamente a lavoro, per raddrizzare i cassonetti e pulire la strada dall’immondizia.

    Gli abitanti del quartiere erano stanchi di trovarsi in quella situazione.

    «Possibile che non potete mettere delle telecamere per capire chi è che fa’ ‘sti danni?»

    «Come mai non si può fare nulla?»

    «Io pago la tassa sui rifiuti! Non è possibile che debba ritrovarmeli sparsi anche dentro il cortile. È una cosa inaccettabile!»

    «… Il Comune deve fare qualcosa. Sentite il Governo, la Regione, chiunque vi pare, basta che risolvete questo problema!»

    Il vociare sconnesso e disarticolato della folla, si diffondeva nell’aria fredda, come il belio di un gregge di pecore in transumanza.

    «... Saranno stati dei vandali. Figuratevi se quelli che imbrattano i muri con la vernice non siano anche capaci di spargere a terra la mondezza!»

    «Macché vandali. Sì, adesso, troviamogli anche un alibi a quegli zozzoni. So’ stati gli extracomunitari, è ovvio!»

    «Certo, che so’ stati loro ... Vengono a capare la roba, e poi lasciano tutto il resto in strada!»

    «Sono anni che va avanti così ma nessuno ha mai fatto nulla ed è sempre peggio!»

    «… Meno male che fa freddo, sennò immaginate che puzza ci sarebbe stata»

    «L’estate scorsa la municipalizzata ci ha messo due giorni per passare a pulire e la puzza si sentiva fin dentro le case!»

    «… Mi ricordo. Mi ricordo. Comunque, una roba come quella di oggi non l’abbiamo mai vista da queste parti. Maledetti schifosi, che ve piasse un colpo! E maledetta tramontana!»

    Insomma, era un po’ colpa di tutti e tutto ma, fondamentalmente, non si riusciva a incolpare veramente nessuno.

    La pretesa di trovare una soluzione a quello schifo che si ripeteva di continuo, aveva spinto i residenti a fondare un Comitato di Quartiere, sulle ceneri del vecchio Comitato Civico di zona, con cui proporre alla latitante amministrazione municipale, l’avvio di un programma di soluzioni, più o meno innovative, che risolvesse definitivamente quel fenomeno così assurdo e inspiegabile dei cassonetti ribaltati che, puntualmente, si ripeteva nel corso degli anni.

    Nelle riunioni del Comitato di Quartiere erano uscite un’infinità d’idee, alcune strampalate, altre un po’ più efficaci, che tuttavia, furono puntualmente inviate agli amministratori municipali. Dopo ogni episodio, c’era sempre più gente che aderiva alle riunioni del comitato, con una rabbia e un nervosismo sempre crescente.

    Notando l’attenzione dei residenti al tema dei rifiuti sparsi in strada, non mancò molto che la Sezione di Partito offrì il proprio supporto, per portare le istanze del Comitato, presso tutti i livelli istituzionali.

    E fu così che ogni politico romano si trovò pile di raccomandate con richieste per la dotazione di videocamere da puntare sui cassonetti, o per l’installazione di sistemi per l’apertura comandata dei bidoni della spazzatura.

    Verso le quindici, mentre il Comitato spediva l’ultima e-mail di denuncia all’amministrazione municipale, con l’ultima badilata di rifiuti, lanciata dall’operatore sul cassone del furgoncino, tutto quel macello era stato pulito.

    Il mezzo della municipalizzata finì di lavare l’asfalto unto e insozzato dall’immondizia e se ne tornò lentamente verso il deposito.

    Un chilometro poco più a nord del quartiere e, a trecento metri dal deposito mezzi della municipalizzata, si trovava un vecchio lago di pesca sportiva.

    L’inverno era il periodo in cui si contava il maggior numero di persone, tutte attratte dalla pesca alla trota. In estate, infatti, quello che si poteva tirare su, era giusto qualche carpa e qualche pesce gatto, mentre ruspavano sul fondale melmoso, in cerca di cibo.

    Quell’anno, il freddo ripetuto del mese di gennaio, aveva portato tanti pescatori a lanciare la lenza in quello specchio d’acqua, registrando incassi sorprendenti per il proprietario.

    Il pregio di quel laghetto di pesca sportiva era la possibilità di pescare con tre canne al prezzo di una e di avere nelle sue acque esemplari di trote fario, anche di dieci chilogrammi.

    Questa specie era stata introdotta dal gestore, con lo scopo di creare un’alternativa valida alla pesca della solita trota salmonata. La sua intuizione piacque molto ai pescatori locali, anche perché la carne della fario era, sicuramente più prelibata e meno commerciale, di quella salmonata. Il tam-tam di questa notizia si era diffuso rapidamente sui forum di pesca e, in breve, estimatori di tutta la città, si trovarono a gettare la lenza da quelle sponde.

    Questo geniale personaggio era un signore, prossimo alla pensione, originario di Caorle. Da buon veneto, non si era mai risparmiato nel lavoro e aveva dimostrato di saperci vedere lungo nel fare sghei. Infatti, oltre al laghetto di pesca sportiva, era proprietario di un’innovativa serra che vendeva prodotti agricoli a chilometro zero.

    In genere, lui e la moglie si dedicavano quotidianamente alla loro attività, senza concedersi nemmeno una pausa, ma quel giorno, visto il freddo tagliente e la concomitante chiusura settimanale, decisero di staccare e andare sui Monti Cimini a gustarsi un’ottima polenta con i passerotti, nella famosa trattoria Polenta & Osei, gestita da alcuni loro compaesani, emigrati nella Tuscia.

    Quando il camion della municipalizzata passò vicino al lago, prima di raggiungere il deposito, il sole stava già calando sull’orizzonte e il freddo si faceva più pungente.

    Di fronte al cancello d’ingresso del laghetto si apriva la campagna, imbolsita dalla rigidità dell’inverno, e il cane della coppia, lasciato di guardia a badare alle trote,

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