Navel
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Anteprima del libro
Navel - Maristella Bonomo
Maristella Bonomo
Navel
© 2019 – Gilgamesh Edizioni
Via Giosuè Carducci, 37 - 46041 Asola (MN)
gilgameshedizioni@gmail.com - www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-331-4
È vietata la riproduzione non autorizzata.
In copertina: Progetto grafico di Barbara Fragogna
© Tutti i diritti riservati.
ISBN: 978-88-6867-331-4
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Lenti a contatto
Cluster
Danza
A ralenti
I demoni
Apnea
Dentro una bolla che risale
Sosia
30 e lode, in blu
Ariel
Controvento
Aure
Light sound dissolving channel
L’umana nostalgia dell’interezza
Chi mi guarda?
Etna
Svegliati!
Navel
Secondo raL.enti
ANUNNAKI
Narrativa
101
Navel è un viaggio dentro un inconscio lacerato, nel deserto in cui si configura la nostra contemporaneità. Un viaggio che dissolve ogni confine tra realtà e finzione, tra sogno e veglia, dove l'io si sdoppia e trova un riflesso di sé al di fuori di sé, in un sosia. La protagonista racconta la sua quotidianità ombelicale, eventi, pensieri, querele, smanie polemiche, poetiche. Attraverso continue oscillazioni, è animata da un'ironia amara e graffiante, che si allevia solo allorché evolve nello straniamento, poi in quell'oscura emozione di sentirsi, allo stesso tempo, autore e personaggio.
Maristella Bonomo è nata a Catania nel 1979. Si è laureata in cinema al Dams di Bologna e ha conseguito il Dottorato in Italianistica. Ha studiato Film writing e Creative writing alla Columbia University (NY). Ha pubblicato un libro di poesie, Passi segreti (Prova d’autore, 2008) e un libro di racconti, Riflessi (Giraldi editore, 2009). Da regista ha realizzato il cortometraggio in pellicola Sdrvgd’T (Svegliati!), una fiaba ambientata tra le grotte laviche di Catania, selezionato in diversi festival nazionali e internazionali, e ha collaborato alla realizzazione di alcuni episodi della web serie San Berillo web serie doc. Ha tradotto dal francese il romanzo Paradiso coniugale di Alice Ferney (Bompiani, 2013) e testi di narratori e poeti anglofoni contemporanei per alcune riviste letterarie. Ha frequentato laboratori teatrali e di danza contemporanea per approfondire lo studio sul rapporto del corpo con lo spazio e la parola. Si occupa di editing di sceneggiature, tiene corsi di scrittura creativa e cinema e lavora come docente di italiano per stranieri.
A Giacobbe
Sono una lavoratrice,
sono abile ma non ho il talento per fare soldi.
Spontaneità, fantasia, amore per la creazione,
sono incompatibili con la vita commerciale.
Anaïs Nin
Non dimenticare, Goliarda, il tuo lato siciliano
che sempre è venuto in questi posti
da pezzente a mendicare un pezzo di lavoro
come fosse un regalo.
Goliarda Sapienza
Lenti a contatto
Il trillo della campanella s-finisce la lezione, rimbalza da un timpano all’altro, dentro a vecchi altoparlanti con qualche falso contatto. I ragazzi si scostano dal banco pronti a sgattaiolare via, stridono le sedie sul pavimento, c’è una strana corrente nella prima mano che apre la porta. La luce del corridoio irrompe giallastra, virulenta, nell’aula in penombra. Come presagio di maremoto, un mormorio timbrico si solleva: voci indistinte, passi veloci si accalcano verso l’androne. Metto in stand-by computer e proiettore, afferro la borsa da un manico rischiando di rovesciare a terra il suo contenuto oscuro e chiudo a chiave l’aula, già deserta, per la pausa di ricreazione. Quattro dei miei ragazzi mi aspettano fuori dalla porta, sembrano guardie del corpo; il mio passo è incerto, nella borsa non trovo nulla: né la busta di tabacco, né le cartine e i filtri. Così mi fermo, riprendo il passo, mi rifermo. E anche le guardie del corpo si fermano, riprendono il passo, si rifermano.
«Sta meglio con gli occhiali, Professoressa!», dice uno.
«E senza sigaretta. Non se l’accenda, resista…», romba l’altro ma il mio falso contatto tronca una parte del dicibile.
Anche l’accendino si nasconde nel caos dell’interno; sono le cinque di pomeriggio, e l’autunno si tende verso un buio anticipato, i primi giorni di ottobre. Sto seguendo la classe di un istituto professionale per un progetto filmico in ore extracurricolari, un progetto POR (che suono onomatopeico, penso ogni volta). Non mi sono ancora abituata a questa parola – ‘ professoressa’–, e perdo l’equilibrio tra i gradini di pietra porosa dopo l’androne. In tempo per non precipitare afferro la manica di un giubbino grigio; non provo nemmeno a trattenere la risata che sfoga in un colpo di tosse. Anche i ragazzi ridono e, infine, ho trovato l’accendino. La fiamma si staglia dentro i loro sguardi impotenti, tremula e arancione, il fumo mi sventra le narici: a poco più di trent’anni i quindicenni mi sentono inarrivabile. È una sensazione piacevole, sospesa.
«Oggi porta le lenti a contatto?», mi chiede il terzo.
«Senza occhiali, non lo so, sembra diversa, come se ha le rughe», conclude l’ultimo che non sarà certo il primo a dirlo. Plausibile, gli risponde una mia voce dall’interno. Ho smesso di spalmare – giorno e notte – la crema antirughe che mi ha regalato mia madre alcuni mesi fa. Pigrizia, o chissà, una forma di abbandono al divenire.
«A trent’anni una donna può iniziare a prendersi cura di sé».
Così aveva sentenziato mia madre, compiaciuta e complice, consegnandomi un vasetto tondo e opaco, dal contenuto biancastro, denso – all’olio di avocado, recitava l’etichetta invitante. Niente mi avrebbe impedito di svitarne il tappo all’istante, tastare la consistenza, l’odore, quasi a dare una leccatina a questa parola donna
. Mi era sembrata una buona occasione e avevo cominciato a usarla, per non soccombere al suono di quell’altra parola: ruga.
Mia madre fuma Merit Blu Lunghe e non ama connettere l’insorgenza delle rughe (sue e di sua figlia) alla perfezione cilindrica della droga confezionata e consumata, boccata dopo boccata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, ovunque: in macchina sbraitando, in cucina rimestando qualsiasi cosa stia bollendo in pentola, in poltrona davanti alla tv, sulla sdraio, in balcone, leggiucchiando il giornale o sparlando con le amiche dei rispettivi mariti per anni e anni e anni, fino al presente. Ma qual è il presente?
«Merit blu lunghe, grazie», chiedevo sollevandomi sulle punte, come una ballerina, al bancone di legno tarlato del vecchio tabacchino nel paese dove trascorrevo un’infanzia estiva e solitaria con mia madre e mio fratello. «Merit blu lunghe... Merit blu lunghe... Merit blu lunghe...», mi ripetevo saltellando per la viuzza alberata di querce, e tenendo strette tra le dita quattro vecchie mille lire accartocciate, come una formula magica da non dimenticare di fronte al faccione raggrinzito e incallito del commesso tabaccaio. O mi sarebbe toccato un ritorno a casa, un’altra andata e un altro ritorno, con sbuffo di madre annesso. Così è andata. Una lunga Merit Blu è la prima sigaretta che ho fumato in posa davanti allo specchio dentro al bagno di casa, chiusa a chiave, e quasi svenendo di nausea sull’orlo opalescente del water: brividi alla schiena, gocce di sudore freddo imperlavano il mio viso quindicenne, la capigliatura castana e folta, la bocca larga, rilucendo di un abbassamento (molto) inospitale di pressione – la punizione del furto. Da allora non ho mai smesso di sfilare sigarette dalla borsa di mia madre, né di sottrarre ossigeno al mio corpo e alla sua pelle. Ma ho imparato ad aspirare con voluttà e fierezza, a espandere il veleno tra i lineamenti, lungo uno scheletro fragile e legnoso
, aggiungerebbe Flaminio, il mio maestro di danza. Un labirinto di ricordi.
Mi catapulto indietro, ore gravide di noia, un colore sempre uguale nel cielo del ricordo: i miei quindici anni, nuvole pesanti e luride, l’artificio del neon si rifletteva sui banchi verdastri, sulle finestre unte di ditate, sui muri sporchi di pedate; ogni angolo sottraeva ossigeno, ribadiva la prigionia. Nulla è cambiato anche adesso che entro da docente: le scuole hanno tutte lo stesso fantasma spalmato tra le mura. Sguardi insofferenti, zaini sgualciti, compagni di cui a volte – abitata da un essere automatico o trascinata nel passato dal tremolio ipnotico del sedile di un autobus ingorgato, con la testa poggiata al finestrino – balbetto internamente qualche nome, qualche viso, qualche sofferenza o intolleranza, richiamandomi addosso lo stesso odore di umidità, le porte scassate, senza maniglie, gli infissi sibilanti, le pareti afflitte da disegni di cazzi sconci e atroci banalità, le sigarette fumate tra un’ora e l’altra in bagni maleodoranti, contro tutto e tutti. Gli autobus e le scuole hanno questo in comune: la sensazione insopportabile di dover trascorrere un tempo interminabile in compagnia di sconosciuti che parlano, in compagnia di altri che ascoltano, o dovrebbero, scappando via alla prima fermata utile, al suono di una campanella, in un andamento uguale oggi e quindici anni fa.
L’autobus di fronte alla scuola si rimette in moto e, tra una boccata e l’altra, il fumo caldo mi si installa in bocca.
«American Spirit», chiedo al bancone di un qualunque tabacchino in cui mi capita di fermarmi – un po’ troppo spesso, secondo i logorroici salutisti e naturopati, e una sempre più diffusa opinione comune.
Il fumo magico si dissolve fuoriuscendo, i ragazzi pendono dalle mie labbra come fossi una sibilla, un qualsiasi discorso che li celebri a dispetto degli altri più onesti fuggitivi, una nota intrigante, magari hot, da cui cavare fuori una certezza per l’avvenire sentimentale o, semplicemente, sedurre quella tipa lì, coi pantaloni viola e gli auricolari che se ne sta seduta tutta sola sul motorino – indipendente, concentrata, per nulla preoccupata del mondo intorno a lei. Li guardo, sapendo che non percepiscono la profondità di questo sguardo: i capelli spettinati, unti, sporchi, i brufoli sparsi in fronte e sulle guance proprio come quelli dei miei vecchi compagni di classe di cui non so più nulla, a stento un nome, ma anche quello a volte svapora in altri. Li guardo e non li invidio, né mi invidio. Finisce la scuola, rientrano a casa, chiusi, impermeabili, seduti a tavola con altri volti giganti alla ricerca di una falla in cui insinuare e ribadire, implacabili, l’Autorità.
«Com’è andata oggi a scuola?»
[Abbozzo di sorriso che vorrebbe significare: «Tutto bene, grazie, non rompere»]
«Ti hanno interrogato?»
[Lampo di occhi al cielo e leggero sospiro che vorrebbe significare: «Che palle, comincia la tiritera»]
«Quella di matematica ha portato i compiti?»
[Cenno di diniego minimal, apnea che vorrebbe significare:
«Non ci posso credere»]
E la pasta, nel piatto, assume proporzioni stravaganti, spaghetti intrisi di salsa fluida si muovono come serpenti destati da un lungo sonno per entrare in gola e asfissiando… Meglio scappare, sempre facendo stridere la sedia e via, dileguarsi per non sboccare.
«E fatti uno shampoo quando ti capita», rimbomba la voce dal lungo corridoio in penombra.
Non ho certezze da trasferire. Non conosco trucchi per sedurre la tipa coi pantaloni viola, truccata come una rockstar che si muove al ritmo di una musica inudibile sul motorino. Soprattutto sono certa di non capire affatto quelle persone che amerebbero tornare ai beati vecchi tempi
, come sento dire spesso, tornare all’ingrato squallore adolescenziale, alle lunghe telefonate con la cornetta infilzata tra il collo e la spalla, alle conversazioni sul nulla più del nulla, alle frasi insensate, inesatte, alle parole sillabate e alla sensazione di cadere continuamente in errore, di essere fuori posto. Sono sicura di non capire la nostalgia, la malinconia. Di non avere una chiave per lo scrigno magico di questi sentimenti – mi viene da ridere, pensando di abbrustolirli come zanzare intrappolate tra racchette fulmina-zanzare dei cinesi.
«Perché ride, professoressa?»
Dopo un anno e più di disoccupazione, paradosso o s-fortuna, mi ritrovo in un luogo da cui mi sembrava di essermi tenuta alla larga: la scuola, e i giovani che disfano la loro giovinezza tra un vetro unto e l’aria, e l’inverno, in attimi di pura, funerea contemplazione. Quelli a cui nulla di importante sembra importare, i cui sentimenti sono ancora così evidenti, così poco aggrovigliati dalle complicazioni e dalle bollette, da sembrarmi alieni. Un lavoro, e quasi inaspettato. Mi sono ritrasferita da qualche mese in questa mia città natale, Catania. Un trasferimento che, poco a poco, si è definito tale. Qualcosa giungeva a una fine e, nell’intervallo tra una fine e un inizio, per non impregnarmi di strascichi bavosi e pianti, ho deciso di assaporare nella distanza, ogni millimetro di quella beatitudine che segue la fine di un malcontento, di una prigionia. Quando sono entrata trascinando la seconda valigia dentro la casa della mia infanzia, mia madre stava a braccia conserte, le labbra sottili serrate contro tutte le domande che avrebbe voluto farmi (in particolare pulsava in battito cardiaco: quale immagine questa volta, figlia mia, ti avrà distolta dal tuo splendido avvenire?), ma che di solito producono, per effetto contrario, un rancoroso ed elettrico mutismo, per cui si è limitata ad appiccare il fuoco a una Merit blu lunga (il Tg1 ad alto volume sosteneva che il tasso di disoccupazione in Italia è secondo solo alla Germania), constatando con voce roca e scartavetrata:
«O qui o lì non farà poi molta differenza… Ma alla zia, alla nonna, a tuo padre cosa dovremmo dire? Che vi siete presi un periodo di riflessione? Che tenti fortuna qui, perché a Roma la situazione è peggio che in Sud Africa? In Sud Africa sono in via d’espansione, lo sapevi? Perché non ti sposti lì, in Cina, in India. In Sud America! Solo in Italia si torna indietro, come te… Mai che ti vada in porto qualcosa.»
Mentre le parole di mia madre ne mascheravano altre, il rumore della valigia trascinata fino alla stanza della mia adolescenza mi distraeva dal tendine dolorante del braccio su cui gravava il peso di molti silenzi. Incapace, in quel momento, di rispondere che in Sud Africa, in Sud America, in Cina o in India, avrei comunque preparato una valigia enorme, mi infastidivo di più alla perseveranza con cui mia madre abbocca a ogni uncino telecomandato, riportando l’inganno con la stessa innocenza