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La fata serpente: Indagine su un mito erotico e regale
La fata serpente: Indagine su un mito erotico e regale
La fata serpente: Indagine su un mito erotico e regale
E-book462 pagine5 ore

La fata serpente: Indagine su un mito erotico e regale

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Info su questo ebook

La letteratura abbonda di creature impossibili. Una vera e propria esibizione di forme diverse, espressione di una rivolta contro la forma, l’ordine, la razionalità. Tra queste innumerevoli figure della memoria culturale, un posto di rilievo spetta senz’altro alla creazione che unisce tratti serpentini e femminili, uno spettro sinuoso e conturbante che abita l’immaginario umano da tempi antichissimi, ma che ha mantenuto perfettamente intatto il proprio mistero. Da Babilonia a Roma, è un vero e proprio esercito di donne fatate a popolare la mitologia.
Le favole si rivelano uno strumento prezioso per la comprensione di questo fenomeno, al crocevia di tante e distanti culture. 
Il serpente è il più importante e rappresentato fra gli animali fatati. E la fata presenta sovente tratti ofidici: il che significa che è un serpente. D’altra parte, come accade fin dalla più remota antichità, quando troviamo figure femminili associate a un serpente, ecco che immancabilmente fa capolino la fata... Una doppia metamorfosi che inquieta e affascina da secoli.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2021
ISBN9791280353160
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    Anteprima del libro

    La fata serpente - Carlo Donà

    serpente

    Avvertenze

    Apparato iconografico – Il volume è dotato di un ricco apparato iconografico, organizzato in tre tavole consultabili ai link successivamente indicati.

    Rinvii – I testi (ma non le citazioni dai saggi) e le immagini sono contrassegnati da una sigla alfanumerica in grassetto tra parentesi quadre. Ho adottato queste convenzioni. Testi citati: T (=Testo) seguito dal numero d’ordine (numero del capitolo + numero progressivo); Illustrazioni: F (=Figura) + numero d’ordine (numero del capitolo + numero progressivo). I rinvii interni sono indicati con una freccia (→) che vale ‘vedi’.

    Citazioni bibliografiche – Tutti i testi, sia fonti che saggi, sono citati in extenso nelle note. Solo per le grandi collane di uso comune sono ricorso a sigle convenzionali, riportate di seguito. Per distinguere a colpo d’occhio le fonti primarie da quelle secondarie (i saggi), i nomi degli autori sono dati in tondo nel primo caso, in maiuscoletto nel secondo. Sempre in maiuscoletto sono dati i nomi dei curatori.

    Traduzioni e citazioni – Le fonti sono citate in traduzione che, quando non indicato diversamente, sono mie. Ho scelto sempre edizioni di facile reperibilità e, se possibile, traduzioni correnti, spesso presenti in rete. Per la stessa preoccupazione di comprensibilità ho rinunciato alle convenzioni delle singole discipline, per esempio limitando l’uso delle sigle e citando in extenso i nomi degli autori classici e i titoli delle loro opere.

    All’interno delle citazioni parentesi quadre indicano brani riassunti e omissioni […], le parentesi uncinate <…> integrazioni.

    Simboli e abbreviazioni – Faccio un parco uso di abbreviazioni. Queste sono le principali.

    • → = ‘vai a’

    ad = ‘relativo a’

    An. = ‘anonimo’.

    c. = carta (pl. cc., mss.cartacei)

    cfr. = confronta

    cit. = già citato

    col. = colonna (pl. coll.)

    ed. = editore(= a cura di; pl. edd.)

    ex = exeunte (fine di un periodo)

    frgm. = frammento

    fol. = foglio (mss. pergamenacei)

    idem (o eadem) = autore appena citato

    ibidem = testo appena citato

    in = ineunte (inizio di un periodo)

    ms = manoscritto (pl. mss.)

    n. = numero o nota (pl. nn.)

    p. = ‘pagina’ (pl. pp.)

    pl = plurale

    r. =‘riga’ (pl. rr.);

    =‘recto’

    s. = ‘seguente’ (pl. ss.)

    s.v = sub voce, ‘alla voce’

    v. = ‘vedi’ oppure ‘verso’ di testo poetico (pl. vv.)

    =‘verso’

    Riferimenti bibliografici

    AASS Acta Sanctorum quotquot toto orbe coluntur, 68 voll., Paris-Roma, Victor Palmé, 1643.

    ATU A.J.

    Uther

    , The Types of International Folktales. A Classification and Bibliography, based on the System of Antti Aarne and Atith Thompson, 2 voll., Helsinki, Suomalainen Tiedeakatemia (FF Communication nn. 284.284), 2004.

    BP

    J. Bolte, G. Polívka, Anmerkungen zu den Kinder- und Hausmärchen der Gebrüder Grimm, 5 voll., Leipzig, Dieterich, 1913-1931.

    EM Enzyklopädie des Märchens Online. Handwörterbuch zur historischen und vergleichenden Erzählforschung, Berlin-New York, De Gruyter, 1977-2015, 14 voll.

    KHM J. e W.

    Grimm

    , Le fiabe del focolare, G. Cocchiara ed., Torino, Einaudi, 1969.

    LIMC Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Zürich und München. Artemis Verlag, 18 voll., 1981-1999.

    MGH Monumenta Germaniae Historica, https://www.dmgh.de/

    MI S.

    Thompson

    , Motif-index of folk-literature: a classification of narrative elements in folktales, ballads, myths, fables, medieval romances, exempla, fabliaux, jest-books, and local legends, Revised and enlarged. edition, Bloomington: Indiana University Press, 1955-1958, 6 voll.

    PL Jacques Paul

    Migne

    , Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, Paris,1844-1855, 221 voll. http://patristica.net/latina/

    RBMÆS Rerum Britannicarum Medi Ævi scriptores, or Chronicles and Memorials of Great Britain and Ireland durig the Middle Ages, 1858-1911, 253 voll.

    RE Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft, A. F.

    Pauly

    , G.

    Wissowa,

    W.

    Kroll

    et al. edd., Stuttgart, Metzler, 1893-1978, 66 + 15 voll.

    Tavole

    Link alle tavole del primo capitolo:

    https://www.writeupbooks.com/wp-content/uploads/2020/06/Capitolo-I-tavole.pdf

    Link alle tavole del secondo capitolo:

    https://www.writeupbooks.com/wp-content/uploads/2020/06/Capitolo-II-tavole.pdf

    Link alle tavole del terzo capitolo:

    https://www.writeupbooks.com/wp-content/uploads/2020/06/Capitolo-III-tavole.pdf

    I. La fata-bestia e la bestia fatata

    1.1 Sulla natura delle fate ― 1.2 Antecedenti e analoghi ―1.3 Lo schema di base ― 1.4 Omologie e analogie― 1.5 Sinonimie ― 1.6 Donne serpenti ― 1.7 Istruzioni per l'uso

    1.1 Sulla natura delle fate

    Se si cercano fata, fairy, hada, fée, vila e termini analoghi su un motore di ricerca come Google si ottengono oltre un miliardo di risultati: il solo termine inglese ne dà non meno di 677.000.000, e il dato è di per sé sufficiente, credo, per intuire l’immensa diffusione di questa figura dell’immaginario. Ma dietro alla parola c’è una qualche sostanza? Che cos’è davvero una ‘fata’? Possiamo descriverla in qualche modo? Ed eventualmente, come?

    Le definizioni che conosco in realtà sono molte, e mi lasciano tutte piuttosto insoddisfatto. Nei casi migliori ― per esempio la voce Fairies della grande Encyclopaedia of Religion and Ethics¹ ―, sono informatissime, ma nella sostanza riescono comunque vaghe, indistinte, e, insieme, ripetitive e contraddittorie: certamente a causa della particolare natura del loro oggetto. Nei casi peggiori (e più frequenti), queste definizioni mancano di interna coerenza: per esempio perché, dopo aver esordito descrivendo la fata come un essere immaginario, procedono poi come se fosse qualcosa di concretamente esistente, al pari di una poltrona o di un cavallo. In secondo luogo e soprattutto le definizioni correnti finiscono per confondere regolarmente res e verba, e ipostatizzano il nome ‘fata’, che è un’etichetta onomastica occidentale tardiva, locale, spessissimo contraddittoria, e volentieri sostituita da forme perifrastiche (per es. in siciliano Donni di fuora, Donni di locu, Donni di notti, Donni di casa, Belli Signuri, Patruni di casa). Di questo nome si può definire l’evoluzione; si può cercare di determinare ciò che esso ha via via significato nel corso della sua storia, e precisare che categorie di esseri soprannaturali ha identificato nei singoli testi. Ma ben altro rispetto al nome sono le figure che il nome designa. Identificare tout court le donne fatate semplicemente con quelle che portano l’etichetta di ‘fata’ è errore insieme metodologico e storico: tanto più che, per effetto di un diffusissimo tabù linguistico, nella maggior parte delle testimonianze le ‘fate’ non solo sono anonime, ma non vengono definite in alcun modo specifico, e si riconoscono come tali solo per ciò che sono e per ciò che possono fare: perché, le fate possono essere amichevoli e buone, ma nella tradizione folklorica fanno spesso paura, cosicché bisogna trattarle sempre con molta cautela.

    Non va meglio, s’intende, nella cultura popolare di oggi, in cui le fate sono abbondantemente presenti, e non solo nei prodotti per l’infanzia, ma sono ridotte a qualcosa di assolutamente cretino: un puro cliché pacchiano e privo di contenuti. Nel desolante panorama dell’odierna globalizzazione culturale, la fata è, perlomeno dal punto di vista figurativo, una figura formalmente assai stereotipata →[F1.1-F1.3], caratterizzata sostanzialmente dalle ali e dalle piccole dimensioni. Si potrebbe dimostrare che l’attuale Gestalt fatesca ― lo chiamerò, per capirci, il tipo della ‘fatina cretina’ ― è il prodotto della diffusione di uno schema britannico, consolidatosi nella prima metà del XIX secolo, ma quel che conta è che si tratta di uno schema antico e illustre, che ha il vantaggio di essere facilmente riconoscibile.²

    Per la cultura popolare di oggi, dunque, le fate sono donne molto carine, spesso di dimensioni minuscole e di giovane età, che volano qua e là con le loro alucce, hanno poteri magici, e fanno contenti i bambini buoni, sebbene, come la Tinker Bell di Barrie, possano essere anche bizzarre e capricciose. Si noterà, però, che sono tutte piuttosto poco vestite, hanno un’aria tra invitante e peccaminosa, vivono in un contesto ‘naturale’ e in sostanza, come dimostrano appunto le ali, nascono da un connubio fra umano e animalesco che, a ben vedere, appare piuttosto inquietante.

    Esistono, s’intende altre varianti: la Francia del gran secolo, per esempio, le immagina come donne di eccezionale eleganza e di grande bellezza; accanto alla fata adolescente e graziosa, esiste lo schema della fata vecchia e vizza; in molti casi, il tratto delle dimensioni minuscole scompare, e anche le ali non sempre sono presenti: possono per esempio essere sostituite dall’aereo velo della ninfa e così via. Vale la pena di notare che, in tempi più felici del nostro, meno dominati dagli stereotipi, questi modelli diversi convivevano tranquillamente l’uno accanto all’altro: un foglio popolare a vignette della fine del Settecento, La Fée Bonasse →[F1.4], stampato a Parigi da Basset, direi verso il 1775-80, illustrando varie fiabe, allinea senza alcuna frattura tutte queste tipologie.

    È opinione comune che le fate siano di ascendenza più o meno medievale, e in effetti il termine che le designa è attestato, nel senso moderno, dal Medioevo. Ma, come dicevo, un conto è il nome, un conto ciò che il nome designa: se da un punto di vista puramente onomastico le fate nascono nell’Europa romanza del Medioevo dalle fatuae o dalle tria fata della tradizione classica, da un punto di vista tipologico, e dunque prescindendo dall’etichetta onomastica, le donne fatate, che per comodità possiamo chiamare ‘fate’, sembrano affondare le radici in un passato ben più remoto di quello medievale, e in un’area ben più vasta di quella europea. I nomi e gli aspetti di queste donne fatate sono ovviamente molto diversificati, ma in ogni caso si può far rimontare ciascuna delle sue forme caratteristiche a una lunghissima trafila culturale.³

    Nel caso specifico delle ‘fatine cretine’, se eccettuiamo l’accentuazione dei tratti infantili, ― dovuta a quella propensione alla neotenia che tanta parte ha nell’immaginario di oggi e costituisce una variante moderna, melensa e vagamente perversa ―, dietro l’immagine della donna oltremondana alata e poco vestita possiamo scorgere, in filigrana, un archetipo per nulla dolciastro, molto più esplicito e decisamente remoto⁴. Lo riconosciamo immediatamente nel cosiddetto rilievo Burney, un capolavoro mesopotamico del 1800 a.C. →[F1.5], che ci mostra una dea nuda e alata, variamente identificata con Inanna-Ištar, con Lilitu ― la Litith della tradizione ebraica ― e con un demone femminile chiamato ki-sikil-lil-la, letteralmente ‘Fanciulla del vento’ o ‘Fanciulla fantasma’, due nomi che a dire il vero alle fate si attagliano piuttosto bene.⁵

    Figure di questo genere percorrono tutta l’antichità, e sin dai remoti tempi mesopotamici godono di notevole successo →[F1.8-F1.9].⁶ Bisognerebbe soffermarsi a lungo su queste raffigurazioni, che senza dubbio identificano un essere divino ben determinato, l’unico, di tutto il pantheon mesopotamico, ad essere rappresentato in piena nudità, se si eccettua, e non è un particolare secondario, la collana. Come le nostre fatine, queste antiche dee sono alate e dunque, secondo una convenzione antichissima, di natura essenzialmente extramondana; il loro sesso scoperto e spesso ipertrofico dice chiaramente che sono lussuriose o feconde, e tanto le ali che i piedi da uccello le rendono profondamente legate al mondo animale: lo mostra con particolare chiarezza il cosiddetto ‘Vaso di Ishtar’ del Louvre →[F1.7], in cui la dea non solo è circondata da animali, ma ha piedi identici a quelli dell’anatra che la sovrasta.

    Quello dei piedi da uccello, in particolare, è un tratto oscuro, inquietante, che permane nella tradizione per lunghissimo tempo. Lo ritroviamo, fra l’altro, nelle immagini delle sirene funebri greche, come accade in una terracotta di Myrina del I secolo a.C. conservata al Louvre →[F1.9], ma anche, quindici secoli dopo, in un anonimo disco da parto (o da nozze?) col trionfo di Venere →[F1.10],⁷ opera italiana del XV secolo, in cui però le zampe non sono attribuite direttamente alla dea, ma caratterizzano i due conturbanti amorini che la accompagnano. Non è certo un caso il fatto che lo stesso tratto caratterizzi anche tutto un robusto ramo della letteratura sulle fate, riaffiorando anche in un nutrito gruppo di figure affini, come le sante Énimie e Néomoise / Néomaye, la Reine Pédaque di Tolosa, la Perchta della tradizione alpina, o quella Berta ‘da li pé grandi’ che secondo la tradizione ‘fila’, e che possiamo identificare in modo ragionevolmente sicuro con Perchta.⁸ Ma riconosciamo il motivo anche nella storia della Regina di Saba, o in quello dell’ondina di Peter von Stauffenberg che, tradita dal suo amante mortale, fa apparire il suo piede alla festa di nozze del fedifrago, e ne provoca così la morte.⁹

    Tutte queste figure non sono mai esplicitamente definite ‘fate’: ma tutte possiedono tratti ferici indiscutibili ed espliciti (la bellezza luminosa, il legame con l’altro mondo, la residenza in una grotta, la connessione con un corso d’acqua o una fonte ecc.) e tutte operano miracoli ovvero possiedono conoscenze preternaturali. D’altro canto, il legame tra le fate e gli anatidi è profondo, e sul fatto che Mamma Oca abbia uno stretto rapporto con le fiabe (quelle fiabe che si raccontavano ai tempi in cui Berta filava…) non si discute: basta a dimostrarlo il fatto che decisamente anseriforme è la protagonista di una delle più diffuse storie di matrimonio ferico, la fanciulla-cigno;¹⁰ né ciò accade solo in Occidente; in sanscrito, per esempio, Hasá-pāda (Pié d’oca) è il nome di un’Apsaras, una ninfa celeste, cioè, in sostanza, una fata. D’altro canto, ancora una volta, a livello figurativo fanciulle-cigno sono attestate sin da tempi molto antichi: e chissà quali storie si associavano loro.

    Il piede anserino (o, peggio, l’artiglio da rapace) è senza dubbio segno del carattere oscuro delle donne oltremondane che lo ostentano: non per nulla la sirena di Myrina →[F1.9] è colta nella posa del cordoglio. Non sempre tuttavia questo tratto è presente: sin da tempi remotissimi, possiamo avere solo le ali, appunto come accade nelle nostre ‘fatine cretine’. Non è questo ovviamente il luogo per tentare una morfologia comparata delle dee alate, che sarebbe di necessità complicata e vastissima, data l’enorme diffusione di questo tema iconico. Sarà tuttavia almeno il caso di dire che la dea alata appare spesso contraddistinta da una singolare impudicizia (per esempio nella tradizione siriana è spesso nuda, e ostenta il sesso →[F1.13]), e appare dedita a una sorta di amorevole tutela dei suoi protetti. Lo mostra con evidenza l’arte egizia, dove le dee alate non solo abbondano, ma sembrano possedere una funzione a metà strada, diciamo così, fra quella delle nostre fate madrine e quella dell’angelo custode, come un’Iside del British Museum →[F1.14] che sostiene e protegge il giovane Arpocrate-Faraone con le sue braccia dotate di ali.

    Anche l’antichità classica, s’intende, conosceva questa figura, e ne fece soprattutto il simbolo di buona fortuna: è Nike, o Victoria, la dea regale figlia dell’oceanina Stige e del titano Pallante, e sorella di Zelos, Bia e Kratos, rispettivamente ‘l’Ardore’, ‘la Forza’ e ‘la Potenza’: uniti insieme, i quattro fratelli costituiscono la concreta espressione del potere di Zeus, e, in quanto tali, circondano perpetuamente il suo trono.

    Nike-Victoria è particolarmente interessante per parecchie ragioni: non solo, giusta il suo nome, è apportatrice di vittoria, ma come le antiche dee mesopotamiche da cui deriva (e Ištar in primo luogo) è una datrice di sovranità; è spesso rappresentata discinta (o con un seno nudo), evidentemente per sottolineare il suo carattere insieme trofico e amorevole; ha un rapporto strettamente personale con il re (rapporto che il mito greco esprime facendo di Nike l’auriga di Zeus); ha una personalità plurima (per cui spesso si parla di Nikai, al plurale); infine, last but not least, da un lato viene spesso raffigurata come un essere di piccole dimensioni, che sta nella mano (di Atena nel Partenone, di Zeus a Olimpia), dall’altro rimane nella tradizione iconografica fino alla fine dell’antichità, come dimostra un solido di Teodosio del 395 d.C. →[F1.15], che rappresenta l’imperatore mentre trionfa su un nemico vinto reggendo in mano appunto un globo sormontato da una minuscola Vittoria alata che gli porge un serto d’alloro. Comprensibilmente, il Medioevo ereditò questo modulo iconico, tanto che in quella che è la prima vera raffigurazione di un re medievale, il cosiddetto frontale di Agilulfo, il re longobardo è affiancato da due Vittorie ― nettamente più piccole degli altri personaggi effigiati ― che gli porgono un corno potorio e reggono un cartiglio su cui campeggia la scritta Victuria →[F1.16].

    Non voglio sostenere che le fatine alate di oggi discendano direttamente dal rilievo Burney o dalla Nike classica; ma è difficile sottrarsi all’impressione che una linea continua e ininterrotta colleghi tutte queste figure, una connessione che, come un fiume carsico, è in gran parte sotterranea, cioè non documentata né documentabile, ma che sulla base delle pur frammentarie testimonianze giunte sino a noi possiamo postulare con sufficiente certezza, e che lega insieme tempi, luoghi e culture diversissimi. Altrimenti detto: se vogliamo comprendere cosa davvero sia una ‘fata’ non possiamo limitarci al solo campo di quell’occidente medievale e moderno che conosce con questo nome particolare le figure femminili di questo tipo.

    1.2 Antecedenti e analoghi

    Altre strade si potrebbero ugualmente seguire, non meno dirette, ma queste vie porterebbero comunque dalle antiche dee alle fate medievali. Si potrebbe magari partire proprio da Ištar, figlia del dio del cielo e sorella del dio del Sole, come Diana; connessa alla stella Venere e in quanto tale detta «Signora della luce risplendente», dea dell’amore, della fecondità, ma anche dea regale e signora della guerra. Di lei sappiamo fra l’altro, da un famoso brano dell’Epopea di Gilgamesh, che, come le fate, è una lussuriosa signora della metamorfosi; innamoratasi dell’eroe gli si offre con franca impudicizia («Orsù Gilgamesh, sii mio amante»), come le fate promettendo in cambio sovranità («re, nobili e principi si inchineranno davanti a te / le genti della montagna e il paese tutto ti saranno tributari»), e prosperità («le tue pecore figlieranno trigemini, le tue capre gemelli’»).¹¹ Gilgamesh però la rifiuta, rinfacciandole di cambiare troppo spesso amante, e di liquidare in malo modo i suoi vecchi amori (spesso animali: l’uccello Alallu, il leone, il cavallo), provocandone la morte, o trasformandoli: in lupo, come accade al pastore, o in una talpa, come nel caso del giardiniere Ishullanu. L’eroe paga caro questo rifiuto, perché Ištar, furibonda, come accade alle fate tradite pretende la sua morte. Avendo il tempo di farlo, si potrebbe continuare per questa via, raccogliendo, dalle culture più diverse, racconti del tutto analoghi, attestati a proposito di figure assolutamente indipendenti da Ištar, ma a lei per molti aspetti assai simili. Per esempio la Circe classica, figlia di Elio, che si offre a Pico e, da lui rifiutata, lo trasforma in picchio;¹² o la Mórrígan, celtica, la ‘grande regina’ o ‘la regina fantasma’, che in un manoscritto del IX secolo viene equiparata a Lilith, la quale nel Táin Bó Cúailnge tenta di sedurre l’eroe Cú Culainn, e, rifiutata, lo maledice, causandone la morte;¹³ o ancora la fanciulla celeste ossete figlia della Ruota di Balsæg, che, scesa dal cielo per offrirsi al narte Soslan, rifiutata da lui fa in modo che venga ucciso.¹⁴ Tutte queste dee hanno tratti comuni: non solo sono bellissime e propriamente splendenti, ma sono di nascita regale, e, più specificamente solare; sono signore della magia; appaiono legate agli animali ― Ištar non solo sceglie gli amanti tra le bestie o li trasforma in bestie quando li sostituisce, ma si fa vendicare dal toro celeste; Circe è propriamente ‘il falco’ e trasforma gli uomini che le si avvicinano in animali; Mórrígan si presenta più volte a Cuchulinn in forme animali; la figlia di Balsæg appare a Soslan in forma di daino. Inoltre bruciano d’amore per un mortale, e sono di una suscettibilità spietata, al punto che, in un modo o nell’altro, conducono alla morte l’amato che osa rifiutarle. Infine, e soprattutto, sono tutte protagoniste di un racconto che troviamo attestato infinite volte a proposito delle fate.

    I primi accenni diretti alle fate compaiono sul finire del Mondo antico, nel luminoso crepuscolo del paganesimo, e meritano di essere ricordati, perché, sebbene siano estremamente fugaci, e lascino un grande spazio al non detto, consentono però di collocare le ‘fate’ entro un ambito ben determinato.

    [T1.1] Il termine ‘fatuus’ viene dall’azione del parlare [‘fari’: cfr. in-fante, ‘colui che non parla’]: di qui i Fauni vengono chiamati Fatui e le Ninfe Fate […]. Perché anche i Fatui sono degli dèi, e sono detti anche Fauni, e non sono stolti, ma dicono molte cose e parlano.¹⁵

    [T1.2] Anche la terra stessa, laddove è impercorribile agli uomini, la riempiono gruppi di esseri antichi, che abitano le foreste, i boschi, le radure, i laghi e le fonti e sono chiamati Pani, Fauni, Foni, Satiri, Silvani, Ninfe, Fatui e Fatue o Fantue o anche Fane, da cui hanno preso nome i santuari (fana), poiché sogliono esercitare la divinazione. Tutti questi, dopo una lunga vita, muoiono come gli uomini, ma hanno tuttavia una capacità vivissima di presagire, di attaccare e di nuocere.¹⁶

    Per Elio Donato →[T1.1], grammatico della metà del IV secolo d.C., e per Marziano Capella→[T1.2], autore agli inizi del V secolo del De nuptiis Philologiae et Mercurii, poderosa enciclopedia allegorica amatissima per tutto il Medioevo, le fate sono dunque innanzitutto e soprattutto esseri reali, al pari degli uomini o degli animali, e abitano le selve, insieme a una numerosa compagnia di divinità rustiche e silvestri, di cui parlava già Ovidio all’inizio del I secolo: «…sono a me [Giove] soggetti i semidei, lo sono le divinità rurali (rustica numina), le Ninfe, i Fauni, i Satiri e i Silvani, abitatori dei monti», «voi, folla di dèi, Fauni, Satiri, Lari, Fiumi, Ninfe, razza di semidei…»¹⁷ Prese nel loro insieme, queste prime attestazioni sebbene stringatamente allusive, quasi che dell’argomento non si dovesse o si potesse parlare, appaiono però di grande interesse: per esempio perché sembrano far riferimento a nozioni così universalmente condivise che non vale la pena di approfondirle, e perché, data la natura plurale e in qualche modo indistinta di questi rustica numina, sembrano coglierli soltanto in gruppo: il che suggerisce che anche per noi moderni sia comunque inesatto e antistorico distinguere con troppa precisione ciò che per gli antichi formava, evidentemente un insieme omogeneo e compatto. Ora, da questi brani emergono almeno due punti importanti, che sarà bene tenere presente.

    1.2.1 ‒ Le fate sono le ninfe, tanto che Donato parla di Nymphae Fatuae, e le ninfe, a loro volta, sono giovani donne semidivine usualmente associate all’acqua.¹⁸ Propriamente si dividono in tre categorie, Naiadi, Oreadi e Driadi, hanno spesso potenza curativa: il loro culto è sempre strettamente connesso col paesaggio, e più in particolare con grotte, fonti e corsi d’acqua. Il rapporto con l’elemento liquido è vario ma sempre fortissimo: di volta in volta le ninfe sono legate ai fiumi (Potameidi, Epipotameidi), alle sorgenti (Naiadi, Crenaiai), alle paludi (Liminiadi, ecc.), alle acque in generale (Hydriades, Ephudriades); il termine più antico e generale che le distingue è nàiades, Ναϊάδες da νάειν, ‘fluire,’ e νἃμα, ‘acqua corrente’, che già Omero utilizza come sinonimo di νύμφη. Porfirio semplicemente distingue ninfe, potenze delle acque dolci, e nereidi, potenze delle acque del mare. Specificamente abitano le caverne, e sono esseri essenzialmente amorosi: i documenti antichi le raffigurano spesso vicino ai satiri eccitati, magari mentre danzano, o mentre giocano con i pastori: e il termine ‘ninfomania’ permette di capire di quali giochi esattamente si tratti.

    In quanto dee dell’acqua, le ninfe sono madri e nutrici di eroi, personificazione della forza vitale della natura, tanto che secondo un frammento di Eschilo (frgm. 355) «Tutta la vita discende da loro»; sono tuttavia anche in rapporto con il matrimonio, e in particolare con il bagno della sposa. Proprio come accade alle fate del folklore, le ninfe sono in generale benevole, ma possiedono anche un aspetto pericoloso e mortifero: per esempio rubano i bambini. L’epitaffio di una bimba di cinque anni suona: «Bimba amabile, perché ero graziosa, sono stata rapita dalle Naiadi, non dalla morte». Il mito classico più noto, a proposito di questo loro aspetto oscuro, è quello di Ila, il bellissimo giovinetto amato da Eracle di cui narra Teocrito.

    [T1.3] E andò il biondo Ila, andò a cercare l’acqua per la cena /di Eracle e dell’indomito Telamone ― /erano amici e sempre sedevano alla stessa tavola; /andò, e il suo vaso era di bronzo. Presto trovò una fonte, /[…] /In mezzo all’acqua, danzavano le Ninfe, /le Ninfe insonni, dée tremende ai contadini, / Eunìce e Malis e Nichela, che ha la primavera nello sguardo. / Il fanciullo accostò all’acqua la sua grande brocca, /per attingere: subito tutte gli afferrano la mano, /perché a tutte il tenero seno palpitava d’amore /per il ragazzo argivo. Cadde di colpo nell’acqua nera /[…] /Lui piangeva, sulle loro ginocchia lo tenevano le Ninfe, /e con dolci parole lo consolavano. /Il figlio di Anfitrione [Eracle], intanto, era ansioso; /partì in cerca del ragazzo, con il ricurvo arco scitico /e la clava, sempre pronta nella sua mano destra. /Tre volte chiamò Ila, con quanto fiato aveva in gola; /tre volte il ragazzo gli rispose, ma dal fondo dell’acqua la sua voce/ si sentiva appena: era vicino e sembrava lontanissimo.¹⁹

    Le ninfe sono poi pericolose in un’altra maniera perché, a mezzo il giorno, al colmo del caldo, turbano lo spirito di chi le vede.²⁰ Fatto significativo, infine, esse si presentano tradizionalmente in gruppo, nella maggior parte dei casi formato da tre donne, come accade regolarmente nelle sculture classiche, o nelle molte monete antiche che le raffigurano →[F1.17-F1.19].²¹

    Le Ninfe abitano le grotte e le caverne, stillanti acqua o sedi di una fonte, come la caverna di Phyle, o come l’antro descritto da Omero, alcuni memorabili versi dell’Odissea.

    [T1.4] C’è un porto, sacro a Forchis, il Vecchio del mare, / nell’isola d’Itaca; due punte s’avanzano /sporgendo a picco, e la baia proteggono; /fuori ne chiudono l’onde immani dei venti /violenti; e dentro senza ormeggio rimangono /le navi buoni scalmi, quando alla fonda sian giunte. /In capo alla baia c’è un olivo frondoso, /e lì vicino un antro amabile, oscuro, /sacro alle ninfe che si chiamano naiadi. /Dentro anfore stanno e crateri /di pietra; e là fanno il miele le api. /Telai di pietra vi sono, altissimi, dove le ninfe /tessono manti di porpora, stupore a vederli; /e vi sono acque perenni. L’antro ha due porte, /una da Borea, accessibile agli uomini, /l’altra dal Noto, è dei numi, e per quella /non passano gli uomini, degli immortali è la via.²²

    Valeva la pena di citare questi versi, se non altro perché ad essi è dedicato il più bel testo antico sulle ninfe, il De antro Nympharum di Porfirio, che interpreta l’antro come metafora del cosmo, e vede sostanzialmente nelle ninfe delle allegorie delle anime:

    [T1.5] Con Ninfe Naiadi indichiamo in senso specifico le potenze che presiedono alle acque. Ma i teologi designavano tutte le anime in generale che discendono nella generazione. Essi infatti ritenevano che tutte le anime si posassero sull’acqua che, come dice Numerio, è divinamente ispirata … Di qui il detto di Eraclito: ‘Per le anime è piacere, non morte, divenire umide’, cioè è un piacere cadere nella generazione; e altrove egli dice ‘noi viviamo la morte di quelle, e quelle vivono la nostra morte‘. Perciò, per Numerio, il poeta chiama ‘umidi’ coloro che sono nella generazione, avendo anime umide. Esse, infatti, amano il sangue e il seme umido, e le anime delle piante si nutrono di acqua. […] Le Ninfe Naiadi sono dunque le anime che discendono nella generazione. Da qui nasce anche l’uso di chiamare ‘ninfe’ le donne che si sposano, come se contraessero un vincolo al fine di generare […] e l’antro, dove si trovano acque perenni, è adatto alle Ninfe, che presiedono alle acque.²³

    Porfirio forse esagera con l’allegoresi; ma mette in qualche modo a fuoco un concetto fondamentale: le nostre Naiadi, belle e danzanti, umide e amorose, sono personificazioni dell’acqua in quanto liquido vitale: quel liquido che, come ha dimostrato Onians, mantiene la ψυχή e si perde con i morti: coloro che sono detti alibantes, cioè privi di umidità e che alla fine si disseccano in quello scheletro ― σκελετός, che deriva σκέλλειν ‘disseccare’.²⁴

    Sarebbe sbagliato credere che questo tipo di concetti appartenessero solo alle speculazioni dell’alta cultura di stampo neoplatonico; al contrario, si trattava certamente di credenze condivise, che come tali sono fedelmente riflesse nelle raffigurazioni delle ninfe: se come driadi dei boschi esse vengono raffigurate insieme agli alberi con cui condividono l’esistenza, come accade in un denario di Publio Accoleio Lariscolo del 43 a.C. →[F1.17], come naiadi compaiono regolarmente in associazione all’acqua, e la loro disponibilità erotica è espressa di solito dal fatto che vengono rappresentate nude o seminude. Così appaiono in un rilievo votivo conservato a Colonia →[F1.18], dove sovrastano i loro fiumi, rappresentati secondo la norma da teste maschili, mentre in una squisita statua romana della misteriosissima collezione Torlonia →[F1.20] una ninfa, anch’essa seminuda, tiene in mano una patera, da cui versa il fiotto delle acque. Ancora più esplicito è in proposito un sesterzio di Commodo, coniato a Marcianopoli intorno al 180 d.C. →[F1.19]: il rovescio raffigura tre naiadi, nude; la prima sta versando da un orcio, o più esattamente da un oinochoe, dell’acqua sopra un delfino, mentre l’ultima tiene una ghirlanda sopra un altro oinochoe. Può essere interessante confrontare queste due ultime immagini con le due immagini di Melusina alla fonte che ornano il bell’incunabolo della traduzione fiamminga del romanzo di Jean d’Arras (En schone historie van Melusine, Geraert Leeu, Antwerpen, 1491) →[F1.23a-b]: la continuità della tradizione iconografica è evidente e non casuale: tra le Nymphae Fatuae del mondo antico e le fate del Medioevo c’è infatti un legame immediato e diretto.

    Queste naiadi delle fonti esprimono un principio mitico fondamentale e dimenticato: il fatto che le acque sono sempre e ovunque femminili, in quanto simboleggiano la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme, e alle quali esse tornano quando si dissolvono: non per nulla l’immersione nell’acqua, nel battesimo, simboleggia la regressione al preformale e la rinascita. Ciò è evidente in particolare nelle lingue indoeuropee, dove non solo il termine indoeuropeo per acqua, *āp-, è appunto genere femminile, ma dalle acque trae normalmente origine il principio femminile del cosmo. Le tre grandi dee dell’induismo sono da questo punto di vista estremamente significative: Lakshmi, consorte di Vishnu, nasce dalla frullatura dell’oceano; Devi o Durga, paredra di Shiva, di sé stessa dice nella Devi Upanishad: «Il mio luogo di nascita è nell’Oceano, Dentro le acque» (v. 7), mentre la paredra di Brahma, il creatore, si chiama Sarasvati, ‘colei che scorre’ ed è propriamente un fiume: e ciò non può stupire se ricordiamo che in Grecia dalle acque nasce Afrodite-Venere, che

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