Il Papa, il Vescovo, il Templare, l’Imperatore e il Popolo
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Questa storia nasce a Verona nella metà del 1100 e giunge fino ai giorni nostri nel terribile anno 1945.
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Anteprima del libro
Il Papa, il Vescovo, il Templare, l’Imperatore e il Popolo - Emanuele Corocher
edizioni
Copyright
Quasi tutti i personaggi e i fatti narrati nel romanzo sono verità storica.
Il libro rispetta le cronache del tempo
© Copyright Tralerighe libri
© Copyright Andrea Giannasi editore
Lucca, giugno 2021
1° edizione
Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).
ISBN 9788832281606
I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet: www.tralerighelibri.com
Il Papa, il Vescovo, il Templare, l’Imperatore e il Popolo. Tanti fatti misteriosi.
Sono passati più di settecento anni dalla soppressione dell’ordine templare ma i giornali e il mondo culturale parlano da mesi, dell’unica tomba templare al mondo, rinvenuta a Verona.
Questo reperto storico ha interessato persone in tutta la terra.
Scienziati e sacerdoti, gente famosa e perfetti sconosciuti, archeologi e paleontologi hanno dimostrato molta curiosità per i resti mortali del Maestro templare Arnau de Torroja, tanto da confrontarne il dna con suo fratello, il Vescovo Guglielmo, sepolto a Tarragona.
Mistero e fantasia hanno da sempre aleggiato attorno a questo ordine cavalleresco. Molti libri e film hanno cercato di svelarne la storia ma il mistero è ancora avvolto dalla calunnia e l’ignoranza.
Verona ha molte chiese con il simbolo dei cavalieri del Tempio e anche il sarcofago di Torroja aveva la croce patente templare, ovvero con le braccia di grandezza uguale. La croce aveva una spada stilizzata, incisa nel braccio inferiore.
La storia ricorda che Papa Clemente V, al momento della sospensione dell’ordine, aveva messo fuorilegge qualsiasi tentativo di ripristinarlo senza il consenso pontificio, lanciando addirittura la scomunica contro chiunque utilizzasse il nome e i segni distintivi del Tempio ma per Torroja questo non vale.
Clemente V è considerato dagli storici, un irrisoluto, che, dinanzi all’arroganza di Filippo il Bello, non seppe difendere i templari e si vide costretto a sacrificare l’esistenza dell’Ordine, pur di mantenere un modus vivendi della Chiesa con la Corona francese ed evitare uno scisma con i cattolici francesi.
È preferibile attenersi a questa valutazione e non certo vederlo come un astuto macchinatore, deciso e crudele, che coinvolse il re in un complotto anti-templare, ordito dalla Sede Apostolica stessa e non dalla Corona francese.
A Filippo il Bello, servivano soldi in tale quantità che solo il furto ai templari poteva soddisfarlo. Inventò accuse terribili nei loro confronti e torturò nelle sue carceri uomini devoti, fino a farli confessare peccati mai commessi. Il Papa che soffriva per un cancro allo stomaco non firmò mai la condanna a morte dei templari ma ne sciolse l’ordine nel tentativo di salvarli, dopo sette anni di processi.
Michele e Giuditta
Il Vescovo Ognibene abbassò la voce e sillabò le parole che dovevano entrare nella mente dell’amanuense: «Diritto canonico, di - rit - to ca - no - ni - co Michele.
Dobbiamo armarci di un testo da anteporre all’imperatore Federico I, una legge sacra superiore alle sue leggi imperiali, superiore ai suoi eruditi bolognesi, per il bene superiore della Chiesa».
Il giovane frate assentì e rispose: «Voi avete ragione, ma noi siamo soltanto quaranta scrivani. I testi da copiare sono molti più di duemila, anzi quasi quattromila. Dovremmo essere almeno il doppio impegnati soltanto in questo lavoro.
Ora, stiamo completando le tremila cause notarili ancora in sospeso. Stiamo aggiornando le registrazioni delle transizioni di terreni alla chiesa e al comune.
Se permettete un consiglio, eccellenza, potremmo usare il Capitolo della chiesa di Santa Maria in Organo. Il luogo è idoneo a contenere una quarantina di abili copiatori. La visione del lavoro di trascrizione del vostro Codice sarebbe limitata ad un unico luogo e sarebbe sufficiente un solo controllore.
Il sunto del Codice Graziano vi ha prosciugato le forze e la vista, in questi ultimi anni ma ora il Santo Padre ha un pozzo di conoscenza a cui attingere nelle controversie con l’imperatore Federico. Il vostro impegno non è stato inutile. È nostro compito farne pervenire una copia ad ogni alleato, come voi ci avete ordinato e credetemi, siamo a buon punto».
Mentre i due uomini conversavano, accordandosi sul prossimo enorme lavoro da compiere, erano spiati ed ascoltati da una donna.
Michele, molto preoccupato chiese informazioni sui lavori che avrebbero coinvolto di certo, i locali usati dai chierici: «L’antica chiesa dedicata a Sant’Elena, il primo luogo di culto cristiano, pur trovandosi a sinistra della cattedrale e per questo pensato immune, invece non è esente da polvere e immondizie varie.
Io vorrei che l’ecclesia matricularis che affianca l’antica struttura non venisse danneggiata o distrutta. I lavori proseguono ma sembra non terminino mai e gli operai vanno e vengono, sporcando ovunque, Don Bartolomeo lo può confermare».
Il vescovo guardò Don Bartolomeo mentre assentiva e poi rispose al fraticello: «Hai ragione. Bisogna sorvegliare meglio gli operai. Quel posto ha una lunga storia. Dopo che fu riconosciuta, la dipendenza del Capitolo, dal patriarca di Aquileia in persona, l’assemblea dei fratelli in fede, decise di costruire sul luogo dell’antica basilica una chiesa dedicata ai santi Giorgio e Zeno, per svolgervi le liturgie capitolari e tutto andava bene a parte qualche chierico che buttò la veste alle ortiche, per controversie con l’abate di allora.
La chiesa, fu seriamente danneggiata dal terremoto del 3 gennaio 1117, ma data la sua importanza venne ricostruita in pochi anni e una quarantina di anni fa, consacrata dal patriarca di Aquileia, Pellegrino. Ha seguito la stessa sorte dell’abbazia di San Pietro di Villanova nei territori dei miei cari parenti. Conoscete la mia beneficenza per quel cenobio».
Michele assentì e aggiunse: «Il sito dove oggi si trova l’abbazia era un antico luogo celtico, con svettante al centro una quercia, simbolo sacro per i druidi e particolarmente venerata dai popoli pagani. Il nome celtico della quercia è Duir che significa porta o entrata.
I primi padri della Chiesa, per distruggere
le antiche credenze eretiche, decisero di costruire proprio in quel posto il campanile della chiesa e così far entrare, attraverso una porta simbolica, nuovi cristiani: i pagani convertiti. Ora, sulla base romanica con il vostro aiuto economico, stanno ingrandendo il monastero e il campanile si eleva come una torre di difesa.
I Conti San Bonifacio sono senza eredi e sembra che lasceranno i loro possedimenti al vescovado e non ai loro parenti di Ronco e Begosso».
Don Bartolomeo aggiunse: «Tutto torna. Il bene regalato senza interesse, si ripresenta. L’incendio della città per colpa delle battaglie tra i guelfi capeggiati dai Conti di San Bonifacio e i ghibellini capeggiati dai Montecchi e dai Crescenzi, ha coinvolto anche le case dei vescovi Bernardo e Teobaldo che vivevano qui prima di voi, ma a volte il male crea il bene e così noi abbiamo avuto l’occasione di costruire meglio.
Il nostro Sacro potere è ben raffigurato nell’architettura degli edifici. Un segno di potere che si vedrà nei secoli. Qui, c’è la storia della città, l’anima dei veronesi e bisogna proprio che lo dica agli operai di stare più attenti».
Quella chiesa, che era risaputo da tutti, sarebbe diventata il Duomo di Verona, brulicava di lavoratori. Carpentieri, muratori, falegnami, marmisti fabbri e scultori assieme ad alcuni pittori, stavano aggiustando e abbellendo la chiesa madre e le numerose case del Vescovo, dopo i terremoti e gli incendi che negli ultimi decenni avevano afflitto la città di Verona.
Il Papato aveva acconsentito alla riedificazione di molte chiese con le loro pertinenze e per fare questi lavori aveva chiesto all’imperatore tedesco, la restituzione di feudi e tesori.
I vescovi avevano vantato diritti su tante terre di dubbia pertinenza. Se non si poteva dimostrare con atti ufficiali che si possedevano i campi in cui si lavorava, magari da generazioni, i coloni venivano spogliati di tutto e il tutto assegnato alle chiese di pertinenza.
Appiattita al muro, nascosta da una impolverata, grande tenda di velluto, una giovane donna ascoltava i tre uomini. Sembrava un frate non una femmina. I lavori per il pranzo l’avevano assorbita per molto tempo e ora si era concessa il solito breve, lavoro d’ascolto, prima di scendere in laboratorio. Giuditta, voleva cogliere il momento favorevole per colpire quel vescovo che odiava perché aveva rovinato la sua famiglia, spogliandoli del lavoro e dei terreni che possedevano da decine di anni, gettandoli nella miseria e nella disperazione.
Nel giugno del 1171, il Vescovo Ognibene concedeva in locazione e in feudo perpetui, le terre situate nell’insula episcopatus Verone
, conosciuta anche come Isolo. La terra era formata da un braccio del fiume Adige, fra la città e il quartiere del Castello.
Il Vescovo l’aveva donata ad un gruppo di quarantacinque veronesi, eliminando dall’assegnazione, sua madre Primina, vedova da tre lustri, del più conosciuto falegname della zona. Grazie al lavoro di persone come loro, l’Isolo era diventato un nodo essenziale per il traffico fluviale.
Non si erano risparmiati Giulio e Primina, erano esemplari nello zelo lavorativo e avevano trascinato tanti colleghi veronesi a produrre lavori resistenti e unici.
Il commercio e le comunicazioni erano divenuti sempre più intensi in questo importante comune, della Pianura Padana. La segheria del padre era specializzata nel fare e riparare le imbarcazioni. Legno, pece e stoppa erano stati i compagni di gioco di Giuditta, Romolo e Michele che con il cuginetto Simeon formavano una bella compagnia di spensierati giovani.
Il Vescovo, nella sua idea di lottizzazione non prevedeva vedove
, aveva spiegato Don Bartolomeo alla famigliola che frequentava da quasi un ventennio.
La società si formava con gli uomini e anche se le vedove potevano sostituire i mariti venuti a mancare, nelle mansioni lavorative, non venivano invece considerate, nelle eredità.
Don Bartolomeo, il segretario di Ognibene, offrì lavoro di governante nella sua casa, a Primina, sulla quale aveva posato il suo avido sguardo fin dal giorno della vedovanza.
Giuditta lo ricordava come una figura sempre presente, nella sua casa.
Primina che aspettava un figlio, non