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Ghino di Tacco "detto il falco"
Ghino di Tacco "detto il falco"
Ghino di Tacco "detto il falco"
E-book273 pagine6 ore

Ghino di Tacco "detto il falco"

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Info su questo ebook

Dell’esistenza e delle vicende di un personaggio come Ghino di Tacco, legato al mondo medievale, poteva essere al corrente la cerchia di studiosi che a quel periodo hanno dedicato attenzioni e approfondimento.
Quello di Guidotti si tratta di un romanzo su base storica, incentrato sulla figura di questo nobile della potente famiglia dei Cacciaconti, potente in Siena nel decimo secolo per la sua fede ghibellina. Il nostro eroe rimase coinvolto nella guerra del 1301-1302 che vide in campo Margherita Aldobrandeschi da una parte, Papa Bonifacio VIII e i comuni guelfi di Siena e Orvieto, dall’altra.
L’invenzione romanzesca di Guidotti è felice, come felice appare il suo stile narrativo, sia nel descrivere scene e ambienti, sia nello stendere i dialoghi fra i personaggi. Non poche pagine sono ricche di pathos e di un fascino straordinario: in particolare, quelle finali di un Ghino di Tacco ferito e catturato dai nemici, ormai alla fine, che vede, che ricorda, che sogna, forse, mentre le truppe muovono al combattimento. (G.Lugaresi).

LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2014
ISBN9781311169679
Ghino di Tacco "detto il falco"
Autore

Giancarlo Guidotti

Giancarlo Guidotti was born in Piancastagnaio- Siena. Graduated in Modern Letters at the Rome University, living in Padua. He has numerous literary contests: International Competition “The Patarina”Rome 1972 National Competition in Cosenza “Three Valleys 1988” Este National Competition Award 1990. He has collaborated with cultural Italian and foreign magazines. His wirks have been published in journals: The Literary Fair, Future of Europe. On Anthologies: Graffiti Club degli Editori 1977. Writers of World War II 1989. Broad national consensus of literary criticism (Book Fair Turin) and foreign (International Frankfurt Fair, and Pensee Universelle in Paris) has received a critical essay on “De Sanctis and French Naturalism 1989. In 2001 he published the novel with historical background a heel “ Ghino di Tacco called the Hawk”. Tells the story of a noble now outlawed already mentioned by Dante Alighieri and reported by Boccaccio in the Decameron the episode of the abduction of the Abbot of Cluny. In 2001 he published “The Hawks Amiata” Historical-critical essay on the powerful family of Palatine Aldobrandeschi. In 2003 he published “Strokes of Light”. Novel memories and experiences in memory of Tiziana Rossi, a 19 year old girl in love with life, died in a car crash.( Reviewed and presented by Rai-2003) In 2005 he published “Ezzelino the tyrant” published by University Cleup Padova. Second printing in 2006. In 2007 he won the International competition for fiction Atheste, first prize with the historical novel Ezzelino the Tyrant. In 2008 he won the International competition for research Atheste historic first prize with the book “Francesco Petrarca.” (Presented at the RAI program “Benjamin”).

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    Anteprima del libro

    Ghino di Tacco "detto il falco" - Giancarlo Guidotti

    Giancarlo Guidotti

    GHINO DI TACCO

    detto IL FALCO

    Libreria PREOGETTO Editore

    IIntroduzione

    Il dato più sorprendente che emerge dalla storia della Toscana è il ripetersi, nel tempo, di cicli culturali di grande vigore e respiro internazionale, che hanno consentito di mantenere un elevato livello di civiltà, malgrado le divisioni politiche all’interno del suo territorio, le cruente lotte intestine e le situazioni contingenti che vi si sono succedute. La profonda identità culturale della Toscana, scaturisce innanzi tutto dall’irrepetibile ambiente in cui si è sviluppata, formato dalla morbida successione di colline, rotta a tratti da balze o da verdi catene di monti, delineate da estesi bacini solcati da lenti fiumi, fino alle pianure ubertose che raggiungono il mare. Nell’epoca dei castelli e dei Comuni la Toscana è terra inquieta, come sentisse il sangue ribollire dentro la furia del crescere. Reputo doveroso concedere al lettore qualche accenno su quella che poteva essere la situazione ambientale del Comune di Siena nei secoli XII e XIII, che nel tentativo di espandere la propria influenza sul territorio della Toscana, si trovò la strada sbarrata dalla ferrea resistenza dei grandi feudatari del contado limitrofo e a sud dai potenti conti palatini Aldobrandeschi, che con i loro castelli controllavano tutta la Maremma. A nord aveva Firenze la sua eterna rivale, e gli scontri si susseguivano inevitabili nel tentativo delle due città di allargare i propri confini. Il primo diretto scontro era avvenuto nel 1145; poi nella prima metà del Duecento, i fiorentini alleatisi con gli Aldobrandeschi, esercitarono una pressione congiunta su Siena da sud e da nord, ottenendo il libero passaggio per i porti di Talamone e di Porto Ercole, visto che ancora Pisa ostacolava il passaggio verso il Tirreno. Nel 1251, in un’ennesima guerra, che vide Firenze schierata con Genova, Lucca e Orvieto contro Siena, Pisa, Pistoia e Arezzo, i Fiorentini riuscirono a conquistare Pisa, garantendosi la via verso il mare e perdendo così interesse per i porti della Maremma. Successivamente nella famosa battaglia di Montaperti del 1260, i senesi con l’aiuto degli imperiali e dei fuoriusciti ghibellini di Firenze, riuscirono a riportare una strepitosa vittoria sui guelfi, e sembrava che Firenze dovesse essere stata fiaccata per sempre, ma quest’ultima riuscì ad assorbire rapidamente la sconfitta, i senesi non seppero o non poterono approfittare dell’occasione favorevole. Con la discesa di Carlo d’Angiò e la sconfitta e la morte di Corradino di Svevia, il partito guelfo riuscì a conquistare il predominio e Siena sconfitta nel 1269 a Colle Val d’Elsa e poi a Campaldino l’11 giugno 1289, si trovò costretta a darsi un regime guelfo e ad allearsi a Firenze in una posizione subordinata. All’interno della cerchia delle sue mura si verificò un processo politico e sociale particolare. Quando il dominio aristocratico del Comune divenne insopportabilmente ristretto, in rapporto al grande sviluppo della città, al moltiplicarsi della sua popolazione e al crescere e al moltiplicarsi delle sue attività mercantili, si verificò il presupposto di un più avanzato scontro sociale, che conobbe la violenza della passione e il conflitto degli interessi.

    La borghesia cittadina dimostrerà una visione precisa dei suoi valori politici ed etici e gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti del buono e cattivo governo, in città e in campagna, dipinti nel 1338 nel palazzo del Comune di Siena, sono il compendio classico della visione del mondo borghese. Con la nascita del Comune, le grandi famiglie comitali, dopo aver perso il loro potere all’interno della città, lo conservarono nelle zone circostanti. Nel senese c’erano tre grandi famiglie d’origine comitale: i Berardenghi; gli Scialenghi e gli Ardengheschi-Guglieschi, conti di Siena nell’XI secolo. Le suddette casate dettero origine, a loro volta, ad altre casate. Dagli Scialenghi, ebbero origine i Cacciaconti, la famiglia di Ghino di Tacco. Negli anni ’70 del Duecento, il regime guelfo di Siena cercò di cancellare la signoria dei Cacciaconti. Risalgono proprio a questo periodo le imprese dei due fratelli Tacco e Ghino, rispettivamente padre e zio di Ghino.

    Infatti entro il 1280, i due Cacciaconti si erano messi a capo di un vasto movimento di resistenza anti-guelfa, che interessò gran parte della zona situata a sud-est di Siena, fino alla Val di Chiana. Il Governo di Siena inviò ripetutamente dei contingenti militari, affinché ritornasse la calma nei territori soggetti all’autorità senese e fossero catturati i due ribelli. Contro di loro la Repubblica giunse a decretare la pena di morte per i continui assalti ai castelli e le razzie compiute. Nel 1285 Tacco Cacciaconti, fu catturato e condotto a Siena, e dopo essere stato torturato, venne pubblicamente giustiziato nella Piazza del campo. Il giudice che emise la sentenza fu Benincasa da Arezzo.

    E’ proprio in questa turbolenza, in un tale sommovimento di mondi diversi, che l’orizzonte dello stato senese viene attraversato, come da una meteora dalla figura di Ghino di Tacco. La sua è la tragedia di tutte le grandi famiglie feudali, e questo spiega anche il modo con cui ne parla Dante. Si tratta di un semplice cenno, ma quelle braccia fiere di Ghin di Tacco (Purg. VI, 14), sono l’espressione di una profonda ammirazione; anche Dante, infatti appartenente anche lui alla piccola nobiltà feudale, spodestata dai guelfi, doveva sentirsi solidale con Ghino, che aveva combattuto per mantenere i privilegi della sua casta.

    Si trattava dell’eterna lotta per la sopravvivenza: la nobiltà non si rassegnava a lasciare il passo al Comune che, ovunque in Italia, si stava affermando con i suoi commerci e la sua ricchezza. Si trattava di una società nuova che stava crescendo prepotentemente. Il dispotismo feudale era e doveva restare cosa di altri tempi, del passato; la nuova realtà politica, il Comune sentì la necessità di fissare una legge valida per la comunità, che fosse la direttiva di una potente società che esigeva e imponeva con la forza del diritto i valori di libertà e di sviluppo della sua gente. Quanto alla data della morte di Ghino di Tacco, la più probabile sembra possa essere il 1303, quando avvennero a Sinalunga tumulti e risse sanguinose, o altrimenti il 1313, quando Binduccio Cacciaconti, signore di Sinalunga e parente di Ghino, approfittando del disordine che si era creato in Toscana con la calata di Arrigo VII in Italia, si ribellò a Siena e si sottomise a quella repubblica, solo quando dopo la morte del sovrano, un grosso esercito fiaccò il suo impeto costringendolo a fare atto di sottomissione.

    Capitolo I

    Nell’ampio refettorio, dopo la cena e il ringraziamento, nel gradito tepore del grande braciere e nella luce diffusa delle torce fissate ai pilastri, il priore Aloisio si alzò per primo, ma rimase fermo al proprio posto, ergendosi in tutta la sua mole corpulenta.

    "Fratelli, ho ricevuto un altro messaggio dall’abate Desiderio nostro padre superiore, che il nostro confratello di oltralpe Hugo abate di Cluny, si trova in questo momento nella città di Siena e spera di essere ospite di questa abbazia nel giorno dieci di questo mese, e ci renderà onore della sua presenza per qualche giorno.

    Ci raccomanda di mettere la massima diligenza nei preparativi, in modo da accoglierlo con la massima cura".

    Forse Desiderio aveva veramente impartito quelle istruzioni, com’era suo dovere, ma era il priore Aloisio che le enfatizzava, vedendo se stesso, come faceva, quale tutore di quella comunità.

    I suoi grandi occhi si spostavano dall’uno all’altro tavolo, soffermandosi sui confratelli che avevano maggiori responsabilità.

    Fratello Luca, avete preparato la cella grande del priorato e tutto ciò che occorre per provvedere al mantenimento del seguito dell’abate Hugo? Perché avremo certo bisogno di ogni letto e di ogni piatto che sarà possibile procurarsi.

    Fratello Luca, aveva all’interno della comunità, la funzione di economo e il compito di provvedere alle varie necessità che i confratelli potevano incontrare nella vita di ogni giorno. La sua mente si staccava di rado dai suoi uffici, alzò vagamente lo sguardo, poi si riscosse e fissò il priore spalancando gli occhi.

    Tutto è pronto, sì, il nostro convento accoglierà degnamente il reverendo abate, disse amabilmente sorpreso che qualcuno avesse ritenuto necessario chiederglielo.

    L’abate di Cluny giunse all’abbazia il giorno undici sera scortato da un chierico novizio che aveva la funzione di inserviente e nello stesso tempo di segretario, e a qualche metro dietro la sua giumenta lo seguivano altri tre confratelli che tenevano a cavezza due muli carichi delle vettovaglie utili per quel lungo viaggio.

    Il portone delle mura di cinta del monastero era aperto, con torce accese ai due lati, in attesa del loro arrivo.

    Il priore, con l’aspetto solenne della circostanza lo aspettava, con la porta spalancata; gli si fece incontro e come l’abate Hugo scese dalla giumenta, lo abbracciò con un gesto pieno di rispetto e devozione.

    Grazie Aloisio, disse l’abate, per me è una grande gioia varcare la soglia di questo sacro luogo la cui fama mi è giunta fino nella lontana Cluny. Mi reco penitente sulla tomba del Principe degli Apostoli a Roma, ma prima devo far riposare questo mio povero corpo, reso sofferente da un male che ormai da troppo tempo rende penoso il mio pellegrinaggio su questa terra.

    Aloisio gli porse il braccio perché il confratello potesse appoggiare la mano e trovarvi sostegno nel salire il gradino del portale, che rispetto agli altri era leggermente più alto.

    Hugo era un uomo sui cinquanta anni, pingue ma gioviale nell’aspetto e nei modi, la fissità dello sguardo denotava però una grande fermezza nel carattere.

    Aloisio dette quindi disposizione agli inservienti di prendere le cavalcature e di alloggiarle nelle stalle che erano addossate all’alta cinta del monastero.

    All’interno del cenobio si apriva un viale alberato che nella terra di Toscana è caratterizzato dall’esile cipresso, pianta che, forse, più di ogni altra, per la sua forma affusolata verso l’alto, induce ad avvicinare il pensiero all’Aldilà.

    Il percorso che conduceva alla chiesa non era lungo, in quanto il monastero non aveva certamente le dimensioni della grande casa madre d’oltralpe.

    A sinistra e a destra, per un breve tratto, si stendevano gli orti dove il lavoro degli inservienti avevano avuto ragione sulla durezza del terreno argilloso. Sul fondo alcune costruzioni erano poste a ridosso della chiesa abbaziale, al centro la casa del priore, mentre quella dei pellegrini era collocata all’estremo lato dell’ampio piazzale che si apriva di fronte al portale dell’abbazia.

    Sulla sinistra una serie di quartieri colonici si appoggiavano ad un'alta cinta di mura che delimitava l’area dell’intero complesso di edifici.

    La sagoma severa della chiesa si stagliava davanti ai suoi occhi, quasi a testimoniare che il potere dell’ordine non si limitava alla sfera dello spirituale: non per niente, tra le cariche del monastero esisteva quella di far parte del consiglio del Comune di Siena, tramite il suo abate. L’abbazia possedeva, infatti, mulini, bestiame e vasti territori, giù, fino alla Maremma.

    Subito l’abate di Cluny venne colpito dalla magnificenza del coro e dalla ricchezza delle decorazioni, soprattutto dei capitelli delle colonne della navata centrale: foglie a forma di lancia, piatte, striate, foglie d’acanto che s’intrecciavano in infinite volute.

    Per un attimo, rimase lì estasiato a seguire con lo sguardo quella foresta di pietra. Tra i pilastri che reggevano l’imponente volta della navata centrale, si udiva solo il rumore dei passi e le preghiere di due monaci in ginocchio davanti ad un reliquiario illuminato da una selva di candele.

    Inginocchiati dietro i monaci, Hugo e Aloisio si unirono alla loro preghiera. Dopo il segno della croce, i due monaci si alzarono e umilmente si avvicinarono all’abate, il quale con un sorriso rivolse loro il saluto:

    Il Signore sia con voi.

    ed essi risposero all’invito:

    E con il vostro spirito.

    Abituata la vista alla penombra, l’attenzione dell’abate venne colpita da una visione che gli si offrì quando fu ai piedi della lunga gradinata del presbiterio.

    I bagliori intermittenti di una lucerna avevano reso viva l’espressione di un volto impresso su una grande tavola. Hugo, fece alcuni passi avanti, quell’immagine aveva preso forma nella sua mente, ritornò indietro, si soffermò alcuni minuti, sembrò folgorato dallo sguardo sofferente di un gigantesco Cristo crocifisso.

    Scrutò il corpo macilento, quegli occhi sbarrati dal dolore che la morte aveva sorpreso aperti; avrebbe forse voluto vedere in essi un cenno di tenerezza e di comprensione per la sua persona, quella sua povera anima che nella penombra della chiesa, lontano dalla grandezza a cui era abituato nel suo monastero, si era come liberata dal vincolo del corpo che in quegli ultimi anni si era fatto sempre più pesante.

    I monaci erano negli stalli, quaranta figure rese uguali dall’abito, quaranta ombre a mala pena illuminate dal fuoco di un ampio braciere. Il canto dei salmi venne interrotto da un monaco che appoggiato il testo sul leggio lesse un breve passo della scrittura, quindi egli riprese il canto e a lui si unì la voce profonda dell’abate Te Deum laudamus.

    Fuori il cielo era buio, nell’aria si respirava una quiete che preludeva a una prossima caduta della neve.

    Terminato l’ufficio dei vespri, i servi tornarono alle loro mansioni e i monaci in silenzio si avviarono verso il refettorio: una sala molto ampia illuminata da grandi torce, dove tremori di luce radiosa lampeggiavano e svanivano, si ritraevano e si scontravano sulla pennellatura scura della stanza.

    Fratel Luca, seduto in ombra osservava il profilo tondeggiante dell’abate Hugo. Aloisio la percorse in tutta la sua lunghezza e invitò l’ospite a sedersi alla sua destra, gli altri monaci, immobili, con il cappuccio abbassato sul viso e le mani intrecciate sotto il pesante scapolare attesero il Benedicite del priore.

    La regola del nostro santo fondatore prevede un pasto parco - iniziò Aloisio dopo essersi seduto, e rivolto all’ospite illustre - ma…, d’altro canto la nostra mensa, come quella di quasi tutti i cenobi che sono prossimi alla grande via che porta alla città santa di Roma, non di rado ospitano personaggi di riguardo, e le abbazie sono orgogliose di offrire i frutti delle loro terre e i prodotti delle loro stalle.

    Veneranda dies - disse il priore alzando il tono della voce - giorno memorabile per noi nel quale le nostre modeste mura possono accogliere la presenza di un grande fratello, che nel nome del nostro fondatore è venuto a portarci la sua benedizione, sicuri che, come pellegrino, porterà sulla tomba del Principe degli Apostoli le preghiere che sono la voce della nostra comunità.

    L’ospite, appoggiate le spalle all’alto schienale, cercò con tutte le forze di prestare attenzione al sermone che il confratello in quel momento andava declamando di fronte a tutta la comunità.

    In questo pellegrinaggio che vi accingete a fare, il percorso è pieno di pericoli e angusto, come angusta e tortuosa è la via, anche se bella; e bello e stretto è il sentiero che conduce alla salvazione. Sentiero che è fuga dal vizio, mortificazione della carne e crescita della virtù.

    Il sermone che Aloisio aveva cominciato, per ingraziarsi l’attenzione e la benevolenza dell’ospite Hugo, finì per coinvolgerlo direttamente, invitando i confratelli per un momento al silenzio e alla riflessione sui tristi avvenimenti che in quegli anni stavano sovvertendo la società.

    Dopo di che il confratello aveva ripreso la lettura dei sacri testi accompagnato dal tintinnare sordo delle posate sulle ciotole di argilla nelle quali i monaci in quel momento provvedevano a consumare il magro pasto della sera, Aloisio si chinò con la testa sulla destra nella direzione dell’abate e con un timbro della voce complice: Voi conoscete bene la mia fedeltà, padre abate, esordì ammirando l’impassibilità di quella nobile maschera così incorniciata come io conosco la vostra. Ma abbiamo molto altro in comune e a me servirebbe sapere ciò che potete dirmi di quanto è accaduto a Siena.

    Me ne rendo pienamente conto, convenne l’abate con un mesto sorriso. Sono stato chiamato da chi aveva il diritto di chiamarmi e sono andato già sapendo come stavano le cose: la borghesia dei mercanti reclama nelle sue mani tutto il potere della repubblica contrastando ogni aspettativa della vecchia nobiltà della città.

    Nella voce secca e misurata dell’abate vi era qualcosa che indusse Aloisio a drizzare le orecchie, perché le scarne parole che Hugo aveva proferito facevano trapelare una gravità senza precedenti che poteva essere giudicata più che sospetta.

    Ma c’è stata allora una riunione in città? Voi vi avete partecipato, padre? disse Aloisio.

    Una riunione c’è stata, sì piuttosto breve e non molto chiara nel suo svolgimento. E’ stato in massima parte il nobile Piccolomini a parlare, l’abate lo disse in tono pacato e tollerante, ma era chiaro che lui non aveva fatto parte di quel gruppo.

    Ho avuto l’impressione, soggiunse Hugo, mentre faceva scivolare le due mani paffute sotto il pesante scapolare che avessero le idee un po’ confuse su ciò che avrebbero dovuto ribattere alle argomentazioni dei Tolomei, e li ho visti appartarsi come per consigliarsi. Allora, approfittando di quella pausa, si è fatto avanti un uomo che ha teso all’Alberti una pergamena chiedendogli poi di leggerla ad alta voce, con tanta sicurezza di sé che mi chiedo ancora come mai non lo abbia fatto il lui stesso. Invece l’Alberti l’ha aperta, ha preso a leggerla in silenzio e un attimo dopo stava tuonando infuriato che quello scritto costituiva un insulto a tutta la rispettabile assemblea presente: l’argomento era disdicevole, coloro che lo avevano sottoscritto erano potenziali nemici della classe nobiliare e in particolare della sua famiglia e lui non ne avrebbe letta una sola parola in un posto sacro come quello per la vita della città.

    Dopo di che - riferì mestamente l’abate - il Piccolomini, che in quel momento era rientrato con i suoi nella grande sala del Consiglio, gliel’ha strappata di mano e l’ha letta a voce altissima, sopraffacendo quella dell’Alberti e del Tolomei che cercavano di farlo tacere. Si trattava di una petizione a tutti i presenti e in particolare al podestà, perché vi fosse un ritorno alla normalità nei rapporti tra la nobiltà e la classe dei borghesi, che in quel momento avevano in mano le redini del potere.

    Io - ha precisato il Piccolomini - sono al servizio della Repubblica e sono qui ad accusare apertamente di fronte all’Assemblea tutti quei cittadini che con ogni mezzo e con il potere che detengono fanno in modo che certi personaggi, che la città ha bandito e condannato a morte in contumacia, possano venire riabilitati. So bene che le famiglie Tolomei e Alberti hanno avuto il merito di aver servito per molti anni la nostra Repubblica, lo stesso servizio che ora stiamo facendo in questo momento tutti noi; ma non possiamo accettare che un personaggio di questa famiglia, Ghino di Tacco, con le sue gesta brigantesche ostacoli e danneggi il commercio di Siena, così come stanno facendo altri come lui! Continuamente giungono alle nostre orecchie le lamentele dei mercanti che si vedono derubati della loro merce e per ultimo, fatto gravissimo, si tratta anche di commercianti fiorentini i quali si sono rivolti alla loro città perché ci facesse sapere che essa non avrebbe tollerato che i suoi cittadini dovessero subire abusi del genere.

    Il Piccolomini, rivolgendosi quindi con gesti concitati nei confronti dei presenti disse: Non possiamo e… non vogliamo che la tregua che esiste tra Firenze e Siena venga rotta da un brigante.

    Bravissimo!, esclamò uno dei presenti, invitando gli altri ad unirsi in un coro di approvazione alle parole del Piccolomini.

    L’abate di Cluny a giudicare dalla passione con cui raccontava quei fatti, quell’atto immotivato del Piccolomini che smentiva ogni finzione di buona volontà, di giustizia e di rappacificazione, rivelava di essere turbato nel profondo del cuore. Prima al vespro, ora a cena nel refettorio, gli era restato quel viso nella mente, così che prestò soltanto un’attenzione saltuaria alle letture che il fratello dal pulpito diffondeva con voce a tratti rotta da colpi di tosse e trovò qualche difficoltà persino a concentrarsi nelle preghiere. Per quanto potesse essere una sorta di preghiera anche ciò che era andato offrendo, con gratitudine, lode e umiltà al Creatore per i doni di quella giornata.

    Dopo di che l’abate si alzò con un imprudente scatto ed emise un gemito allo scricchiolio delle sue vecchie ossa, tracciò con un ampio gesto il segno della benedizione verso i monaci che riverenti se ne stavano immobili dritti al loro posto e che dopo essersi inchinati e aver pronunciato in coro amen, si disposero ad avviarsi verso il coro per l’ufficio della compieta.

    Si calarono di nuovo il cappuccio sul viso e allineati lungo il corridoio che conduceva al portale di mezzogiorno, intonarono l’antifona Adiutorium nostrum in nomine Domini.

    Hugo si avviò fuori in giardino, invece di recarsi alla sala del capitolo per le consuete letture della parola divina e rimase a lungo a osservare il cielo. Mancava ancora un’ora buona prima che il sole al tramonto cominciasse ad affondare dietro alle cime dei boschi delle colline circostanti.

    Quella sera era particolarmente affaticato, il viaggio di molte ore sul duro dorso del cavallo, e poi… quei dolori che non gli davano tregua, sentiva la stanchezza in tutte le membra; durante il canto del vespro lo avevano visto rannicchiarsi su se stesso più di una volta.

    Aloisio lo precedette a passi rapidi nella penombra del chiostro illuminato a tratti da qualche lume posto a rischiarare con la sua fiamma tremula il volto di qualche immagine sacra.

    Si era precipitato a chiudere le imposte della stretta finestra, aperta qualche minuto prima, in modo da far cambiare aria alla stanza a lungo rimasta chiusa, e che in quel momento, a causa del forte vento che si era levato, stavano sbattendo ripetutamente.

    L’abate si portò le palme delle mani alla bocca soffiandovi sopra, e proseguì in quel gesto per qualche istante.

    La stanza, non molto grande era fredda, su di una parete annerita, la vista di un camino però riuscì a rasserenare in quel momento il suo sguardo.

    Il priore intuì il pensiero che aveva attraversato la mente del confratello e disse: Spero che questa modesta dimora sia degna di onorare la vostra persona, provvederò che si accenda la fiamma del camino in modo che possiate riposare durante la notte che si è fatta già molto fredda.

    Hugo sembrò soddisfatto della sollecitudine di Aloisio e con gesto paternalistico approvò le sue parole e volendo rimarcare la

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