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L'Alba di Alwayr: Cronache dell'epoca Mu 2
L'Alba di Alwayr: Cronache dell'epoca Mu 2
L'Alba di Alwayr: Cronache dell'epoca Mu 2
E-book308 pagine4 ore

L'Alba di Alwayr: Cronache dell'epoca Mu 2

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Fantascienza - romanzo (235 pagine) - La libertà anche di morire è l’ultima speranza per costruire nuovi orizzonti. L'emozionante seguito di L'ultima terra oscura


Artes, il grande computer in simbiosi col Doma ha rimodellato il pianeta Alwayr  per obbedire agli ordini di Dolane. Ma ora vede in Reelve Bain lo Straniero una minaccia e insieme una speranza di rivalsa contro il suo signore.

Artes scatena contro Reelve Bain una caccia senza tregua per catturarlo, ma questo odio per un diverso risveglia anche la curiosità e le paure di quelli che ancora vivono nelle zone meno controllate. Perché Reelve Bain non porta solo la morte ma anche il desiderio di libertà da un sistema che sembra aver dato la felicità ma che in realtà ha distrutto prospettive e aspirazioni.


Mariangela Cerrino è nata a Torino. Esordisce come autrice a diciassette anni con la Casa Editrice Sonzogno di Milano, per la quale pubblica, con lo pseudonimo di May I. Cherry, una ventina di romanzi ambientati nell'epopea americana che si avvalgono delle copertine di G. Crepax. Si avvicina alla fantascienza e alla fantasy all'inizio degli anni '80. Collabora con racconti a Omni, a Futura per la Peruzzo Editori, alla collana Millemondi Mondadori, all'Enciclopedia della SF per Fanucci e aSolaris, oltreché a quotidiani e a settimanali. Con le Edizioni Nord ha pubblicato il romanzo L'ultima terra oscura (vincitore del Premio Italia 1990) e la raccolta di racconti Gli eredi della luce, poi riproposta nel 2008 nella collana MondadoriUrania Fantasy con il titolo Cronache dell'Epoca Mu.

Grande appassionata di storia e archeologia, è autrice per Longanesi di una trilogia di romanzi sugli Etruschi: I cieli dimenticati (1992), La via degli Dei (1993), La Porta sulla Notte (1995). Il primo e il terzo volume si aggiudicano nuovamente il Premio Italia. L'intero ciclo, raccolto in un unico volume di circa mille pagine, è stato pubblicato in Germania con un notevole successo tanto da raggiungere la quarta edizione.  Nel 1998 la trilogia è proposta in una versione ridotta nel ciclo Rasna, la saga del popolo Etrusco, Edizioni TEA. Questa versione nel 2001 è stata tradotta in Spagna. Sempre per Longanesi ha scritto il Ciclo dell'anno Mille, una serie di romanzi storici tradotti in Germania.

Nel 2008 esce per Armenia, in un unico volume di ottocento pagine, la trilogiaLisidrandaL'albero del mondoLe terre dell'animaLa coppa della vita, un fantasy per adulti che trae ispirazione dai miti e dalle antiche tradizioni religiose della Terra.

Nel 2010 Alàcran pubblica il romanzo storico Il Margine dell'Alba, incentrato sulle lotte di religione fra Cattolici e Valdesi nel XVI secolo, mentre Susalibri Edizioni ripropone il Ciclo dell'Anno Mille. Nell'ottobre 2012 per Rizzoli esce Absedium, Il Vento di Alesia, romanzo storico sulla Guerra di Gallia dal punto di vista dei Galli.

In ebook sono disponibili: La trilogia di Lisidranda (Delos Books), Il Ciclo dell'Anno Mille (Delos Books), Absedium, Rizzoli.

LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2021
ISBN9788825416695
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    Anteprima del libro

    L'Alba di Alwayr - Mariangela Cerrino

    9788825416077

    "Giacché non sai morire e rinascere,

    non sei che un viandante afflitto

    sulla terra oscura."

    Goethe

    Capitolo primo

    La scogliera era alta e nera, battuta dal vento che soffiava da occidente. Un sentiero appena tracciato l'accompagnava per un tratto, prima di piegarsi a scendere alla stretta spiaggia. Un tempo, a memoria dei vecchi, l'isola rocciosa di Skumi era visibile da quel punto per gran parte dell'anno; adesso le nebbie e i vapori la nascondevano, tranne che in rare occasioni, quando il vento mutava direzione soffiando da oriente, o quando l'inverno ne faceva un ricamo di ghiaccio galleggiante.

    Tuttavia Skumi era a poco più di duecento metri dalla spiaggia, e nel periodo dell'anno che la gente di Glysendia si ostinava a definire estate si poteva raggiungere quasi senza bagnarsi le ginocchia.

    L'isola era piccola, e nascondeva una spiaggetta di sabbia nera e una casa-fortezza abbandonata, ma ancora abbastanza solida da reggere all'inclemenza degli elementi. Come tutte le costruzioni di Glysendia era in gran parte sotterranea, e spuntava appena, con la sommità di una tozza cupola. La gente la chiamava la Torre di Belenia.

    A Bain non importava sapere perché avesse quel nome. La torre era sua, se non altro perché, di fatto, vi abitava.

    Nella torre si sentiva a proprio agio; aveva adibito l'ampia sala che ne occupava la base a suo rifugio, tralasciando le altre stanze e i passaggi che sarebbero stati difficili da illuminare e riscaldare. Non poteva permettersi una Macchina Guida che provvedesse a queste cose, e così aveva rimediato con un generatore, accettandone tutti i limiti.

    Nella sala aveva sistemato anche il letto, che la bella Heisel non disdegnava, e una cucina su cui non doveva penare troppo, perché non esistevano molte varianti per gustare la polpa dello stilf.

    A modo suo, Bain si sentiva soddisfatto. Lì, in quel momento, non aveva nulla da chiedere o da desiderare di più, o di diverso…

    Continuò ad accarezzare i seni piccoli di Heisel e la ragazza si lasciò sfuggire un sospiro e aprì gli occhi. Nella luce densa tutto di lei sembrava d'oro; i capelli e la pelle nuda e il khadi abbandonato a terra per l'impazienza.

    – Devo tornare a casa prima che faccia giorno – mormorò – e anche tu faresti bene a tornare.

    – Io non sono un Dolane e non sono tenuto alle regole – il tono di Bain era stato serio, ma lui non lo era, e si chinò a baciarla. La ragazza rise sommessamente, respingendolo senza convinzione.

    – Bain lo Straniero! Se vivi nella Casa dei Dolane, sono le nostre regole che devi rispettare, anche se Fyrseth dice che la tua istruzione è finita.

    – E che cosa me ne faccio dell'istruzione che mi ha dato, in un posto come questo? – la risposta di Bain era stata secca.

    – Stai ancora scherzando? – mormorò Heisel, incerta.

    Bain si era distratto, all'improvviso. Heisel rabbrividì sfiorando con lo sguardo la linea bella del suo profilo. Le labbra imbronciate lo facevano sembrare un ragazzo, ma i cupi occhi blu avevano qualcosa che metteva paura: forse era una specie di disperazione, una rabbia nascosta, o un segreto.

    Heisel ricordava Bain, quando era stato condotto bambino nella Casa dei Dolane: un bambino di dieci anni diverso dagli altri, chiuso e taciturno, che sembrava conoscere molto più di quanto un bambino poteva conoscere, ma che allo stesso tempo era incapace di parlarne.

    Gli occhi di quel bambino avevano gli stessi segreti e la trattenuta malinconia del Bain adulto.

    Bain lo Straniero: l'avevano chiamato così, e lo chiamavano ancora così.

    Tese le braccia per circondargli il collo e attrarlo a sé. Aveva paura per lui, ma non di lui, nonostante quello che gli altri dicevano. Bain tuttavia le prese le mani impedendole di toccarlo.

    – Sta venendo qualcuno – fu tutto quello che disse.

    Heisel seguì il suo sguardo e scoprì il pannello dei sensori ammiccare: Bain non amava gli strumenti e solitamente li relegava nell'angolo più nascosto, dove poteva ignorarli, ma anche così avevano finito per attrarre la sua attenzione.

    – Solo dei pazzi… o un'altra ragazza innamorata potrebbero venire a cercarti alla Torre di Belenia! – scherzò, ma Bain era già in piedi, e si stava vestendo. Un attimo dopo le porse il khadi.

    – Torna a casa, ma segui il sentiero basso e non quello della scogliera – le ordinò.

    – Così mi bagnerò! – protestò la ragazza, risentita.

    – Non ti farà troppo male. Sbrigati.

    Heisel accolse il khadi, ma tremò, quando la stoffa le sfiorò la pelle: aveva la sensazione netta e precisa di un pericolo imminente e si lasciò trascinare da quell'impressione.

    – Non voglio andare via! – ripeté, pronta a impuntarsi sulla decisione.

    Bain la mise in piedi bruscamente e le chiuse l'abito, lungo tanto da proteggerla dal freddo e, in effetti, da nasconderla alla vista; c'era una specie di gentilezza nel gesto, ma Heisel la percepì come un addio e gli voltò le spalle risentita.

    Il giovane la accompagnò fuori servendosi di uno degli sfiatatoi in disuso, che apriva la sua bocca vuota a ridosso della spiaggetta, ma Heisel imprecò sommessamente al primo impatto con l'acqua gelata, che le salì oltre le ginocchia. Indugiò a lasciare la mano di Bain.

    – Vieni anche tu – mormorò.

    – Non ancora – la risposta era sommessa, la voce appena un sussurro coperto dal suono delle onde; tuttavia lasciandola andare Bain avvertì l'abbandono. Una sensazione che lo ferì profondamente. Se avesse creduto nei presentimenti, poteva dire di averne appena avuto uno.

    E non era buono.

    Heisel era andata via. Nel buio non era più visibile. La immaginò, mentre correva nell'acqua bassa verso il sentiero ai piedi della parete rocciosa: il sentiero era protetto e assolutamente inimmaginabile per chiunque non fosse del posto, e quelli che stavano venendo non lo erano. Heisel correva veloce, e sarebbe stata al sicuro molto prima del loro arrivo.

    Rapidamente Bain tornò sui propri passi: la rete dei sensori che aveva portato l'allarme fino alla Torre di Belenia era sul sentiero principale, quello che scendeva dalla parete rocciosa e che era stato delimitato per tutta la sua lunghezza da una bassa intelaiatura d'acciaio. In realtà il compito dei sensori non era di proteggere Skumi dagli intrusi, ma di segnalare i banchi di stilf che venivano a morire sottocosta dopo aver deposto le uova. I sensori correvano all'interno dell'intelaiatura, così in realtà chi stava venendo poteva essere stato rilevato non necessariamente all'imbocco del sentiero, ma già nel tratto di guado, o addirittura all'approdo, un pontile corroso e per metà affondato.

    Bain tornò alla torre, ma non rientrò dallo sfiatatoio; la sua conoscenza del posto e il buio lo favorivano permettendogli di muoversi liberamente, mentre quelli che stavano venendo, chiunque fossero, non potevano fare altrettanto.

    Chiunque fossero.

    Bain non si era posto quella domanda. A Glysendia le regole di vita delle Famiglie si scontravano con le idee innovatrici e i tentativi di cambiamento della Compagnia Guida, ma in realtà le prime erano in dissolvimento da molto prima che la Compagnia iniziasse lo sfruttamento intensivo del terreno, ricco sotto la cresta gelata.

    Le Famiglie dei Dolane e dei Malvai contavano poco più di un migliaio di individui e quella dei Sernith si era estinta da più di un'era; ma se la Compagnia Guida non aveva portato speranze per quelle stirpi geneticamente segnate, non aveva portato nemmeno la rovina: le miniere erano automatizzate e richiedevano ben poco lavoro fornendo in cambio una discreta ricchezza, che la Compagnia divideva equamente.

    Sotto questo punto di vista, Bain doveva ammettere che le cose gli sembravano giuste.

    Il sistema delle Famiglie d'altra parte era tale che non c'erano individui liberi o al di fuori di esso; così a Glysendia non c'erano crimini, o meglio non c'erano criminali noti, il che forse non era la stessa cosa, ed era certamente il punto più dolente per la Compagnia Guida e il suo scrupoloso governo.

    La considerazione riportò Bain al punto di partenza: nessun appartenente alla famiglia Malvai sarebbe mai penetrato nella zona, che era dei Dolane; e nella famiglia dei Dolane, anche nei clan più lontani a quello di Fyrseth, tutti sapevano che la Torre di Belenia era sua. Nessuno avrebbe mai pensato di avvicinarsi senza farsi riconoscere.

    Quindi, chiunque fossero, non erano di Glysendia.

    All'improvviso vide i primi due: stavano armeggiando per aprire la porta principale. Le porte delle case-fortezza un tempo erano state qualcosa di notevole, ma questa era troppo malandata per resistere e Bain non aveva mai avuto necessità di dotarla di un congegno di chiusura degno di questo nome.

    La aprirono in trenta secondi. La debole luminosità del piccolo atrio da cui partivano le scale che scendevano li colpì in pieno: erano due uomini alti e massicci, portavano tute scure e mantelli termici che il vento tentava di strappare. Il primo dei due diresse il fascio luminoso di una lampada all'interno, investendo le scale e un cumulo di detriti in un angolo dell'atrio.

    Crolli troppo antichi a innocui per essere rimossi, aveva pensato Bain quando aveva preso possesso della torre. I due uomini tuttavia esitarono; se non fosse stato per il tepore e il chiarore che saliva dal basso non avrebbero faticato a credere il posto del tutto disabitato.

    – Questa sarebbe stata la tua fortuna – esclamò qualcuno alle sue spalle, in quel momento.

    Bain reagì d'istinto, prima ancora di chiedersi come aveva fatto l'uomo a dar voce ai suoi pensieri e ad arrivargli alle spalle senza che lo sentisse.

    Si girò, lasciandosi cadere a terra mentre l'altro lasciava partire l'ago sottile, appena un riflesso d'argento nel buio e un sibilo nell'aria fredda. L'arma che l'aveva mancato era piccola, quasi invisibile, nascosta nel pugno dell'uomo.

    Nel tornare alla torre tuttavia Bain aveva raccolto uno degli arpioni con cui tirava a riva le sacche di stilf: lo lanciò di rimando all'uomo, colpendolo in pieno petto, e un istante dopo era in piedi e aveva raccolto la sua arma. Nel minuscolo caricatore era rimasta la punta luminosa di un secondo ago.

    Bain s'immobilizzò quando uno dei due uomini entrati nella torre si precipitò sulla porta, richiamato dal grido strozzato del compagno caduto.

    – Non c'è niente là sotto che vale la pena di essere preso. Se è del bottino che cercate, avete sbagliato isola – lo fermò Bain, minacciandolo con la piccola arma.

    L'uomo restò zitto e immobile; qualunque cosa ci fosse nell'ago, era evidente che la temeva. Bain temeva invece il terzo uomo, ancora all'interno della torre, e temeva quello che adesso lo fronteggiava. La sorpresa per la sua reazione se ne sarebbe andata presto, e qualunque cosa fossero, era evidente che erano addestrati a ciò che stavano facendo.

    Arretrò quindi di un passo. Dall'interno della torre arrivò una specie di boato contenuto, quasi un tonfo, e subito dopo un'onda di calore, che frantumò gli sfiatatoi. Il terzo uomo arrivò su di corsa, seguito dalla luce dilagante delle fiamme che s'inerpicavano per le scale.

    Bain lasciò partire il secondo ago prima che l'uomo rimasto fuori potesse gridare un qualunque avvertimento al compagno. L'ago lo raggiunse in pieno petto, e l'uomo crollò con gli occhi sbarrati.

    L'altro saltò via, verso la spiaggia nera e la scogliera, e Bain rinunciò a corrergli dietro.

    All'improvviso solo, Bain ristette un attimo: il fuoco era arrivato a riempire l'atrio e ad aggredire il corpo del secondo uomo caduto, e il vento lo rompeva in creste luminose portandolo a morire sugli scogli. Non c'era nient'altro su Skumi che poteva bruciare.

    Bain cercò addosso al primo uomo un qualunque documento, ma non ne aveva. Era un uomo maturo, dal viso piatto e dai capelli striati di grigio; la sua tuta era logora, unta di lubrificante, e l'unica cosa di valore era stata la piccola arma con i suoi aghi scintillanti.

    Cercavano davvero soltanto del bottino?

    Forse gli Scorridori erano davvero arrivati a Glysendia, come si diceva da tempo. Le Famiglie accusavano la Compagnia Guida di averli attratti; in realtà gli Scorridori erano dei Non Registrati senza alcun diritto civile e nessuno poteva disporre di loro, almeno questo era quanto si diceva. Erano feroci, senza regole e senza onore; non rispettavano nulla e non temevano nulla, e nemmeno avevano qualcosa da perdere.

    Tranne la vita pensò Bain, ed è così che è andata stasera.

    Buttò la piccola arma nel fuoco e girò le spalle alla sua torre; non avrebbe più avuto Belenia e forse nemmeno la voglia di ricostruirla.

    Si sentiva furioso per questo, ma al tempo stesso la sua rabbia si era ancorata ai due uomini uccisi. Era la prima volta che uccideva, e tuttavia gli era venuto facile, trascinato da un impeto che non aveva compreso ma che era stato parte viva del suo essere, e che adesso non gli lasciava altra traccia che quella consapevolezza.

    Una paura lieve lo prese; una paura nuova, sconosciuta.

    Si mosse guardingo a raggiungere la spiaggetta nera e il sentiero sottocosta. Il vento si era rinforzato, e la notte era colma del fragore delle onde sugli scogli. Null'altro, nemmeno una luce a tradire l'uomo fuggito.

    Poco più di un'ora dopo rientrava nella casa-fortezza dei Dolane dallo sfiatatoio di settentrione, che Heisel gli aveva lasciato aperto.

    Capitolo secondo

    Bain non era mai stato davvero parte della comunità di Fyrseth dei Dolane. Tuttavia, quando aveva raggiunto i diciotto anni, secondo l'uso gli avevano concesso una moglie, fragile come la spuma di mare al vento estivo e segnata fin dalla nascita da quello che era definito il male delle generazioni.

    Non lo aveva capito. Erano pur cresciuti insieme nella stessa casa, eppure non si era mai reso conto che i lunghi silenzi di Asil, le sue malinconie improvvise e i suoi vuoti di memoria erano il segno della malattia. Quando era diventata un'adolescente esile e bella, con la pelle bianchissima mai arrossata dal freddo o dal vento poiché si rifiutava di uscire all'aperto, Bain aveva sentito prepotente il richiamo per lei: qualcosa che veniva da molto lontano gli aveva fatto desiderare di poterla consolare.

    L'aveva chiesta, e nessuno si era opposto, sorprendendolo. Il matrimonio era stato celebrato da Fyrseth secondo le regole, e per i primi tempi era stato felice.

    Tuttavia Asil era peggiorata rapidamente, e si era perduta presto in una dimensione che nessun altro poteva condividere, nemmeno Bain. Dopo undici mesi non era praticamente più nel mondo, e il suo corpo fisico era soltanto un fantasma passeggero tra le ombre della casa.

    Bain l'aveva vegliata fino alla fine, in un'alba di primavera incendiata dall'aurora boreale, e quello stesso giorno aveva cercato rifugio a Belenia e aveva deciso di riattivare la torre; tutti avevano accolto la morte di Asil come un evento scontato, senza emozione né rimpianto, e Bain aveva avuto la sensazione di essere nel torto a soffrirne.

    Da quel momento la vita nella comunità gli era diventata ancora più pesante, e l'aveva limitata all'indispensabile: il tempo destinato allo studio delle discipline superiori e quello per il lavoro nelle miniere di Xaint, a pochi chilometri dalla casa-fortezza. Lo sfruttamento avveniva con gli impianti installati dalla Compagnia Guida, e in realtà il lavoro non era niente più che una supervisione degli automatismi. Assolutamente superflua, dal suo punto di vista.

    Poi era cominciata la storia con Heisel, un giorno d'estate a Belenia; Heisel aveva la sua età, e un marito impotente di cui aspettavano la morte da un anno all'altro con la stessa rassegnazione con cui avevano atteso quella di Asil. Non era stato difficile né per lui né per Heisel fare l'amore, quel giorno. Più difficile era stato instaurare una relazione stabile, in gran parte per sua colpa, e ovviamente la relazione, pur nota a tutti, era accuratamente ignorata all'interno della casa-fortezza.

    Conosceva quella casa in ogni suo angolo: ora la sentiva più fredda e ostile del solito. Troppo quieta nel passaggio di tempo che segnava il riposo notturno.

    E nemica.

    Silenzioso, sfilò lungo il corridoio centrale, inabissandosi subito verso il settore antico, doveva aveva il suo spazio: appena una nicchia, in cui a malapena era contenuto un letto. A quella profondità la casa si fondeva spesso con la roccia, e in un incavo era stato ricavato un armadio, con un paio di ripiani, ma lui non aveva mai avuto nulla da riporvi: quel poco che aveva fatto davvero suo l'aveva portato a Belenia, e adesso era bruciato.

    Senza spogliarsi si allungò sul letto, teso, ad ascoltare i rumori usuali e tentando di cogliere quel qualcosa di stonato che forse era soltanto in lui.

    Forse era questa la paura.

    Aveva ucciso due uomini ma quel che era peggio aveva lasciato vivo il terzo… e si sorprese di quel ragionamento, perché non veniva dalla paura, ma dal calcolo, e non era stato certo Fyrseth a insegnargli a pensare in quel modo.

    Un paio d'ore filarono via nella quiete di tutte le notti; la casa-fortezza era ampia e c'erano state ere in cui aveva accolto fino a duecento e più individui. Ora, ospitandone una cinquantina, era come deserta.

    Il suono delle voci lo strappò all'improvviso dal dormiveglia in cui era piombato, e si era già tirato su nel momento in cui la paratia che chiudeva la nicchia veniva aperta.

    Quattro figli di Fyrseth, i più anziani, stavano dall'altra parte, ancora con gli abiti da notte a malapena nascosti dai mantelli e con l'aria spaventata di chi è stato svegliato bruscamente.

    – Vieni – ordinò il maggiore con l'autorità che gli veniva dalla posizione gerarchica – Fyrseth ti aspetta. C'è un problema.

    Bain abbozzò un sorriso feroce, muovendosi tuttavia a obbedire. L'uomo era stato insolitamente tenero a definirlo problema.

    Bain si sentì in trappola.

    Li seguì tuttavia fino alla sala comune; nella casa-fortezza erano accese le luci del giorno pieno e nella sala erano riuniti tutti, persino i bambini. Sfiorò con lo sguardo Heisel, ricavandone una misera consolazione, perché la ragazza si affrettò a guardare altrove.

    Fyrseth lo aspettava dando le spalle al robusto portale che si affacciava sul cortile interno; se ne vedeva una parte sui due schermi a lato del portale stesso, ma la visione era nebulosa, perché alcune luci esterne erano spente.

    Fyrseth lo guardò freddamente; sebbene non gli fosse mai stato ostile, non gli aveva mai nemmeno dimostrato un qualunque altro sentimento.

    – La casa è circondata dagli Scorridori – lo informò, brusco – dicono di essere gente di Alwayr e di essere pronti a bruciarla con noi dentro se non ti consegniamo, poiché è soltanto te che vogliono. Abbiamo deciso di consegnarti.

    Per un istante Bain si sentì perduto. Non gli importava perché lo volessero: quanto importava era che volessero proprio lui, e che non avesse alcuna possibilità di fuggire.

    – Tu sei uno straniero – aggiunse Fyrseth cercando una giustificazione – e la Casa non può correre pericoli per uno straniero.

    Questo è quanto i tuoi occhi mi hanno ripetuto per i quindici anni che ho vissuto qui, e finalmente l'hai detto, pensò Bain.

    Non dubitava che non avrebbero incendiato la casa: avevano incendiato la torre di Belenia senza pensarci un istante.

    Perchè? Solo per lui?

    Una delle donne anziane gli portò il mantello pesante; aveva occhi verdi, bellissimi, e gli sorrise appena. Non era del tutto pazza, ma la vena della follia correva in lei in certi momenti. A modo suo, tuttavia, era sempre stata gentile con lui, e la ringraziò.

    – Apri, se è così che ti sei accordato – disse quindi a Fyrseth, infilandosi l'indumento. Provava rabbia e delusione; ma – come aveva puntualizzato Fyrseth – era soltanto uno straniero. Uno che poteva essere abbandonato o venduto senza rimpianto.

    L'uomo tornò agli schermi, armeggiando per stabilire la comunicazione con l'esterno.

    – Sta venendo – fu tutto quello che disse – prendetelo e andatevene!

    Una luce abbagliante investì il cortile dilagando di rimando anche sugli schermi: gli Scorridori avevano un mezzo di trasporto, certamente un cingolato del tipo di quelli in uso nelle zone minerarie, e avevano puntato i fari sul portale principale.

    Fyrseth ne comandò l'apertura e Bain vi sgusciò attraverso.

    Per un attimo si sentì cieco nella gran luce, e tutto quello che avvertì fu la spinta del portale che si richiudeva alle sue spalle con uno scatto secco, precludendogli ogni pur vaga speranza di rientro.

    Nell'attimo d'immobilità il vento gli aggredì la pelle del viso.

    – Tieni le mani alzate! – ordinò qualcuno, di là dalla luce.

    – Guarda che questo fa dei brutti scherzi, Xas. Non farlo muovere! – urlò un altro di rimando.

    – La voglia di fare scherzi gli passerà presto – ribatté un terzo, restando una voce metallica dall'interno del mezzo – facciamo presto: portatelo dentro.

    L'uomo comparve all'improvviso, tagliando la luce. Bain lo valutò con un'occhiata: più alto di lui, più vecchio e non dissimile da quello che aveva ucciso a Skumi con l'arpione. Anche questo aveva una piccola arma scintillante, nel palmo della mano.

    – Sai come funzionano, non è vero? – esclamò, arrivandogli quasi davanti.

    – Se stai dicendo che mi uccidi per quei due morti sull'isola non farla tanto lunga – ribatté, senza muoversi.

    – Davvero non hai paura di morire? – insistette l'altro.

    Bain riuscì a cogliere il bagliore degli aghi nella bocca dell'arma. Non rispose.

    – Quest'arma non ti uccide – precisò l'uomo – ma ti lascia vivo in un corpo morto, così puoi immaginare quello che ha provato il nostro amico quando l'hai lasciato a bruciare davanti alla torre. Anche tu imparerai ad avere paura.

    – Muoviamoci! – tuonò di nuovo la voce dall'interno del mezzo.

    L'uomo gli fece un cenno, spostandosi di lato.

    – Cammina – ordinò, e Bain obbedì, le mani alte sul capo. Tre o quattro uomini gli si fecero intorno, e nel momento in cui si chinò per entrare dal portello posteriore del mezzo qualcuno lo spinse, colpendolo al capo.

    Scivolò all'interno, e fu buio.

    ARTES.

    Io non so quando mi è stato dato questo nome, né da chi lo ho avuto. Non è nemmeno un nome. È soltanto una parola mai esistita prima di me, e che non potrebbe esistere senza di me. Il significato non ha

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